Federer & Freud. Cronaca di una malattia

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Federer & Freud. Cronaca di una malattia

Continua l’esplorazione dell’astronave ubitennis nell’universo della letteratura tennistica. Oggi un tuffo psichiatrico nel torneo di Roma del 2012. Una radiografia narrativa, con cartella clinica, di un evento globale e del suo campione più apollineo

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Zampieri P.P. (2014), Federer & Freud. Roma BNL 2102. Cronaca di una malattia-terapia, La Feluca Edizioni, Messina. (ebook)

Era Roma. Era primavera. Era Federer. Se non l’ultimo, il penultimo Federer italiano ad altissimi livelli. Per chi scrive, una delle ultime possibilità di vedere l’angelo dal vivo. Sembra pazzesco ma sono milioni i devotissimi convinti che quell’immagine sul proprio rettangolo luminoso coincida perfettamente con la realtà. È in verità un problema molto più ampio. Anche con i telegiornali succede così. Chi scrive decide di bucare la finzione di uno schermo e tuffarsi nel girone dantesco degli ottavi di finale al Foro Italico, annus domini 2012. Chi scrive non sta tanto bene. Ha una forma di schizofrenia dolcissima che gli fa confondere gli schermi con la realtà. Il suo mondo è perimetrale. Per guarire decide di uscire dalla sua stanza e andare a vedere dal vero l’unico essere umano davvero fuori dal perimetro del reale: Roger Federer. Con questi presupposti lisergici Federer&Freud è una spassosa cronaca narrativa della follia che gira attorno al mondo del tennis e un’inquietante analisi psicologica dei suoi maggiori protagonisti. Pazzi sono i tennisti, pazzi sono i tifosi, pazzi gli organizzatori, pazzi i prezzi e neanche chi scrive sta molto bene. A ben vedere la differenza tra il comfort domestico\televisivo di un ATP 1000 e la frenesia di una quindicina di partite spalmate in un chilometro piano, sotto un sole capitolino che spacca i culi e con intorno migliaia di sconosciuti deliranti pronti a uccidere è paragonabile alla distanza tra la perfezione plastica di un film porno e la complessa (e faticosa) meraviglia di una notte d’amore.

Ma si sa, i matti sono un’invenzione recente. Per millenni l’uomo si è relazionato con gli altri dentro la dimensione del rito e delle allucinazioni collettive. Fuori dalle zoomate televisive la realtà di diecimila sconosciuti seduti in tondo che respirano in sincrono, con i loro ventimila occhi fissi sulla metafora rappresentata da una pallina rotonda non è così distante da quelle dimensioni di trance comunitarie. Il tennis è teatro greco più Colosseo romano. Danza apollinea e arena. Sangue simbolico e briciole di pane. Ed è solo con le armi dell’antropologia che è possibile comprendere quella tensione muta che esplode prima in applausi e poi in urla beduine rivolte ad un cielo così bello che non ne vedrai mai più uno così. Hai visto la battaglia, hai visto il sangue e tu, eri lì. Quello scarico emotivo scatenato da una volée non è solo malattia, è terapia. Ad attraversare tutte le pagine c’è l’attesa spasmodica dell’angelo svizzero che sembra coinvolgere tutti (ma proprio tutti) e che ha davvero i connotati religiosi, ma di una religione totemica colta e ancestrale. L’attesa del totem salvifico è il motore narrativo del lungo racconto che avrà il climax finale in un centrale notturno che sembra sottovuoto tanta è l’attesa di Paganini. È in quel vuoto pneumatico che lo svizzero sembra muoversi senza gravità, svelando la sua funzione di medium, posto tra le nostre miserie e altre dimensioni a noi irraggiungibili. In mezzo ci sono fotografie narrative di tutti i migliori. Il passo della letteratura permette analogie impossibili alla cronaca. E con tale arma che viene spiegato il mistero del terrore nel cuore e nel gioco di Nadal, che vengono guardate le scie luminose della racchetta bianca di Djokovic (che ha i capelli che sembrano una pallina da tennis) e la sua misteriosa capacità telepatica nella risposta “come se andasse incontro ad un proiettile per salvare una bionda in un (pessimo) film americano”. Su Gasquet e Murray, uno stralcio: “Sono schizofrenico, la realtà coincide con quello che ho davanti, e davanti a me, a pochi metri c’è il celeberrimo, e celebralissimo rovescio di Richard Gasquet. Il più grande produttore di bestemmie transalpine. La maledizione dorata. L’elefante bianco avuto in dono da un dio maligno che non si può scambiare. Insomma quella cosa che ha trasformato un bel ragazzo francese in un fresco miliardario mangiato vivo da paure i cui unici attacchi che si ricordano da un paio d’anni sono quelli di panico. Bene, sto celebraterrimo rovescio non è come me lo aspettavo, assomiglia a quello che si percepisce in televisione ma con differenze enormi. Per carità è un signor rovescio. Davvero. Una specie di capolavoro cinetico che nega le leggi della fisica. Anche il suono è qualcosa che non avevo ancora sentito. Credo che la pallina si fermi sul piatto corde per un tempo che varia dal nulla al mese e mezzo. Però c’è qualcosa che non va. Percepisco una rigidità da qualche parte. L’alone di uno sforzo remoto seppellito chissà dove. Quella fluidità magica che ha fatto scattare a molti l’associazione con Mozart sembra imprigionata dentro qualcosa d’invisibile. Poi, proprio mentre la mia nuova compagna comincia ad emettere suoni disarticolati, capisco. Finalmente capisco. Il braccio è perfetto. L’ala d’angelo disegnata nell’aria è sublime. La cosa sbagliata è il corpo. Quel corpo così umano costretto a sostenere un movimento così divino. Quel corpo subisce lo stesso destino della psiche, non è la fonte di tutto ma una grande protesi al servizio di movimenti ultraterreni. Il risultato è una perfezione semplicemente insostenibile. Nessun corpo umano può reggere i movimenti antigravitazionali degli angeli. Insomma, non saprei come dirlo meglio, mi giro verso la mia nuova compagna pericolosamente vicina a un colpo di sole e le dico, “in quel colpo il corpo non partecipa”. Sorregge ma non partecipa. L’opposto di Murray. Quando lo scozzese colpisce il rovescio non si percepisce nessun attrito, nessuna resistenza, nessuna dissociazione, non c’è fonte e non c’è protesi. È tutto il corpo che colpisce in quel rovescio. La racchetta è solo il luogo dove tale movimento si scarica e la pallina il semplice luogo dell’impatto. Da un certo punto di vista i due colpi non potrebbero essere più distanti. Di là una perfezione insostenibile, di qua un’ordinarietà sublime. Comunque li si guardano due semidei in cui il lato divino è destinato a distruggere quello umano. Figure Tragiche. Semidei col fardello di illudere gli umani e col destino di morire il giorno dopo. Nelle finali Slam per Murray, in qualsiasi centimetro del suolo francese per Gasquet. Punto. Provare pietà per ragazzi miliardari non è una paradossale metafora della società di massa è semplicemente uno strano sport estremo e l’ultima frontiera dello snobismo. O della schizofrenia proletaria che bandiera rossa la trionferà.”

A impreziosire tale materiale narrativo e descrittivo c’è un tuffo sensoriale nell’epica battaglia tra Seppi e Wawrinka e un disincantato voyerismo nello scontro tutto sensualità e dispettucci tra Sharapova e Ivanovic che precede l’ingresso dell’angelo, il big bang del racconto e la sua diagnosi finale. Insomma un libro piccolo, denso e ambizioso. Collocabile in uno spettro che va da uno spassoso saggio narrativo con inquietanti implicazioni sociologiche e antropologiche a un pessimo calco di Wallace scritto da un suo patetico fan. A sigillare il lavoro, una preziosa prefazione di Picasso Petzschner che non è il lunatico tennista tedesco ma il suo alter-ego italiano. Ad avviso di chi scrive, il più bravo scrittore di tennis d’Italia. Tra quelli sconosciuti ovviamente. Guardare il suo blog Tennis e Psiche per credere. Un piccolo Bukowski che invece dei cavalli guarda la vita attraverso i tennisti (perdenti).

Ma chi scrive, per una volta, coincide con chi recensisce e anche se non si fa, spera di essere perdonato da chi legge. In fondo è solo un ebook, costa solo 4 euri, e chi scrive e chi legge fanno parte dell’unica pioneristica rubrica di recensioni di letteratura tennistica in Italia.

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Pier Paolo Zampieri

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