Il carro del “Vinci-tore”

US Open

Il carro del “Vinci-tore”

Facile dire che si è sempre amato il tennis vintage di Roberta Vinci. Facilissimo. Al punto da doverlo fare

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Roberta Vinci - SF US Open 2015 (foto di Bob Straus)
 

Non tutti seguono molto il tennis femminile. Addirittura c’è chi lo definisce “tennisfemminile” come se fosse un’unica parola, perché oggigiorno, tra slave allenate a pane e cattiveria, bracciotti torniti da campionesse di lotta libera, rovesci giocati a due mani perché a una mano è semplicemente “fallo”, il “tennisfemminile” è una cosa completamente distante dal “tennis” sic et simpiciter, o almeno da quel che, narcisisticamente, qualcuno intende per tale.

Ma si può dire che (col senno di poi io non sono semplicemente bravo, sono fe-no-me-na-le!) almeno io ho sempre fatto due eccezioni? La Martinez Sanchez, bimane sì, ma in una maniera così amabilmente scalena e sbilenca che vederla a Roma smorzare l’impossibile fu autentica goduria. E, primo amore, naturalmente, Roberta Vinci. Quindi compio un balzo e salgo sul carro del Vinci-tore.

Amore nato a Wimbledon 2005 (ahi, galeotto fu quel primo anno di Pay-tv!), e mal soffocato dalla Clijsters che le sbarrò la strada degli ottavi. Amore per i tagli, le variazioni, le discese  a rete dall’alto del suo stretchatissimo metro e sessantatré (dati Wta). Amore per l’asimmetria, tanto offensiva di dritto, quanto difensiva di rovescio. Amore del normale, di chi ha un punto debole, ma sa infiammarsi e diventare eccezionale. Amore persino per quella pubblicità di Supertennis in cui vanamente attendeva al ristorante che qualcuno condividesse il desco con lei (ma ci penso io cucciola! anche se non mi cucini le cozze pelose…).

Amore nato dal vedere una piccola Navratilova combattere contro la modernità sfidando il tempo, le meridiane e le clessidre e, soprattutto, muscoli, muscoli, muscoli di valchirie. E vederla lì, mentre alza le braccia al cielo, scomparire nel mezzo abbraccio di Serena (che ne è praticamente il fodero per dimensioni), amata da tutti (perché se ti ama New York, ti amano tutti), beh, sono un pizzico geloso e penso che a quella cena offerta da Supertennis, lei non resterà più sola.

Domenica avrei tifato lei. Anche se avesse perso con Serena. Perché tifare Roberta Vinci non è salire sul carro del vincitore. E’ avere un’idea, un proposito. Un guardare le cose da una differente prospettiva. Forse uno stare un passo indietro, in nostalgica e disperata ricerca di gesti bianchi. Oppure, ma sappiamo di illuderci, un passo avanti.

Maledetta quella clessidra. Ci fa sentire tutti vecchi e fuori posto, anche noi che non dobbiamo correre e colpire ma solo muovere gli occhi. Accidenti, dicono che siamo vintage Roberta, che siamo belli ma perdenti, anche in una finale slam. Vincente è chi fallisce il grande slam contro di te. Contro il più improbabile, ma anche il più giusto degli ostacoli.

Allora io dico che non siamo né passo avanti, né passo indietro. Facciamoci la doccia e i massaggi. Avranno tempo per rivedere il match e avrai tempo tu per passare alla storia. Per ora accontentiamoci solo di stare un passo più in là.

Agostino Nigro

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