Roger Federer: forse ancora poesia

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Roger Federer: forse ancora poesia

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Roger Federer ha tagliato il traguardo delle 1000 vittorie in carriera ieri a Brisbane. Come accade per molti, la sua longevità non fu prevista e diverse volte è parso sul punto del ritiro ai più. Ma mai a sé stesso.

Cari lettori, spero vogliate scusare l’intromissione, ma ho una settimana buca prima di rimettermi a giocare e ho pensato che potevo scrivere un piccolo articolo anch’io. Ho sempre sognato di cimentarmi nella scrittura, quindi vorrei raccontarvi oggi una storia. Una storia autobiografica.

Era il 2009, o giù di lì, quando un popolare giornalista mi definì “L’ultimo poeta morente”. Ok, lo so che voleva farmi un complimento, che l’accento in quella breve frase andava posto sulla seconda parola e non sull’ultima. Però io sono un po’ permaloso, e me la sono legata al dito. Non mi sentivo morente solo per aver perso in una finale sul cemento da Rafa, perché avevo vinto solo uno slam degli ultimi cinque. Erano fasi della carriera, chi gioca sa.

Così mi sono messo d’impegno e per dimostrare che non ero ancora finito, ho vinto il mio primo Roland Garros chiudendo il Career Slam, poi con Wimbledon ho sorpassato Sampras come giocatore più vincente di sempre nei Major, mi son ripreso il numero uno per un anno e ho fatto da lì in poi quattro finali consecutive vincendone tre.

A Parigi del 2010, ho perso dopo molto tempo, sei anni, prima delle semifinali. Per la prima volta dopo due anni e mezzo non sono arrivato in finale. Per alcuni di nuovo era un indizio della fine, ed in qualche senso avevano ragione, perché dopo altri tre anni ho perso prima dei quarti.

Infatti dopo gli Us Open 2011, quando per la prima volta da eoni chiusi un anno senza una vittoria slam, un altro giornalista famoso disse “Ma perché non si ritira?”. Devo ammettere che ci pensai, era una domanda ricorrente nella mia testa, non sapevo esattamente che risposta darle. Così decisi di rispondere con il mio sesto Masters, il mio settimo Wimbledon e riprendendomi di nuovo la vetta del ranking per sfondare le 300 settimane e l’ultimo grande record che mi mancava. Se James Bond viveva solo due volte, io ero già a tre.

Però sapete, cari lettori, come fai come non fai, la gente ha la memoria corta, sono abituati a vederti vincere, trionfare, dominare. E se vinci, trionfi, dòmini allora sei freddo come un frigo, non trasmetti pathos, sei un macchinario svizzero perfetto nel tennis ma che non genera emozione. Così ad alcuni non è parso vero che nel 2013 con il mal di schiena si potesse finalmente, certamente, inevitabilmente, cantare il mio Requiem.

Così per ripicca, mi son messo all’Opera e ho scoperto che per Verdi anche nel Requiem, movimento due, c’è il Dies Irae. “Mi piace”, mi son detto. E ne ho fatto il mio silente motto nel 2014. Ho vinto due 1000, finale a Wimbledon persa di un pelo, finale al Masters, coppa Davis perché il mio fido scudiero Stancho Panza ci teneva. Ho fatto persino il Kinder-Slam. E numero due che quasi quasi poteva persino essere un numero uno un’altra, ennesima, volta.

Ecco, se tre indizi fanno una prova, vorrei invitarvi ad aver rispetto dei poeti e non vendere troppo presto la pelle del frigo svizzero. E di tutti in generale. Perché siamo un po’ tutti poeti, noi giocatori, non solo chi ha uno stile classico, o chi è potente, o chi è geniale, o chi è tutte queste cose assieme come me. Fra milioni di forme uniche nella continuità dello spazio, dalle Alpi Svizzere alle Piramidi, dal Mississippi al Gange, a colpire una pallina gialla perfezionando il timing e imprimendo spin, noi abbiamo primeggiato. E quando dico “noi”, non intendo noi 10, o noi 100. Poeta lo è anche il numero 1500 del mondo. Poeta lo è persino Lammer.

Poeta lo è anche Rafa. Se io sono Montale, lui è Marinetti col futurismo del suo dritto esasperato così western sia nella presa sia nello stile, finendo come un lazo roteando sopra la testa da vero cowboy o bullboy, il ragazzo toro ha fatto zang tumb tumb 23 volte sul mio povero, poetico rovescio monomane. Lo ammetto. Come me è parso annientato, sconfitto, finito, come me è tornato come il Joker torna sempre da Batman.

Poeta lo è anche Nole, giocoso e fanciullesco al punto da non essere mai giudicato talentuoso quanto meriterebbe, un Rodari. Poeta lo è Gasquet e il suo Leopardiano malessere, poeta è il Baudelairiano Gulbis col suo dritto del male. Tutti un giorno nella polvere un altro sull’altar per colpa di una riga spizzicata, un nastro a sfavore. Esaltati quando tutto va bene, denigrati se a volte perdiamo le staffe: si sta come d’autunno, sugli alberi, il Fogna.

Ma torniamo alle cose più importanti, cioè il sottoscritto: sono euforico da ieri. Credo lo si sia visto come nelle dichiarazioni post partita non smettevo di ridere e salutare il box e fare battute con il mio nuovo amico Milos, che è molto più divertente del suo tennis. Sapete, sono arrivato a quota 1000 vittorie in carriera, non so se avete letto la news di striscio sui siti e i giornali. Voglio dire, mille è tanto, mi ci è voluto un sacco: il giorno della mia nascita è distante da quello della mia prima vittoria poco più di quanto quello sia distante da oggi. Da Raoux a Raonic, passando per il primo titolo contro Boutter a Milano. Quanti ricordi…

Vabbè, vi ho annoiati abbastanza, chiudo e porto i bimbi a vedere i canguri. Son sceso impugnando la racchetta almeno un milione di volte a rete, e sono ancora qui. Poeta? Certo. Ultimo? Forse. Morente? Non credo. Anzi non vedo l’ora di ricominciare altre mille battaglie e regalare, come diceva tanti anni fa il più grande complesso della storia della musica (li sto già facendo ascoltare a Leo e Lenny), Forse Ancora Poesia.

 

Roger Federer (per penna di Davide Orioli)

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