Coppa Davis: formula da cambiare oppure no?

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Coppa Davis: formula da cambiare oppure no?

Ogni volta che la Davis scende in campo le emozioni sono garantite, ma i “big” ormai la giocano poco e mal volentieri. Rafael Nadal partecipa sempre più raramente mentre Roger Federer tornerà in campo con la Svizzera per lo spareggio contro l’Olanda. Da più parti si suggerisce una modifica alla formula: ma è davvero questa la soluzione giusta?

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Ad ogni turno di Davis inevitabilmente tutti gli appassionati di tennis si ritrovano a ripetere sempre lo stesso concetto: nessun evento tennistico riesce a regalare le emozioni che riserva la Coppa Davis. Non ci sono tornei dello Slam, ATP Finals o Masters 1000 che tengano, l’intensità emotiva generata da una competizione di squadre nazionali le cui sfide si sviluppano su tre giorni conditi di alti e bassi, rimonte, strategici cambi di formazione ed incitamenti dalla panchina ad ogni punto non trova eguali nei “normali” tornei del circuito nei quali ogni tennista gioca per sé, contro tutto il resto del mondo.

Quest’ultimo turno ha fornito un compendio di tutto questo capitale emotivo: due rimonte da 0-2, con l’Australia salvata dal comprimario Groth e dal vecchio leone Hewitt dopo la doppia stecca delle giovani stelle nascenti Kyrgios e Kokkinakis, e la Spagna rassegnata al massacro sul veloce indoor di Vladivostok, travolta dalle bordate del giovane Rublev nel singolare decisivo; la sfida di grande fascino tra Gran Bretagna e Francia, nella suggestiva cornice del Queen’s Club di Londra, nella quale Andy Murray si è caricato in spalla la squadra portando a casa i due singolari e, in coppia con il fratello Jamie, ha garantito la vittoria nel doppio trascinando la nazionale britannica in semifinale per la prima volta dal lontano 1981; e la favola della Repubblica Dominicana del 35enne Estrella Burgos, che si è issata fino ai play-off del World Group nei quali il prossimo settembre si giocherà con la Germania il sogno di una stagione tra l’elite del tennis mondiale.

Ce n’è stato davvero per tutti i gusti e per tutti i palati, ma nonostante tutto ciò le voci che chiedono sempre più insistentemente un ripensamento della formula e del calendario della Coppa Davis si moltiplicano ad ogni occasione, non tanto tra gli appassionati “hard core”, ma soprattutto tra addetti ai lavori e giocatori. Solamente uno dei primi dieci della classifica mondiale è sceso in campo in questo turno estivo di Davis, collocato subito dopo Wimbledon perché a suo tempo erano stati proprio i giocatori a richiedere la programmazione della Davis immediatamente dopo gli Slam. D’altronde non sono i successi in questa competizione a definire il valore di un tennista: un successo in Davis può essere se mai una ciliegina su una carriera, ma sono altri i titoli che contano, per il ranking, per il pedigree, per le sponsorizzazioni.

Roger Federer, dopo l’affermazione ottenuta con la sua Svizzera nel 2014, ha pubblicamente dichiarato come durante la sua carriera la Davis sia stata più una spiacevole incombenza che altro, e di come sia felice di poterla considerare un capitolo “quasi” chiuso. Quel “quasi” è dovuto alle condizioni imposte dall’ITF per la qualificazione olimpica, che impongono un certo numero di presenze nella propria nazionale per poter prendere parte al torneo a cinque cerchi. Molti atleti, uomini e donne, hanno più o meno esplicitamente fatto capire che il richiamo di una possibile medaglia ha un efficacia molto superiore a quello della propria bandiera nazionale, e che partecipano alle competizioni a squadre ITF (Coppa Davis e Fed Cup) quasi solo per soddisfare le condizioni di eleggibilità olimpica.

Il semplice fatto che la presenza degli assi della racchetta sia legata ad un’artificiosa regola che sfrutta la volontà di partecipare ad una competizione per ottenere la presenza in un’altra dovrebbe essere un sintomo sufficiente per suggerire che qualche intervento urgente è necessario per rendere la Davis (più allettante.

Le proposte non mancano: la più gettonata è quella di una trasformazione in una sorta di “Campionato del Mondo” da disputarsi ad intervalli pluriennali (massimo ogni due anni, se non addirittura ogni quattro), in sede unica e nel corso di due settimane durante le quali non vi siano altri tornei professionistici. In questo modo sarebbe possibile conoscere in anticipo luogo e superficie di gara, con un più facile inserimento all’interno dei cicli di tornei che governano il circuito, e con una più agevole programmazione da parte dei giocatori.

Dal punto di vista logistico sarebbe poi molto più semplice poter promuovere l’evento, dati i molti mesi a disposizione per vendere biglietti, raccogliere sponsor ed ottenere una buona copertura mediatica. Uno degli aspetti più onerosi della formula attuale è infatti quello organizzativo: si conosce soltanto con pochi mesi, a volte addirittura poche settimane di anticipo, in quale luogo e su quale superficie si gioca, c’è poco tempo per aggiustare la preparazione oppure organizzare trasferimenti, e parecchie volte può essere anche piuttosto complicato per la nazione ospitante trovare un impianto adatto. A questo proposito si ricorda come nel 1991, la finale di Davis che vide la Francia di Forget e Leconte prevalere contro gli USA di Sampras e Agassi riportando in Francia l’insalatiera per la prima volta dall’epoca dei “Moschettieri”, si disputò nell’angusto Palazzo dello Sport di Lione perché la Federazione Francese non era riuscita ad assicurarsi l’uso del Palais Omnisport di Bercy, impegnato in quel fine settimana da un concerto rock. E per rimanere nel presente, la Gran Bretagna non potrà ospitare l’Australia in semifinale (la prima dal 1981) nell’impianto più capiente del Paese, la O2 Arena di Londra, perché in quel weekend di settembre è già occupata dalla visita del Dalai Lama.

Il regolamento della Coppa Davis, infatti, richiede che le squadre possano allenarsi sullo stesso campo di gara per almeno due giorni prima dell’inizio della competizione (ed i giorni salgono a quattro se si tratta di un campo outdoor o di un campo indoor in terra battuta o erba allestito per l’occasione), ragion per cui è necessario avere a disposizione l’impianto di gara per una striscia di 7-10 giorni consecutivi (tenendo conto del tempo necessario per allestimento e smontaggio), fatto non esattamente semplice se si vuole giocare nelle più importanti (e capienti) arene delle grandi capitali, che possono arrivare ad essere occupate anche per 200 e più giorni l’anno.

Un qualche problema logistico questa formula della Davis la crea anche a noi rappresentanti dei media: il processo di pianificazione delle trasferte a seguito dei tornei, specialmente quelli dello Slam, avviene con molti mesi di anticipo. Gli incontri di Davis e di Fed Cup, invece, andandosi ad aggiungere ad un calendario piuttosto cristallizzato aggiungendo eventi nei posti più disparati del globo, ci costringono a repentini cambiamenti di programma e notevoli peripezie per assicurare la copertura degli incontri. Per esempio, quest’anno l’Italia ha saputo il nome della propria avversaria nei Play-Off 2015 solamente pochi giorni fa, a metà luglio, e probabilmente verrà resa nota la sede dell’incontro con la Russia soltanto a metà agosto, rendendo potenzialmente molto complicato (e costoso) organizzare una trasferta in Russia per un incontro che inizia cinque giorni dopo la finale maschile dell’US Open a New York.

Ma se dal punto di vista organizzativo una kermesse in sede unica programmata molti mesi prima semplificherebbe sicuramente le cose, l’attuale formula consente tuttavia di portare tennis dove normalmente il grande tennis non va. Chi abita a Vladivostok di solito gli assi della racchetta li vede in TV, mentre nell’ultimo turno di Davis ha potuto osservare di persona le gesta di Robredo ed Andujar, che non saranno Nadal e Federer, ma sono pur sempre giocatori di assoluto livello mondiale. Lo scorso anno la Federazione Americana USTA lavorò molto sulla promozione dello spareggio USA-Slovacchia che si disputò a Hoffman Estates, un sobborgo di Chicago. La “città del vento”, infatti, è probabilmente la maggior area metropolitana nell’emisfero occidentale a non avere alcun torneo professionistico nelle proprie vicinanze, e per promuovere il tennis in questa grande metropoli di sport (tutte le leghe professionistiche americane sono presenti con una o più franchigie), il capitano USA ed ex n.1 del mondo Jim Courier si rese disponibile per numerose apparizioni promozionale sulle televisioni locali per pubblicizzare l’evento.

Altro aspetto non secondario da tenere in considerazione è quello economico: per le Federazioni Nazionali gli introiti provenienti dagli incontri casalinghi di Coppa Davis rappresentano una percentuale considerevole delle proprie entrate, e non potrebbero rinunciarvi a cuor leggero. Si potrebbe arrivare a studiare un sistema di redistribuzione dei proventi di una eventuale competizione in sede unica, un po’ come accade per la Formula 1 o per le leghe professionistiche americane, ma non sembra ci sia un grande entusiasmo da questo punto di vista, anche perché probabilmente le Federazioni che maggiormente traggono profitto da Davis (e Fed Cup) preferiscono lo status quo ad un futuro scenario che sarebbe comunque molto incerto.

Come si può vedere, dunque, ci sono parecchi argomenti sia pro sia contro un cambiamento radicale della formula, ma potrebbe comunque essere il caso di apportare qualche correttivo per tentare di ridare un po’ di lustro ad una competizione che ora come non mai sente il peso della sua storia ultracentenaria. Qualche addetto ai lavori ha proposto una riduzione del World Group da 16 a 14 o 12 squadre, assegnando un bye alle finaliste o alle semifinaliste della precedente edizione. In questo modo si ridurrebbe l’impegno richiesto alle squadre più forti, e quindi verosimilmente ai giocatori più forti, rendendo la partecipazione in Davis meno onerosa e quindi più attraente. D’altra parte, chiedere a chi ha “appena” giocato una finale di Davis a fine novembre di tornare in campo ad inizio febbraio per il primo turno dell’anno successivo (subito dopo gli Australian Open, cambiando repentinamente clima, superficie, fuso orario e stagione) può non a torto essere giudicato eccessivo.

Altra proposta che è stata avanzata sarebbe quella di un cambio della formula della Davis che andrebbe ad allinearsi con la Fed Cup: due tabelloni da otto squadre (World Group I e World Group II), in modo da ridurre i turni da quattro a tre.

In conclusione, anche i più strenui difensori del fascino della Davis devono riconoscere che questa competizione non esercita più, ormai da qualche tempo, la stessa attrattiva sulle superstar della racchetta – ed anche sugli altri giocatori di livello mondiale, se per questo: basti vedere i vari esempi di disaffezione ai “colori” della propria Nazione come quello di Dolgopolov e di Anderson. E la famosa citazione de “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”) potrebbe essere l’unica strategia per fermare il lento ed inevitabile declino della più antica competizione sportiva a squadre del mondo.

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