Seppi, illusione sul Centrale. Murray guarisce in tempo (Clerici). Una Svizzera piccola ma grande (Marcotti). Ashe, il tennista gentile (Amuso). Federer smina la bomba Groth, l'uomo che serve a 236 orari (Crivelli).

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Seppi, illusione sul Centrale. Murray guarisce in tempo (Clerici). Una Svizzera piccola ma grande (Marcotti). Ashe, il tennista gentile (Amuso). Federer smina la bomba Groth, l’uomo che serve a 236 orari (Crivelli).

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Seppi, illusione sul Centrale. Murray guarisce in tempo (Gianni Clerici, La Repubblica)

Per ragioni fortunate mi trovavo iersera ospite del Club americano di Newport, che raccoglie la creme dei grandi campioni del passato. Simile occasione mi aveva spinto fianco al Presidente, l’americano Todd Martin, circondato da un gruppo di australiani vincitori a Wimbledon, quali Neale Fraser, John Newcombe, Fred Stolle e infine a Mark Woodforde, che ha vinto solo in doppio, ma qualcosa come sei volte. Mark aveva la cortesia di parlarmi degli italiani, e ripeteva qualcosa che condividevo completamente, un apprezzamento nei riguardi di Bolelli. Mi domandava se quel campione a metà non avesse cambiato troppi coach, e passava subito a citarmi l’altro italiano che conosceva, giusto Seppi: osservando che aveva, al riguardo, una viva ammirazione, non solo per lui ma per il suo allenatore, Massimo Sartori. Quando due persone instaurano un rapporto da padre e figlio – osservava – la vicenda diventa simile a una costante esistenziale: come i nostri figli si fanno maggiorenni, il nostro amore si mescola all’amicizia. E questo è ormai un caso rarissimo, perché non si fa altro che cambiare coach, quasi ci si trovasse a un sex-party, a inventarci un qualunque rapporto notturno. Simili considerazioni onorano certo il coach quanto il bravissimo trentino, che, peraltro, non ha potuto far molto di più di un pur generoso sparring partner, contro un Murray che sembra ritornato nella condizione che gli consentì non solo l’oro olimpico, ma la vittoria su questi stessi prati. Un Murray che, diversamente da Seppi, si è ritrovato nella condizione di cambiare più volte coach, dapprima mamma Judy, tanto saggia da lasciare il figlio a qualcuno indenne da un complesso di Elettra, per vederlo adottato da un Lendl che già aveva sofferto del complesso di ripetuto perdente negli Slam. Con Murray si è venuto così a creare un inedito caso che si ripeterà – spero – spesso nel futuro, quello della donna che consiglia l’amico, e lo accudisce: caso non insolito nella quotidianità, ma ignoto nello sport. Una partita che avrebbe forse maggiormente interessato i miei amici australiani sarebbe stata quella di una italiana che non conoscono, ma che rappresenta certo un caso psichico interessante. Camila Giorgi è, infatti, una giocatrice che ancora non ha cambiato coach, nel senso di allenatore che si può attribuire al padre. Senza essere stato tennista, suo padre Sergio la segue sin dalla più tenera età, da quando ritornò dall’Argentina per trovare ospitalità nella mia nativa Como. Se, dunque, Murray ha cercato orizzonti diversi da quelli familiari, Camila è ancora simile a una bambina che si muove nella sfera di influenza paterna. E impossibile a chi, come me, non è uno psichiatra, comprendere se simile rapporto sia positivo o meno per la ragazza, la quale mostra tuttavia un rendimento alterno, visto che tutti la considerano dotatissima. Affrontava oggi un’altra ragazza accudita dal padre, la danese di origini polacche Wozniacki, contro la quale era riuscita a realizzare due vittorie su tre. Mi sono reso conto, dai primi scambi, come ciò fosse potuto avvenire nel recente passato, per una superiore velocità di palla della Giorgi. Purtroppo oggi, per ragioni che mi sono ignote, il grafico di Camila saliva per poi scendere a picco, risalire e ancora affondare. In tribuna, il padre si mostrava alle telecamere ancor più disperato della bambina. E certo inesatto dire che Camila si sia sconfitta da sé, ancor prima che affermare che la Wozniacki l’abbia battuta. Anche ascoltando la sua conferenza stampa, non sono riuscito a capire le ragioni di una simile prestazione negativa. Infinitamente più comprensibile il buon match di Seppi, la sua iniziale incertezza a causa dello storico Centrale, e un improvviso ritorno anche a causa di un rallentamento di Murray. Il britannico iniziava d’un tratto a battere quasi avesse mutato sesso, a 120 l’ora, e Seppi ne profittava molto agevolmente. L’arrivo di un fisio mostrava anche ai più sorpresi, tra i quali lo scriba, che la ragione del rallentamento era un muscolo della spalla destra, un muscolo che, abilmente massaggiato, consentiva comunque al coraggioso Murray di riprendere il comando degli scambi, sino al decisivo 6-1.

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Una Svizzera piccola ma grande (Gabriele Marcotti, Corriere dello Sport)

Quattro atleti agli ottavi su cinque iscritti nei due tabelloni. Un en plein che regala alla piccola Svizzera un posto al sole nel tennis mondiale. Solo gli Stati Uniti hanno fatto meglio, con cinque giocatori approdati alla seconda settimana. La Confederazione può ancora contare su due uomini e due donne. Un exploit per una nazione di poco più di otto milioni di abitanti. Ancor più sorprendente perché non può contare su un’ampia base di giocatori a livello internazionale. In campo maschile, dietro i magnifici due che lo scorso anno hanno regalato la Coppa Davis, è il deserto. Nessun altro svizzero tra i primi 280 del ranking mondiale. Leggermente meglio il panorama femminile: solo due Top 100, ma almeno cinque tra le prime 280 posizioni Wta. Nel segno dei pronostici, il torneo maschile. Dopo Stan Wawrinka, ieri anche Roger Federer ha staccato il biglietto del quarto turno. Con qualche impaccio più del previsto, smarrendo il primo set del torneo. Contro l’australiano Samuel Groth, il sette volte re di Wimbledon è rimasto in campo oltre due ore, accusando un passaggio a vuoto nel terzo set. Nulla di allarmante (“Sto giocando in maniera molto solida ed efficace”), ma rispetto al Federer impeccabile delle prime due esibizioni è stata pur sempre una flessione. Domani lo attende Roberto Bautista Agut: due i precedenti con il campione elvetico, entrambi datati 2014, due sconfitte senza set all’attivo per lo spagnolo. Impeccabile il cammino di Wawrinka fin qui. Un’autorevolezza che collega Parigi con Londra, a conferma di una nuova consapevolezza. Anche contro Fernando Verdasco, nel terzo turno, non ha accusato rallentamenti, chiudendo il match senza mai smarrire un turno di battuta. “Ho giocato tre match perfetti. Quando vinci in tre set negli Slam è l’ideale. Sto bene, sto servendo con precisione e sono solido da fondo campo. Mi trovo sempre meglio sull’erba”. Una nuova confidenza, dal momento che nelle precedenti 10 apparizioni sui prati di Church Road solo una volta – lo scorso anno – Wawrinka aveva raggiunto i quarti, poi sconfitto da Federer. Per regalarsi una possibile semifinale con Novak Djokovic, suggestiva rivincita della finale del Roland Garros dovrà superare domani il belga David Goffin, tre vittorie senza smarrire set. Due i precedenti, entrambi a Chennai e vinti dallo svizzero. In campo femminile la notizia è il ritorno ad alti livelli di Belinda Bencic. Dopo l’exploit dell’anno scorso, quando da esordiente aveva raggiunto il terzo turno all’All England Club (e i quarti agli US Open), pareva smarrita. Una serie di uscite ai primi turni fino a giugno. Quindi il rilancio, coinciso con la stagione sull’erba. La finale (persa contro Camila Giorgi) a ‘s-Hertogenbosch, quindi la vittoria (prima in carriera) a Eastbourne. Domani la attende la bielorussa Victoria Azarenka, in un ottavo inedito. Completa il poker d’assi Timea Bacsinszky, che in poco più di un’ora ieri ha superato la tedesca Sabine Lisicki. Nata a Losanna 26 anni fa, in cinque partecipazioni a Wimbledon non era mai andata oltre il secondo turno. Contro Monica Niculescu, n. 48, ha l’occasione addirittura di arrivare fino ai quarti. Quattro svizzeri, e zero azzurri nonostante gli undici al via. Un paragone stridente quanto impietoso per il nostro tennis che per il secondo anno consecutivo non ha nessuno nella seconda settimana dei Championships.

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Ashe, il tennista gentile (Lorenzo Amuso, La Gazzetta del Mezzogiorno).

L’attivismo filantropico, l’impegno civile, la lotta contro l’Aids, l’amicizia con Nelson Mandela, ma soprattutto la vittoria dei Championships: 40 anni fa Arthur Ashe trionfava a Wimbledon, primo giocatore nero a festeggiare sul Centre Court. Un trionfo tennistico capace di oltrepassare i confini dello sport per assumere un valore politico-sociale che ancora oggi viene ricordato e celebrato. Da tanti, tranne che dall’All England Club, come da tradizione avvezzo a creare leggende senza poi celebrarle. Serena Williams esprime così la sua ammirazione per il campione: “La sua eredità vive ancora oggi. Quella vittoria è stata importante per tutta la comunità afro-americana, ha rotto le barriere”. “Senza di lui non so se oggi sarei qui”, le fa eco la britannica Heather Watson che venerdì ha fatto tremare la n. 1 al mondo. Ashe nasce il 10 luglio 1943 a Richmond, Virginia, profondo sud degli States. Perde la mamma Mattie Cordell a soli sette anni; assieme al fratello più giovane viene cresciuto dal padre Arthur Sr. Un funzionario delle forze dell’ordine che gli inculca il senso del dovere e il rispetto della disciplina. Un maestro locale, Ron Charity, ne intravede il talento e decide di allenarlo gratuitamente. È l’inizio di tutto. Della vertiginosa scalata di un colored in uno sport esclusivamente da bianchi. Ottiene una borsa di studio ad Ucla, si arruola nell’esercito. Nel ’63 è il primo nero convocato nella squadra Usa di Coppa Davis, tre anni più tardi è già tra i migliori al mondo. Nel ’68 vince il suo primo Slam (US Open), due anni più tardi conquista gli Australian Open. Ma è il 5 luglio 1975 a Wimbledon che Ashe riscrive la storia. In finale trova Jimmy Connors, il campione uscente, grandissimo favorito: Ashe non lo ha mai battuto nei due precedenti. Il n.1 al mondo non ha ancora ceduto un solo set in quel torneo. I due sono uno l’opposto dell’altro. Arthur è riflessivo, pacato, vorace lettore, un gentleman della racchetta. Jimbo è impetuoso, emotivo, irruente, un rude che si vanta di non aver mai aperto un libro in vita sua. Il primo sogna di incontrare Mandela, il secondo ha come idolo Dean Martin. Inevitabile che si detestino. Pochi mesi prima Ashe aveva accusato Connors di scarso patriottismo per via dei continui forfait agli impegni di Davis. Jimbo replica facendogli recapitare una denuncia per diffamazione, con richiesta di risarcimento per tre milioni di dollari. Più che un match di tennis, è un duello rusticano, con un epilogo che è uno choc meraviglioso: la vittoria di Ashe in quattro set stupisce il mondo. Il neo-campione diventa un simbolo della battaglia contro l’apartheid, un’icona dei diritti civili, presidente del neonato sindacato dei tennisti (Atp). Si sposa con una fotografa, Jaenne Moutoussamy, e adottano una bambina, Camera. Nel 1980 si ritira, cinque anni più tardi viene ammesso per acclamazione nella Hall of Fame del tennis. Resta nel mondo del tennis, prima come capitano di Davis poi da commentatore. Scrive per Time e Washington Post. Ma i suoi orizzonti spaziano, e a capo di una delegazione di famosi afro-americani visita il Sudafrica e altri paesi per promuovere l’integrazione razziale. In due occasioni viene arrestato durante manifestazioni di protesta. Nel ’88 scopre di aver contratto l’Hiv tramite una trasfusione di sangue avvenuta nel corso di un intervento cardiaco. Riesce a tenere la notizia nascosta fino al ’92 quando, per evitare lo scoop di Usa Today venuto a conoscenza della malattia, è costretto a convocare una conferenza stampa. Muore l’anno successivo. Oggi avrebbe 72 anni. L’All England Club non ha in programma nessuna commemorazione per il 40esimo anniversario della sua vittoria. Perché Wimbledon le leggende le crea, non le celebra.

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Federer smina la bomba Groth, l’uomo che serve a 236 orari (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport).

Chi lo ama, cioè più o meno tutti, continua a pensare che con quella carriera e quello stile può dire ciò che vuole. Dunque, una sorta di vecchio saggio che dall’alto della sua grandezza distribuisce opinioni che sono verità. Qualcuno, invece, e in particolare gli inglesi che vorrebbero rivedere Murray sul trono nel giardino di casa, sostengono a bassa voce che un Federer così ombroso e polemico malgrado le vittorie rappresenti una novità che andrebbe interpretata. Forse è soltanto la consapevolezza che il treno di questo Wimbledon sia davvero l’ultimo per allargare la vetrina degli Slam e ingigantire la mitologia, quindi addirittura un eccesso di concentrazione. Certo è che dopo la sfuriata ai parigini per la sicurezza al Roland Garros, neppure il Tempio è stato risparmiato: “La policy del bianco? Sinceramente la trovo troppo severa. Vi ricordate le magliette a righe di Borg o quelle tutte colorate di Becker? Alla gente e ai tifosi piacevano, ora sembra di essere tornati agli anni 50. Guardate una foto di allora e come siamo vestiti adesso, non c’è nessuna differenza. Solo che i tempi cambiano”. Il Divino un paio d’anni fa rischiò una multa per le suole arancioni delle scarpe, e già allora non mancò di far capire che la rigidità delle regole non è sempre un valore. Insomma, se l’attacco alla tradizione lo ha già visto in prima fila, è fresca di ieri l’offensiva contro il progresso e la sua estensione al tennis, cioè l’Occhio di Falco: “Lo accetto, perché dà una possibilità in più di vedere un punto nel modo giusto, però non è accurato al cento per cento e continuano ad esserci chiamate che non capisco”. Ed è solo la prima puntata, perché subito dopo appesantisce la dose: “Soprattutto, è incredibile che si possa continuare a giocare quando Hawkeye non è più attivo. Accade con le partite che finiscono di sera, a un certo punto ti dicono che non puoi più chiamarlo perché il buio impedisce alle telecamere di avere la giusta prospettiva, ma intanto il match va avanti. Sarebbe giusto che nel momento in cui non puoi più utilizzarlo, il gioco si interrompesse”. Per fortuna, accanto al Federer brontolone, ce n’è un altro che al momento gioca e vince,anche se contro lo sparafucile australiano Groth (che mette una prima a 236.5 km/h, la seconda miglior prestazione in battuta a Church Road) deve concedere il primo set del torneo, ma il misfatto avviene al tiebreak del terzo parziale e dunque il numero due del mondo mantiene immacolato il rendimento al servizio, che in tre partite non ha ancora perso. Sul campo, è un Roger sereno (“Mi sento bene e sono abbastanza soddisfatto del mio gioco”) e sempre più fiducioso nelle qualità di coach Edberg: “Ormai ci conosciamo, abbiamo quella confidenza che serve per intenderci anche con un gesto o uno sguardo, Stefan ha una conoscenza profondissima del tennis e dei tornei, sappiamo di cosa dobbiamo parlare e le cose che dobbiamo tacere, averlo vicino come allenatore mi ha sicuramente reso un giocatore più rilassato e sicuro”.

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