US Open 1985, la vendetta di Ivan Lendl

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US Open 1985, la vendetta di Ivan Lendl

Quest’anno è il trentennale della prima vittoria di Ivan Lendl agli US Open. Ecco come il ceco arrivò alla sua prima grande vittoria contro uno dei nemici di sempre: John McEnroe

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Vi sono edizioni dei tornei del Grande Slam addirittura insignificanti o comunque non particolarmente spettacolari. Ve ne sono altre molto belle, con partite avvincenti, che lasciano un segno nella memoria degli appassionati. Nei major si scrive in ogni caso sempre la storia del tennis. Ma vi sono, ogni tanto, alcune edizioni dei quattro grandi tornei che rappresentano un punto di svolta epocale, che delimitano la fine di un’era tennistica e ne originano un’altra. Così fu per gli Us Open del 1985, ed a trent’anni da quel torneo, occorre celebrare tale ricorrenza. Gli appassionati sanno come andarono le cose nel mondo del tennis maschile nella prima metà degli anni ottanta: il ragazzino ribelle ma di buona famiglia di origine irlandese che già alla fine degli anni settanta aveva insidiato l’Orso scandinavo: nel 1980 e nel 1981 lo cacciò via a suon di vittorie e di delusioni inflitte al rivale, dalla celeberrima vittoria a Wimbledon 1981, ai due trionfi a FlushingMeadows nel 1980 e nel 1981, vale a dire le più dolorose sconfitte che Borg abbia mai patito nel corso della sua carriera.

Liberatosi del leggendario vichingo, John McEnroe impresse la sua impronta indelebile alla prima metà del decennio, pur non dominando con continuità. A infastidirlo, e non poco, il maturo e poi vecchio Connors, ed un’ombroso ma gelidamente determinato uomo dell’est europa, più giovane di lui di un anno: Ivan Lendl. Il vecchio Jimbo ruggì forte nella finale di Wimbledon 1982, soffiandola a Mac in cinque set, mentre Lendl infilava 7 vittorie di fila su John tra l’81 e l’82 battendolo due volte al Masters. Tuttavia John, con il titolo di Wimbledon 1983 ed il suo fantasmagorico 1984, prese a sedere stabilmente ed indiscutibilmente sul trono. L’indomito Jimbo, con l’avanzare dell’età, dovette incominciare a ingoiare bocconi amari, nel 1984 il rivale connazionale lo spazzò via nella finale del Championships lasciandogli pochissimi game. Quanto a Lendl, certo, decine di vittorie in tornei del circuito, due Masters, ma l’eterno fallimento negli Slam, con tanto di umiliazioni sul centrale di Flushing nel 1982 e nel 1983, per il godimento di un Connors in erezione e di un pubblico in delirio, in piena epoca reaganiana dei primi anni ottanta, con il “communist” Ivan (che poi certo comunista non fu mai) deriso dalla folla. Eppure, mentre Mac volava e Jimbo ruggiva, mentre dal nulla spuntava un biondino svedese che a diciasettenne anni vinceva Roland Garros, il povero Ivan, in silenzio, tra la paura di vedersi tolto il permesso di viaggiare delle autorità di Praga e l’ostilità di nuovo mondo che non lo capiva e che lui stesso stentava a comprendere, lavorava, lavorava e lavorava.

Il primo vero frutto del suo oscuro lavoro arrivò in quel fatidico 10 giugno 1984 sul centrale di Parigi, quando Mac vide sfumare il sogno di un anno perfetto: i due set a zero con il più grande serve and volley mai visto nella storia sulla palude parigina, si trasformarono nella testa china di Mac dopo aver perso 7-5 al quinto set. Ma, almeno a giudicare dai risultati, Superbrat non risentì andando a dominare i due successivi Slam ed anche i primi mesi del 1985. Ivan aveva rotto il ghiaccio adesso, sapeva di poter vincere uno Slam, ma era cosciente anche del fatto che l’essersi liberato dell’incubo dei major non era sufficiente per arrivare laddove aveva sempre voluto.

Nei mesi a cavallo tra la fine del 1984 e l’inizio del 1985 Lendl trova il coraggio di fare la rivoluzione più difficile, ovvero di rivoluzionare sé stesso; avrebbe potuto tranquillamente continuare così, oscilla tra il numero due e il numero tre del mondo, vince titoli importanti, ha già incamerato uno Slam e due Masters, oltre alle importanti WTC Finals di Dallas. E invece no. Lui in verità ha sempre voluto essere il migliore. E intende non trascurare alcun particolare per diventarlo. Troppe volte dopo la terza ora di gioco si è ritrovato più stanco non solo di giovani maratoneti come Wilander, ma perfino dell’indistruttibile Connors. Troppe volte si è accorto di non avere la forza morale e la concentrazione necessaria per non lasciarsi andare nei momenti che decidono una grande finale. Nel 1983 a Flushing, ha dissipato con un doppio fallo la palla per andare due set a uno con Jimbo, tanto per dirne una. Ha un dritto naturale eccezionale, un rovescio coperto che con lacrime e sangue Fibak gli ha costruito, un violento servizio piatto. Ma non basta, soprattutto su quella dannata erba di Wimbledon. Ivan è lucidamente conscio dei suoi limiti: ad uno ad uno li riconosce, li affronta, in gran parte li vince. Ecco allora la rigida dieta con il dottor Haas, gli esercizi di concentrazione sul momento presente con la giovane psicologa Castorri, ed ecco Tony Roche che prende il posto di Fibak. Ivan, già nel Masters 1984, giocato nel gennaio 1985, appare più asciutto, scattante. Per il Mac perfetto del Madison Square Garden ancora non basta. Ma la costruzione di sé, pezzo per pezzo, continua. Ecco spuntare servizi esterni in slice da destra, un taglio di rovescio sicuro e insidioso, delle risposte con il backhand bloccate, polso fermo e nessuna apertura. La posizione nei pressi della rete migliora, le voleè anche, pur permanendo quel settore del gioco il più problematico.

Mac in primavera viene avvertito sulla terra verde di Forest Hills e su quella rossa di Dusseldorf. Tuttavia a Parigi in finale Wilander lo soffoca attaccandolo a sorpresa, ed a Wimbledon Ivan s’imbatte in un Leconte on fire. L’estate 1985 sul cemento americano sembra aver dato a Mac nuova linfa, dopo che a Wimbledon nei quarti il servizio di Curren lo aveva cacciato in tre set. Nelle finali di Stratton Mountain e di Montreal, pur abbastanza lottate, Lendl non raccoglie alcun set di fronte a John. E si arriva, finalmente agli Us Open.

Al primo turno Mac, che qui ha trionfato per 5 volte, rischia subito la pelle, si salva solo nel tiebreak del quinto set con Glickstein. Poi per lui tutto fila liscio fino alla semifinale. Lendl dal canto suo, arriva in semifinale perdendo un solo set con il peruviano Yzaga nei quarti di finale. In semifinale è Mac a scendere in campo per primo, un vantaggio, visto che si gioca nel famigerato super Saturday e la finale incombe l’indomani. Ma avere di fronte Mats Wilander in ottima forma è un po’ meno vantaggioso. Ne uscirà Mac, ma dopo una battaglia notevole, piegando lo svedese al quinto set dopo essere stato in svantaggio per due set a uno. A seguire, il vecchio leone Jimbo e tutto il suo teatro nulla possono contro un Lendl determinato a riscattare almeno in parte le umiliazioni delle finali del 1983 e del 1982. È una facile vittoria in tre set. Ed ecco, nel tardo pomeriggio di quella fatidica domenica di settembre del 1985, i due uomini che si odiano, o quasi, scendere nel catino del mitico Louis Armstrong, il glorioso padre dell’Arthur Ashe di oggi. È Mac a partire a razzo, non passa molto tempo ed è sul 5-2. Tutto pare seguire il copione degli ultimi due anni e mezzo: nulla, o quasi; Lendl nulla può sui turni di servizio di Mac, mentre sui propri fa grande fatica. Sul 5-2 Mac nel primo set, in Lendl e nei suoi pochi ma “religiosi” tifosi non possono non riaffiorare i fantasmi del passato: Ivan è giunto a questa finale con il devastante bilancio di una vittoria e sei sconfitte nelle finali dei tornei del Grande Slam. E invece questa volta sarà diverso.

Lendl, tra lo stupore del suo avversario e di tutti, non crolla psicologicamente, né fisicamente. È da tempo più asciutto, si muove meglio, usa maggiormente il rovescio tagliato e prende più frequentemente la via della rete; comincia a giocare in modo incredibile: passanti, risposte e servizi di devastante potenza ed incredibile precisione inchiodano McEnroe e lasciano basito l’incredulo amico di John, Sergio Palmieri, durante la telecronaca in compagnia di Lea Pericoli su Telemontecarlo. Ivan recupera il break di vantaggio e vince il tiebrak del primo set, per poi incamerare piuttosto facilmente anche il secondo. Il break decisivo nel terzo set, Lendl lo conquista con un meraviglioso lob liftato di dritto. Poco dopo, una voleè di dritto vincente chiude il match. Dal lunedi successivo sarà numero uno del mondo per 156 settimane consecutive e per 236 delle successive 256. Al termine del match le telecamere trovano Olga Lendlova: la sua espressione è la solita, o forse no. Nei successivi sette Slam, Ivan vincerà quattro volte e giocherà due finali. John invece, non metterà più piede su un campo da tennis il giorno della finale di un major.

Quel giorno, l’8 settembre 1985, ormai quasi trent’anni fa, Lendl diventò davvero quello che aveva sempre voluto diventare. E Mac smise purtroppo di essere, per sempre, quello che era stato. Ma noi ci ricorderemo per sempre di entrambi, e dei momenti indimenticabili che ci hanno offerto.

Luca Pasta

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