Storia del tie-break: un'invenzione di Van Alen legata a Pancho Gonzales

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Storia del tie-break: un’invenzione di Van Alen legata a Pancho Gonzales

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TENNIS FOCUS – Una delle rivoluzioni più significative nella storia recente del tennis è stata senza dubbio rappresentata dall’introduzione del tie-break, letteralmente plasmato nel 1965 dalla geniale mente di Jimmy Van Alen. Ripercorriamo allora le tappe che portarono al suo dirompente arrivo nel nostro sport, e che oramai (quasi) nessuno si sognerebbe di mettere in discussione… Daniele Camoni

A molti il nome di James Henry “Jimmy” Van Alen probabilmente non dirà assolutamente nulla, ma se ricordiamo come costui sia stato il “padre” della International Tennis Hall of Fame (avente sede nella magnifica cornice del Casinò di Newport, nel Rhode Island) e, soprattutto, il creatore del tie-break, allora capiamo anche come l’importanza di questo incredibile personaggio tocchi pagine importanti della storia del tennis, che non possono essere certo trascurate.

Un sistema di punteggio all’apparenza così semplice e quasi banale come il tie-break, ovvero quei delicatissimi sette punti da raggiungere ad ogni costo e che troppe volte hanno rappresentato il confine tra una faticosa vittoria e una dolorosa sconfitta, in realtà nasconde una storia ben più complessa ed affascinante.

Tutto ha origine tra il 1955 ed il 1956, allorquando assistendo agli incontri di Pancho Gonzales (il miglior battitore e giocatore dell’epoca), Van Alen brevettò un ingegnoso sistema di punteggio che potesse in qualche modo arginare lo strapotere dello statunitense al servizio: nacque così il VASSS (Van Alen Streamlined Scoring System), con set da disputarsi ai 21 punti, alternandosi i giocatori al servizio ogni cinque punti e senza seconde palle. Il primitivo “sistema Van Alen” venne adottato per le edizioni ’55 e ’56 degli U.S. Pro Championships ma fu subito abbandonato a causa dello scarso successo riscosso (anche perché Gonzales continuò a dominare come se nulla fosse).

La spinta decisiva per l’introduzione del tie-break “tradizionale” arrivò però nel 1969, quando Charlie Pasarell e un 41enne Pancho Gonzales disputarono a Wimbledon uno degli incontri più epici di tutti i tempi: Gonzales vinse per 22-24, 1-6, 16-14, 6-3, 11-9 in 112 giochi, 5 ore e 12 minuti (ad allora, l’incontro più lungo nella storia di Wimbledon), annullando ben sette match – point. Nella “Bibbia di Wimbledon” di John Barrett (Wimbledon, the official history) si rinvengono succosi aneddoti: irritato dalla mancata sospensione per oscurità verso la fine del primo set, Gonzales gettò letteralmente via il secondo parziale, de facto forzando il Referee Mike Gibson a rimandare la prosecuzione dell’incontro al giorno dopo. Pancho otterrà la vittoria finale (si trattava di un primo turno), issandosi poi fino agli ottavi dove verrà sconfitto in quattro set da Arthur Ashe.

Van Alen creò allora, partendo dalle macerie del VASSS, un sistema di calcolo tale per cui avrebbe vinto il tie-break chi avesse raggiunto 5 punti (divenuti poi 7, ovvero secondo lo schema rimasto sino ad oggi immutato). I giocatori si sarebbero quindi alternati al servizio ogni due punti, con rispettive prime e seconde palle.

La ricezione dei diversi tornei fu varia e contrastata: lo U.S. Open lo adottò nel 1970 (da disputarsi sul 6-6; addirittura gli arbitri issavano sul seggiolone una piccola bandierina rossa per segnalare l’innovativo accadimento agli spettatori sugli spalti), e così l’Australian Open nel 1971 ed il Roland Garros nel 1973; Wimbledon lo accettò nel 1971 (da giocarsi in caso di 8-8, escluso il quinto set) e nel 1979 accettò si disputasse sul 6-6. In Coppa Davis bisognerà aspettare sino al 1989 (e chi non ha mai sentito dell’epica sfida tra McEnroe e Wilander del 1982; 9-7, 6-2, 15-17, 3-6, 8-6), con l’esclusione del set decisivo.

www.youtube.com/watch?v=t-60Bods2EU

Lo U.S. Open rimane tuttora l’unico Slam a prevedere il tie-break nel set decisivo, esteso per altro anche alle finali di doppio (maschili e femminili) dell’Australian Open e di Parigi; inoltre, nel 2001 l’Australian Open decise di sostituire il terzo set degli incontri di doppio misto con il famigerato (per chi scrive) long tie-break a 10 punti, seguito a ruota dagli altri Slam eccetto Wimbledon, che preferì non interrompere la tradizione (mantenendo il set decisivo senza tie-break).

L’invenzione del tie-break ha comunque apportato, col senno di poi, notevoli vantaggi o forse ha semplicemente anticipato l’inevitabile: alla luce del tennis odierno, pensare che ogni set possa andare avanti ad oltranza è quantomeno una follia, mentre fino ai primi anni Settanta giocando di serve&volley quasi sistematico, e con pause quasi nulle tra un punto e l’altro (leggasi: niente asciugamani dopo ogni punto, niente interminabili rimbalzi di palline al servizio o rituali apotropaici di ogni genere, etc.), i tempi di una partita rientravano nella “normalità” pur vedendosi spesso set conclusi in doppia cifra (10-8, 11-9, 12-10 etc.)

Soprattutto, il tie-break rende forse al meglio la dimensione di un vero campione, di coloro i quali hanno la forza di tenere i nervi saldi punto dopo punto e sanno sfruttare il minimo varco lasciato aperto dall’avversario, dopo aver magari annaspato per tutto il set. Ogni punto è importante, ogni momento è cruciale, la distanza tra la vittoria finale e la perdita di un set che può galvanizzare l’avversario è ridotta al minimo.

Non è un caso che la storia del tennis abbia proclamato a monumento perenne di questo sport, da tramandare alle generazioni future, proprio un tie-break, quello oramai celeberrimo della finale di Wimbledon 1980 tra John McEnroe e Björn Borg, Il tie-break per eccellenza: 34 punti di livello assoluto, match point e set point salvati da entrambi a ripetizione in una cascata di emozioni continue. Vincenti su vincenti in uno dei momenti più eccezionali della storia del tennis, sintetizzato da quel 18-16 che ancora luccica sull’erba di Wimbledon e che, esattamente un anno dopo, avrebbe incoronato MacGenius nuovo monarca incontrastato della racchetta.

Di partite emblematiche a suon di tie-break ve ne sono state diverse. Preferisco sintetizzarne semplicemente un paio, diverse ma magnificamente stupende entrambe, rimandando per il resto alla visione dei filmati di riferimento: in primisla semifinale di Wimbledon ’91 tra Stefan Edberg e Michael Stichin secundis i quarti di finale dello US Open 2001 tra Pete Sampras e Andre Agassi.

L’incontro dei Championships tra il biondo Stefan e Michael “il bistrattato” (l’ombra di Boris Becker avrebbe d’altronde oscurato qualsiasi suo connazionale e non solo) è un monumento alla classicità (quasi) perduta, un dipinto d’autore da parte di due raffinatissimi pennelli: a confronto, due tra i migliori rovesci ad una mano della storia del tennis e, soprattutto, tanto talento da parte di entrambi. Più potente Stich, più delicato Stefanello, l’incrocio di coincidenze e mancate tali non avrebbe potuto essere più preciso: Edberg puntava alla sua quarta finale consecutiva a Wimbledon (sempre contro Becker), Stich invece iniziava a farsi conoscere a grandi livelli e ad affacciarsi sui grandi palcoscenici (aveva appena raggiunto le semifinali a Parigi).

 

La sfida si disputò il 5 luglio, due giorni dopo la morte di Jimmy Van Alen, e quale miglior modo di onorarlo se non facendo rivivere al massimo la sua magica creatura: Edberg non cedette mai il servizio in tutta la partita, ma quei maledetti sette punti gli andarono di traverso per ben tre volte, e dovette arrendersi per 4-6, 7-6, 7-6, 7-6 al sorprendente tedesco, vincitore poi del titolo tra lo stupore generale. Avvisato della morte del veterano Jimmy, Edberg pronunciò una frase che la dice lunga sull’incontro disputato: “se Van Alen non fosse esistito, Michael ed io saremmo ancora lì fuori a giocare”. In finale Stich sorprese Boris Becker, vincendo in tre set il suo unico titolo del Grande Slam.

Passando da un incontro leggendario ad un altro, il 32esimo capitolo della rivalità tra Pete Sampras e Andre Agassi è un altro momento da incorniciare nella storia del tennis, probabilmente la sfida più bella ed emozionante tra i due americani. Il miglior servizio contro la miglior risposta, il serve&volley di Pete ed i passanti di Andre, i diritti al fulmicotone del “divin scimmione” contro i rovesci spaziali di Andreino: in breve, due fenomeni non più giovanissimi (30 anni Sampras, 31 Agassi) capaci di esprimersi al massimo per quattro set di livello siderale, in una delle migliori partite di tutti i tempi (espressione di cui ingenuamente si abusa spesso e volentieri). Palcoscenico dello spettacolo l’ormai storico Arthur Ashe Stadium di New York.

Agassi si impose nel primo parziale, Pete negli altri tre: 6-7, 7-6, 7-6, 7-6, numeri intrisi di una qualità davvero troppo alta per essere banalmente ridotta a quattro semplici tie-break. Non credo di esagerare se affermo di aver visto più che mai la completezza di tutto il repertorio tennistico in quell’incontro, o forse dovrei semplicemente parlare di anticipo, sensibilità, potenza di rara bellezza e tennis a tutto campo: i confini della normalità tennistica, dei colpi da manuale scolastico erano stati ampiamente varcati, le porte della leggenda si erano appena spalancate…

www.youtube.com/watch?v=cxcSRusVXK0

In conclusione, credo che l’invenzione del tie-break abbia dato – in più di quarant’anni di storia – magnifica prova di sé (nonostante agli inizi le reticenze dei giocatori fossero più che numerose), entrando ormai di diritto nel novero delle tendenzialmente immutabili regole del tennis. Tuttavia, molti potentati non si rassegnano all’idea di provare a cambiare le norme del gioco (anche le più basilari), se non altro per il megalomane desiderio di lasciare traccia (pessima) di sé ai posteri, nascondendosi pateticamente dietro il dito dell’innovazione e dello spettacolo : Etienne de Villiers e i suoi disastrosi (e fortunatamente falliti) progetti di rivoluzione tennistica servano da monito a tutti quelli che pensano di “prostituire” il tennis e la sua storia alle contingentate esigenze televisivo – commerciali e pubblicitarie. Credo tutti ne faremmo volentieri a meno.

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