Quello che i biografi non dicono (Clerici); Federer “Sono io il bello del tennis” (Quino)

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Quello che i biografi non dicono (Clerici); Federer “Sono io il bello del tennis” (Quino)

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A cura di Davide Uccella

Quello che i biografi non dicono (Gianni Clerici, La Repubblica, 24-08-2014)

QUANDO UNO DEI TRE maggiori editori italiani mi propose di scrivere una biografia di Federer, rimasi in forse per non più di trenta secondi. Lo stesso mi era accaduto con Pelè, ai tempi in cui sciaguratamente mi occupavo di calcio, e con Pietrangeli, uno dei modelli della religione detta tennis. Sospetto che le migliori biografie vadano dedicate ai defunti. Se si parla con il biografato, entrano in gioco altri elementi disadatti all’oggettività: simpatia o antipatia, umano rispetto per l’intimità, comprensione dei difetti, o eccesso di ammirazione per l’attività del ‘personaggio’, molto raramente simile alla ‘persona’.

Così, per comporre qualcosa che riguardasse Federer, non mi sono limitato a tutte le partite in cui, a partire dal Torneo di Milano 2001, Roger mi aveva incantato con i suoi gesti sublimi, non meno sublimi di un Nurejev o, per rimanere nel tennis, di un Hoad o di un Laver, che hanno vinto molto meno di Federer soltanto perché, ai loro tempi, ancora vigeva la distinzione di casta tra i signori dilettanti, che giocavano a Wimbledon, e i professionisti, che intascavano quattro dollari. Sono invece salito sullo sgabello della mia libreria, e ne ho tratto sei libri scritti su Federer. Di queste biografie avevo chiesto una volta a Roger, con cui non ho mai avuto l’onore di conversare, al di fuori delle pubbliche conferenze stampa, sempre in inglese, la lingua di sua mamma sudafricana. E Federer mi aveva risposto, a proposito di una di esse: «Più che leggerla, l’ho sfogliata. Non ho molto tempo». Simile risposta mi aveva causato qualche dubbio. Capivo che non si pile) più essere un campione se non si inizia ad allenarsi intorno ai quattro anni, e si continua, poi, dai dieci, a restare in campo cinque o sei ore al giorno. Mi dicevo tuttavia, delle due l’una: o la biografia doveva essere infedele o mal scritta, oppure la lettura non faceva parte delle abitudini del campione.

La biografia, del 2004, era stata scritta da un mio collega e amico, Roger Jaunin, del Journal de Genève che, per la verità, più che i tennisti ama i cavalli. Ma Roger è un buon giornalista, e la sua biografia meritava quantomeno un cenno, era preceduta da prefazione di Marc Rosset, l’unico tennista svizzero segnalatosi nella storia prima di Federer con la vittoria alle Olimpiadi di Barcellona; dalla quale si apprendeva che, non fosse stato tennista e fin troppo dedito alla playstation, Roger sarebbe divenuto un buonissimo sciatore, guarda caso per uno svizzero. Dal libro, venivo a sapere che Roger sarebbe stato anche un ottimo diplomatico: «Devo sempre dare di me l’immagine di qualcuno dabbene», affermava infatti dopo la vittoria a Wimbledon del 2003. La seconda delle biografie sarebbe stata composta da René Stauffer, altro amico del Tages Anzeiger, intitolata in Germania 11 Genio del Tennis, e tradotta in inglese, come tutti i libri di interesse mondiale. Dalle ben 252 pagine emerge nuovamente un aspetto, diciamo cosa, “ufficiale”, nel quale ammiriamo Roger nella sua attività di ambasciatore dell’Unicef, ma non solo tale. Infatti, sua mamma Linette diceva: «II primato ha fatto di mio figlio un perfezionista. Prima non prendeva niente sul serio e era sempre in ritardo. Ora prende il suo ruolo con molta serietà». Ma passiamo a Federer come esperienza religiosa, scritto dal famoso David Foster Wallace dopo ben una settimana passata a Wimbledon nel 2006. «Ci sono ben tre spiegazioni valide per l’ascesa di Federer», ci dice il Grande Scrittore mentre noi attendiamo in ginocchio. «La prima ha a che vedere col mistero e la metafisica, ed è, a mio avviso, la più vicina alla realtà. Le altre sono più tecniche, e funzionano meglio come giornalismo.

Ricordo di essermi permesso di chiedere a quel Maestro se, dopo aver visto 50 volte il torneo di Wimbledon e scritto 20 libri, potessi ritenermi in grado di accedere all’illuminazione. Non capì. Non meno misterioso I silenzi di Federer, del francese André Scala che, a proposito del Nostro Eroe, cita addirittura Epitteto. «I bravi giocatori di palla, come gli attori e i saggi, giungono a fare questa cosa difficilissima: porre un’attenzione immensa in ciò che non dà pensiero, ciò che è indifferente». Mi pare a questo punto di poter sorvolare su altri due immortali testi: Quello che imparo da Federer, di Marc Aebersold, e Comment j’ai couché avec Roger Federer? ( che in italiano suona ‘Come sono finito a letto con Federer?’ ) di Philippe Roi. Temo che, da tutto quanto ho scritto, non emergano maggiori informazioni private sulla natura di un grande campione, e continuo a ritenere agiografie quelle che sono spacciate per biografie. Federer, chi sarà costui? 

Intervista a Roger Federer – Federer “Sono io il bello del tennis” (Petit Quino, La Repubblica, 24-08-2014)

Sei luglio scorso, il tennista serbo Novak Djokovic sollevava tra i singhiozzi lo splendente trofeo da vincitore di Wimbledon e al microfono diceva, tra il serio e il faceto: «Grazie per avermi permesso di vincere, oggi». II destinatario del messaggio, un sorridente Roger Federer, era a pochi metri da lui e teneva tra le mani il trofeo del finalista. Indossava un completo bianco immacolato, quasi nessuna traccia di sudore, dopo ore estenuanti di gioco in cui aveva dato un’esibizione di classicismo che aveva costretto il suo avversario a giocare un combattutissimo quinto set nell’ultima finale del torneo di tennis più prestigioso del mondo. «Per questo vanta diciassette vittorie nei tornei Grand Slam, e per questo è stato il miglior giocatore di tutti i tempi», proseguiva Djokovic rendendo onore al suo avversario, sette volte vincitore di Wimbledon. Federer annuiva. Aveva appena dimostrato al mondo, con una sconfitta di stretta misura all’ultimo set, perché a trentatré anni appena compiuti e dopo sedici da professionista, continua a essere uno dei re di questo sport. E probabilmente l’ultimo esponente dell’eleganza nel tennis. Un ottimo modo per verificarlo di persona è stato recarmi nella località francese di Épernay, che ospita le cantine del più famoso produttore di champagne, una marca di cui Federer è l’ambasciatore. Il genio di Basilea si è presentato, dopo aver aperto lui stesso le porte a specchi in stile Versailles che danno accesso a un maestoso salone della residenza del Trianon, la palazzina fatta costruire da Jean-Rémy Moët, nipote del fondatore della casa Moët Er Chandon. Fisico slanciato di un metro e ottantasei, è entrato in abito blu scuro Dior e camicia Louis Vuitton bianca con pois bordeaux. I suoi modi da principe e la sua bonarietà sembrano confermare la qualifica attribuitagli tre anni fa da un sondaggio del Reputation Institute di “uomo che suscitava più fiducia’ al mondo dopo Nelson Mandela.

Non si stanca di sembrare così perfetto? «La cosa non mi tocca, io sono quello che sono. La gente può pensare che io sia perfetto, ma non lo sono affatto. Ho i miei problemi, faccio tanti sbagli, grazie ad essi imparo. Sono fiero di rappresentare bene il tennis e di prestare la mia immagine a grandi marchi. Se non mi divertissi a farlo, giuro che mollerei. A questo punto della mia vita, ho bisogno di fare cose che mi piacciano davvero. E’ vero che sono educato e rispettoso, e cerco di essere un esempio per i bambini. Ma se questo fa pensare che io finga o che sia perfetto, beh non è affatto così».

La nascita dei gemelli Leo e Lenny gli ha regalato altri pensieri, di recente. Ma allo stesso tempo Wimbledon gli ha ricordato l’ avanzata di un nuovo stereotipo che cerca di farsi largo in classifica. Raonic, Dimitrov, Kyrgios… Alti ( oltre il metro e novanta ) , robusti, una potenza nella battuta difficile da contenere. Di fronte a questo cambiamento di paradigma e alla pressione dei giovani, continua a brillare l’anzianità di Federer, attuale numero tre del mondo, il tennista che è rimasto numero uno della disciplina più a lungo di tutti: 302 settimane. Il segreto del suo successo sta ancora nel suo impegno nel mantenere la forza della battuta e nel dosare i passi per avanzare come una gazzella a rete, dimostrando chi comanda sul campo e imponendo il suo gioco di alta precisione che cerca l’avversario in contropiede con colpi vincenti e angoli impossibili di estrema bellezza, sia se eseguito con il suo diritto implacabile che con il suo rovescio. Colpi che David Foster Wallace, in un articolo del 2006, considerava così sublimi che nel vederli “rimani a bocca aperta e con gli occhi spalancati e cominci a fare dei rumori tanto che tua moglie viene di corsa dalla stanza accanto per vedere se stai bene”. Li definiva i “momenti Federer”.

Si sente l’ultimo esponente dell’eleganza nel mondo del tennis? «Non direi. Ma è vero che guardandomi indietro, a quello che era questo sport cinquanta o venticinque anni fa, quando arrivai a giocare contro Sampras, mi sento più vicino a quelli che giocavano in un modo molto classico. Oggi sono tutti ugualmente forti. Nella battuta, a rete, da fondo campo, nei movimenti… II tennis è diventato uno sport più di movimento che di tiri e di talento. E più il lavoro che la bravura che ti porta al vertice oggi. In questo senso, mi trovo svantaggiato rispetto allo stile attuale. Ho dovuto correggere molte cose nella mia carriera, ma sono fiero di averlo fatto in un modo che mi ha permesso di mantenere la mia eleganza».

Pensa che questo modo di giocare che lei rappresenta si tornerà a vedere ad altissimo livello? «Mi sembra difficile. Non mi pare che questo sport stia tornando a quello che era. Oggi tutti si muovono molto bene, battono con grande potenza… Forse accadrà tra vent’ anni, ma non oggi».

Oltre ad essere il giocatore che ha intascato più soldi grazie ai titoli vinti ( sessanta milioni di euro) , Forbesha stimato che i suoi sponsor gli facciano guadagnare più di trenta milioni di euro l’anno. Nonostante la tentazione di continuare a vivere solo dei proventi della sua immagine, lei è convinto di avere ancora molto da dire sul campo. «Non vedo ancora la fine della mia carriera. Ho dei figli, sono loro la mia priorità, ma amo il tennis e spero di continuare ancora a lungo. Poi, chissà cosa accadrà fra uno, tre o cinque anni? Non so quando andrò in pensione, ma vivo la cosa serenamente e spero di continuare a giocare il più a lungo possibile. Tutto dipende da come ti senti fisicamente e mentalmente. Molti si stancano, sono tentati di fare altro. Per me l’importante è rimanere il più a lungo possibile vincente sul campo e continuare a divertirmi nel farlo; finora, lo sforzo vale ancora la pena. Amo questo gioco, e amo vincere. Oggi più che mai posso scegliere i tornei che voglio, non mi sento in dovere di partecipare a quelli dove non mi va di andare. È tutto più rilassato. Così voglio giocare: senza la sensazione di doverlo fare».

Una questione di principio che la conduce al punto di vantarsi di non guardare più le partite di un torneo, quando viene eliminato. «Durante la finale degli ultimi Internazionali d’Italia a Roma stavo passeggiando con i miei figli in un bosco svizzero. Qualcuno mi ha detto: “Ha vinto Djokovic”. E io ho risposto: “Bene, bene”. Non mi suscita niente, nessuna sensazione. Mentre partecipo a un torneo, vedo tutte le partite. Studio i miei rivali, il terreno di gioco, il clima… Tutti gli elementi che contano. Ma quando la mia partecipazione a un campionato giunge al termine, spengo l’interruttore. Smetto di vedere le partite. Non mi interessa chi arriva alla finale, né chi la vince».

Sua moglie, Mirka Vavrinec, è stata una tennista come lui e, dopo essersi ritirata per un infortunio al piede, è diventata la sua ferrea rappresentante. Le sue figlie gemelle, Myla Rose e Charlene Riva, stanno per compiere cinque anni e hanno da poco avuto dei fratellini, gemelli anche loro, Leo e Lenny. Cosa vede oggi, quando si guarda allo specchio? «Semplice: un giocatore di tennis professionista, un marito, il padre di quattro figli».

E chi vuole essere dopo il tennis? «Un uomo dedito alla famiglia. Come lo sono adesso, ma forse dopo potrò godere di più momenti intimi con le persone a me più care, in Svizzera. E voglio dedicare più tempo a cose che non ho potuto fare. Oggi il più delle volte non posso decidere se voglio andare a sciare o partire per un weekend a sorpresa con mia moglie. O trascorrere una serata romantica con lei. Forse questo è il tipo di cose che spero di poter fare quando andrò in pensione».

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