Wimbledon e Nashville: come raccontare uno Slam?

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Wimbledon e Nashville: come raccontare uno Slam?

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TENNIS AL FEMMINILE – I Championships non sono solo la più importante manifestazione del tennis, sono anche una grande narrazione sportiva, con al via 128 potenziali protagoniste. E se si provasse a raccontare il torneo in modo differente anche giocatrici come Coco Vandeweghe, Garbine Muguruza e Tereza Smitkova potrebbero meritare il grande palcoscenico del Centrale

A dieci giorni dalla conclusione del torneo di Wimbledon credo si abbia la giusta distanza per fare qualche valutazione che vada oltre il puro dato tecnico: vorrei provare a ragionare sul modo in cui è presentato e seguito un torneo del grande Slam.

I tornei del grande Slam scandiscono il calendario tennistico: quattro volte all’anno si confrontano i migliori 128 tennisti del mondo alla ricerca di una vittoria che consente a chi la raggiunge di passare alla storia del proprio sport.
I 128 giocatori si affrontano nell’arco di due settimane in un tabellone a eliminazione diretta. La caratteristica di un torneo così strutturato è quella di avere come ultimo evento l’incontro decisivo, la finale; ma anche di avere una netta differenza tra il numero di partite giocate nella prima settimana rispetto a quelle della seconda.

Ad esempio il calendario femminile di Wimbledon, se non interferiscono le condizioni meteo, prevede che si giochino i primi tre turni dal primo lunedì al sabato, e gli ultimi quattro dal secondo lunedì al secondo sabato. In termini numerici significa che nei primi sei giorni si disputano 112 partite (64+32+16) mentre nei secondi sei giorni se ne disputano soltanto 15 (8+4+2+1). E’ una sperequazione molto marcata, che incide nel modo in cui il torneo viene presentato.
Se nella seconda settimana c’è la possibilità di prendere in considerazione praticamente tutte le partite, è inevitabile che per i primi turni si debbano fare delle scelte, privilegiando alcuni match rispetto ad altri.

Negli ultimi anni una svolta fondamentale si è avuta con la trasmissione in TV di molti campi contemporaneamente; questo ha allargato il respiro del racconto, ma non ha comunque eliminato il processo di selezione. A dire il vero, anche di fronte al gran numero di partite del primo turno (64 sono davvero tante) un modo per orientarsi c’è sempre: il ranking e le teste di serie. Facendo riferimento al computer, possiamo stabilire delle priorità e cercare di tenere sempre ben presenti i match da considerare importanti rispetto a quelli secondari.

Io però vorrei sostenere che è proprio questo atteggiamento strettamente legato al destino delle migliori e delle favorite, quello che trovo meno stimolante e che mi auguro possa venire in parte mitigato a favore di scelte differenti.

Credo sia venuto il momento di spiegare il titolo dell’articolo. “Nashville” si riferisce al film di Robert Altman (1975), che ha per soggetto il festival musicale che si svolge nella capitale del Tennessee.
Un film che è diventato una pietra miliare del cinema americano: per raccontare i cinque giorni di una grande kermesse canora (trasformata in una metafora della società statunitense) Altman rinuncia ad utilizzare il classico schema fatto di pochi personaggi che si muovono in una vicenda che cresce in “verticale”. Invece che affidarsi alla consueta divisione tra protagonisti principali e secondari, in Nashville la trama è a sviluppo orizzontale, e segue le storie di 24 differenti figure, tutte di importanza simile.
Il film si basa quindi sulla contemporaneità di molte vicende, grazie a due dozzine di ruoli di pari rilievo. Al momento di girare il film, per nessuno di quei ruoli Altman scelse un “divo”; nessuno degli attori era una superstar. Chi ha visto il film si ricorda che probabilmente sono due le scene più importanti.

Una è, abbastanza logicamente, quella finale, che coinvolge tutti i personaggi e molti abitanti della città nel parco di fronte al Partenone di Nashville (copia americana di quello greco). Magari qualcuno non ha visto il film e quindi evito di raccontarla, tanto la trama si può trovare ovunque.
Ma la seconda scena (che trovate QUI) è molto meno grandiosa: è quando il personaggio interpretato da Keith Carradine canta una canzone d’amore in un piccolo locale, e ciascuna di quattro differenti donne (tutti personaggi che abbiamo imparato a conoscere) presenti tra il pubblico crede, almeno all’inizio, che sia dedicata a se stessa.
Rispetto al festival, naturalmente si tratta di una questione marginale, ma è la struttura del racconto che la rende rilevante. All’interno della sua organizzazione corale, quindi, il film trova comunque momenti che emergono anche in modo inaspettato.

Perché citare Nashville? Perché i cinque giorni del festival canoro non sono poi così lontani dai primi sei di Wimbledon; e forse una modalità di narrazione più orizzontale potrebbe avere aspetti positivi nei primi giorni di torneo. Se uno Slam viene strutturato solo in funzione delle prime teste di serie e delle grandi favorite, secondo me finisce per perdere tante occasioni di racconto che la presenza di 128 potenziali personaggi offre.
Quasi ci si chiede il senso di una partecipazione così vasta se poi le seconde linee vengono prese in considerazione solo con la logica un po’ crudele di portarle al centro dell’attenzione quando il sorteggio le pone di fronte alle primissime, in confronti che la maggior parte delle volte hanno esito scontato.
Ecco, nei primi giorni di torneo si potrebbe pensare di allargare lo sguardo, qualche volta perfino perdendo di vista la meta finale ancora distante (chi vincerà il torneo), per provare a presentare storie e giocatrici meno conosciute. Si correrà il rischio di seguire vicende di tenniste che non hanno concrete possibilità di vincere, ma molto spesso ci si accorgerà che si tratta di protagoniste comunque degne di reggere la scena.

Ma perché farlo proprio in uno Slam?
Una delle differenze tra uno Slam e gli altri tornei sta nel fatto che il prestigio dell’avvenimento è tale per cui non sono i giocatori a qualificare il torneo, ma viceversa: è il torneo che dà prestigio ai giocatori e proietta una luce differente sulle partite, rendendo importanti incontri che disputati altrove conterebbero poco. Giocare in uno Slam è come esibirsi alla Scala o al Metropolitan: se in cartellone il protagonista è un giovane cantante (e non un nome celebrato) non viene vissuto come uno spettacolo di ripiego, ma diventa l’occasione per gli appassionati di scoprire nuove voci. Perché è l’importanza del teatro che cambia la prospettiva.

Per non ragionare in termini puramente teorici, voglio fare un esempio concreto. Nell’ultimo Wimbledon secondo me l’incontro di primo turno tra Muguruza e Vandeweghe avrebbe potuto essere collocato su un campo importante coperto dalla TV. Poteva essere una occasione ideale per provare ad allargare i temi del torneo. E, non lo dico per esagerare, l’avrei programmato sul centrale o sul campo 1.
Da una parte c’era una giocatrice capace a Parigi di eliminare Serena Williams e di impegnare strenuamente Maria Sharapova, e che aveva dichiarato che considerava l’erba la sua superficie preferita. Dall’altra c’era la fresca vincitrice di s’Hertogenbosh, torneo su erba conquistato partendo dalle qualificazioni.
Tutte e due giovani in crescita, e in un periodo di grande forma: ci sarebbero state molte buone ragioni per presentarle al grande pubblico. Anche le loro storie personali erano interessanti: da una parte una spagnola/venezuelana ancora incerta su quale cittadinanza prendere, dall’altra l’ultima rappresentante di una famiglia famosa nello sport americano. Ed entrambe, pur essendo poco più che ventenni, già passate attraverso momenti di difficoltà (infortuni, problemi di peso, e altro ancora che qui non descrivo per ragioni di sintesi).
Gli organizzatori di Wimbledon le hanno ignorate; ma io, testardamente, le ho comunque seguite al livescore; da quanto ho capito la partita sarebbe stata effettivamente all’altezza di uno stadio importante: una lotta molto equilibrata di due ore e mezza con match point salvati in diversi game, e conclusa solo 7-5 al terzo. Secondo me la loro era una parte di tabellone che avrebbe meritato più attenzione, perché c’era appunto il potenziale per raccontare storie interessanti. Il match lo ha vinto Coco Vandeweghe, e a quel punto avrei fatto il passo successivo,  cercando di valorizzare anche il turno seguente: Vandeweghe vs Smitkova.

Essendo coperta dalle telecamere ho potuto seguire la partita; ed è stata sorprendente perché ha finito per prevalere la teenager ceca. Dico sorprendente perché non so chi  conoscesse Tereza Smitkova prima di questo Wimbledon; io no. Se vi fidate del mio giudizio, posso dire che è stato comunque un match che avrebbe potuto tranquillamente reggere un palcoscenico più importante del campo 6. Anche in questo caso per ragioni di spazio non entro nel dettaglio della partita; mi limito a dire che  Coco ha finito per non dare la mano al giudice di sedia al termine del match…

A questo punto però mi direte: delle due protagoniste iniziali su cui avevi puntato (Muguruza e Vandeweghe) dopo appena due match nessuna era più in gara. Può capitare, ma il testimone dell’interesse sarebbe passato alla sorpresa Smitkova, che ha poi saputo raggiungere addirittura il lunedì successivo (vincendo il terzo turno 10-8 al terzo), prima di perdere da Lucie Safarova. E così ci sarebbe stata la possibilità di approfondire anche la storia di una diciannovenne ceca proveniente dalle qualificazioni, prima di lasciare tutto lo spazio, come ovvio nella seconda settimana, alle partite principali che determinano la vincente del 2014.

Mi rendo conto che scelte di questo genere rischiano di scontentare gli sponsor, i giornalisti più pigri (che si ritrovano a dover cercare notizie sulle tenniste di retrovia del circuito) e anche il pubblico più tradizionalista. Però qualche mossa coraggiosa da parte degli organizzatori, che vada in direzione di un approccio più allargato (alla Altman, appunto) secondo me meriterebbe di essere provata. Sono convinto che, se si sceglie con attenzione, così come al cinema si possono realizzare film straordinari senza attori famosissimi, allo stesso modo il tennis può offrire storie degne di essere raccontate anche se non coinvolgono le solite superstar.

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