Boxe e tennis, Mayweather-Pacquiao storia di un Nadal-Federer qualunque: il miglior attacco è la difesa

Rubriche

Boxe e tennis, Mayweather-Pacquiao storia di un Nadal-Federer qualunque: il miglior attacco è la difesa

La boxe come metafora del tennis. Mayweather-Pacquiao come Nadal-Federer, difesa contro attacco. Distruggere è un attimo e costruire una vita. Ma alla fine dei giochi, ci sarà sempre uno che ha vinto ed un altro che è finito K.O.

Pubblicato

il

 

Questo articolo è stato scritto nel post Mayweather-Pacquiao, in contemporaneità con i Masters 1000 di Madrid e Roma e per tale ragione non è stato possibile pubblicarlo. Nonostante ciò ci sembra ancora oggi interessante e per questo abbiamo deciso di pubblicarlo, seppur in ritardo.

 

Il match del secolo l’ha vinto Mayweather. Alla sua maniera, battendo Pacquiao che ha perduto anche lui alla sua maniera. Uno in difesa, l’altro in attacco. Il giorno dopo credo avesse più mal di testa Mayweather che Pacquiao, ma questo non per negare la legittimità di un successo (a mio parere giustificato solo dagli ultimi round); bensì per dimostrare che il pugilato è davvero nobile arte, dove non conta quanto forte picchi se l’altro resta in piedi. Conta più il come.

Nel pugilato ci sono i giudici. Non servirebbero se uno dei due finisse a terra senza rialzarsi al 10; non servirebbero se ci fossero le macchinette segna colpi come tra i dilettanti alle Olimpiadi; o come ci saranno tra poco quando un sistema stile “hawk-eye” rileverà numero, posizione, velocità e peso dei cazzotti. E trarrà un algoritmo per stabilire chi ha vinto.

Ci sono i giudici e si sa, i giudici sono influenzabili. Non intendo corrompibili, ma suggestionabili. Tutti sapevano che Mayweather avrebbe danzato e toccato. Tutti sapevano che Pacquiao avrebbe stretto e picchiato. Non importa quanti pugni abbia dato l’uno o l’altro. Era il gioco delle parti: chi recitava meglio il copione impostogli dalla stampa e dalla critica sportiva avrebbe vinto. Mayweather, noioso da vedere in Tv come L’Almanacco del giorno dopo, recita decisamente meglio.

Di Maywether vs Pacquiao, almeno io personalmente, ne avevo già visti a bizzeffe. Perché poco cambia che uno sia americano, filippino, svizzero o spagnolo (quattro nazioni a caso). Di copioni recitati tra chi difende e chi attacca, ne è piena la storia sportiva e non solo.

Ho visto 33 volte Pacquiao cercare di venire avanti; per 10 volte riuscirci, per 23 farsi fermare dal fuoco di sbarramento altrui, da quel jab mancino alto, incrociato ed arrotato, nonché dalla altrui mobilità. L’ho visto 23 volte venire avanti scoprendosi ai passanti, a guardia bassa, e venire infilato. Senza giudici che potessero farsi influenzare. Senza poter dire che l’avversario non aveva fatto nulla per vincere. Solo matematica che procede secondo la tabellina del 15 e ci dice chi porta a casa il game.

Certo, se la boxe fosse ancora quella dei “bareknuckles” di fine ‘800, credo che Pacquiao sarebbe rimasto in piedi e Mayweather avrebbe raccolto i denti dal terreno. Certo, se la boxe fosse meno “show-time” e più belve sottratte alle strade e riversate sul ring, sarebbe venuto fuori qualcosa di diverso. Certo se quel quarto round in cui il filippino lo aveva messo alle corde fosse proseguito più a lungo… Certo se le corde, quelle nostre, dessero meno spin, o se l’erba fosse tagliata più lunga, credo che Pacquiao avrebbe avuto più chances. Ma forse inizio a confondere troppo le cose.

Il fatto è che si cresce con i film di Rocky e si parteggia per il pugile coraggioso, che si scopre, che vuole colpire, poco automa e tutto estro. E nei film di Stallone quel soggetto i matches li vince pure, e gli spacconi e i robot perdono quasi contenti di avere perso. Quando Mayweather, meritando, ha alzato le braccia (in America, a casa sua) sotto un cielo di “boooh”, ho visto Rocky al tappeto, il buio di Londra e le lacrime in Australia.

E’ la storia eterna di chi sa organizzarsi in trincea, in difesa, e aspetta che tu ti scopra un attimo. La storia eterna di chi confida nel fatto che la perfezione non esiste e, lentamente, con disciplina, attende l’errore da chi perfetto non può sempre essere. Perché distruggere è un attimo e costruire è una vita. Per carità, con grande stile e secondo le regole del gioco: perché un pugno è un pugno sia che te lo sia preparato scoprendo la punta del mento, sia che quella boccuccia la pizzichi appena. E un punto è un punto, sia che tu abbia giocato una volée bassa negli ultimi centimetri del campo, sia che il tuo avversario al decimo rovescio giocato sopra la spalla lo abbia messo fuori.

Le cose si confondono, è vero. Ma forse non è neanche un male. Perché se parlare male male male, ma proprio male, di Mayweather è impossibile, allora è giusto non parlare male di quei tennisti che in difesa ti riescono a rimettere tutto in campo, e che tanti bistrattano additandoli quasi fossero degli imbroglioni, dei furbi, dei giocatori che giocano “con troppo margine”, poco tennis e tanta base atletica.

Quei 23 incontri su 33 in cui io già avevo visto Mayweather battere Pacquiao non li hanno certo decisi dei giudici influenzabili e tifosi. Li hanno decisi il fatto che il più forte ha vinto. Ora si può speculare, e dire che Mayweather andasse troppo spesso in “clinch” per prendere tempo e frenare il ritmo altrui, come altri vanno in “clinch” per trenta e più secondi dopo ogni corsa, tra un servizio e l’altro. Ma quelli sono fattori di simpatia, che poco hanno a che fare con gli effettivi perché. Sono quei fattori che fanno dire “boooh” al pubblico di Las Vegas e scatenano i commenti sui blog, nei circoli del tennis, sugli spalti degli Internazionali.

I giudici esistono. Nel pugilato e anche nel tennis. Nel pugilato decidono, mentre nel tennis no. E come molti di noi, questi secondi giudici che non contano niente, senza giurisdizione e senza potere alcuno, amano Pacquiao perché come un salmone ha navigato per 12 round controcorrente; amano il Brasile dell’82 che nel viaggio di ritorno in aereo continuava ad attaccare; amano la forza irresistibile più della massa inamovibile e il giocatore di poker che rompe gli indugi e va all-in. Amano chi ha avuto la forza di imporre una visione nuova delle cose, e non apprezzano i conservatori. Chi ha cambiato gli stili nell’arte e nella società, chi si dichiara con coraggio o si ribella con orgoglio. I rivoluzionari attaccano, è nelle cose, e per questo sono sempre risultati più amati. Nessuno negli anni ’70 sventolava bandiere col volto di Breznev, vincente e stabile al potere: tutti sventolavano il “Che” morto stecchito su un tavolo boliviano. Siamo giudici influenzabili: se dovessimo decidere tra Federer e Nadal ai punti, sceglieremmo vanamente il primo.

Per molti giudici, nel tennis, perdere bene è meglio che vincere male. Questi giudici non fanno alzare le coppe, non fanno passare i turni, ma si ritrovano a parlare di colpi, di tocchi sublimi, di gesti bianchi e rovesci fluidi e vincenti, ritrovandosi così a scambiarsi idee. Scriveva La Rochefoucauld, che le piccole menti parlano di persone, le menti normali parlano dei fatti, le grandi menti di idee. Speculare su una sconfitta e trasformarla in una vittoria estetica ci eleva un po’, al di là della barbara matematica. Proiettare il quarto round di Pacquiao all’infinito, o tanti game e set di quelle 23 sconfitte, è frutto di inventiva: è un’idea.

Pacquiao ha perso e si sapeva già. Mayweather resta imbattuto, che è un po’ come dire “io ti ho battuto 23 volte su 33”. Il prossimo Federer contro Nadal, chiunque lo giochi, lo vincerà il secondo come storia insegna. Senza trucco e senza inganno. Solo perché la pallina deve finire nel campo altrui. Perché l’unico giudice che conta nel tennis è questa regola base. Da bordo campo disquisiremo, apprezzeremo una discesa a rete, ci riempiremo gli occhi di un taglio dato sotto alla palla o di un colpo vincente tirato senza dover mugolare. Ce ne andremo sconfitti ma saldi nella nostra convinzione del bello.

Ciò che non faremo mai sufficientemente è invece riflettere su quanto il tennis sia uno sport crudele, crudele almeno quanto la boxe. Perché anche se meno tumefatti non c’è verso che dal campo si esca tutti e due in piedi: davanti ad una platea di giudici decadenti e inoperosi, ci sarà sempre uno che ha vinto, ed un altro che è finito K.O.

 

Agostino Nigro

Continua a leggere
Commenti
Advertisement

⚠️ Warning, la newsletter di Ubitennis

Iscriviti a WARNING ⚠️

La nostra newsletter, divertente, arriva ogni venerdì ed è scritta con tanta competenza ed ironia. Privacy Policy.

 

Advertisement
Advertisement
Advertisement