Sono Roger Federer e vi ringrazio, però anch'io devo scusarmi con voi

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Sono Roger Federer e vi ringrazio, però anch’io devo scusarmi con voi

Ho vinto tanto, e vi ringrazio per avermi sempre amato senza condizioni. Ma adesso che ho 34 anni sono grande abbastanza per spiegarmi e spiegare a voi quello che il campo non vi ha detto

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Sono Roger Federer e oggi sento il bisogno di scusarmi. Io non ho passato la vita a porgere le mie scuse, ho sempre preferito ringraziare. Ho ringraziato per aver ricevuto in dote questo innaturale talento nell’impugnare la racchetta così come ho ringraziato quel vecchio statunitense per non avermi maledetto quando gli ho sottratto lo scettro verde nel 2001; ho ringraziato addirittura Nadal – sì, proprio lui – per avermi costretto a migliorare quando credevo che fino all’ultimo giorno sarebbe bastato quel che ero, per continuare a vincere. E oggi ringrazio quello bravino con la volèe di rovescio per avermi restituito una seconda o forse terza giovinezza, per avermi messo di fronte ai nuovi limiti imposti dall’età, per avermi aiutato a capire che dovevo avvicinarmi al mio avversario in campo per avere più possibilità di batterlo.

Non prendevo benissimo le sconfitte dei miei vent’anni perché ho sempre creduto tanto, a volte troppo, nella magia del mio braccio destro. Sono passati quindici anni e ancora sono dipendente dalla purezza del mio gesto, dalla mia demi-volèe perfetta, e non accetto che qualcuno possa vincermi senza essere più bravo di me, che si possa essere più forti senza essere più bravi io non lo accetto. E per questo mio egoismo mi scuso. Qualcuno ha scritto di me che non posso avere cognizione del mio talento perché chi eccelle in un’arte lo fa con la naturalezza di chi ne ignora la difficoltà esecutiva, e io mi scuso con lui ma devo contraddirlo, perché di quel talento sono schiavo, sono schiavo del sapermi troppo bravo per piegarmi a giocare come gli altri.

C’era un tempo in cui non avevo bisogno di compromessi e vincevo alle mie condizioni. Sempre, ovunque, a volte mi sembrava anche troppo facile. Sì, lo so, non proprio ovunque, come volete che lo dimentichi. Ma lì non c’era altro che potessi fare, ero troppo inebriato dal successo per capire di poter giocare in modo diverso e che non c’era verso di batterlo secondo le leggi che altri avversari semplicemente si limitavano a rispettare. Avevo la testardaggine di chi non vuole scendere né salire, ero bloccato sull’orlo di una sfida che non potevo vincere ma questo ancora non lo sapevo. Finì, lui, per diventare un mio compagno, un’ossessione pareggiata solo dalle sconfitte che mi infliggeva.

Furono poi i tempi del calo, l’anno buio che sembrava non finire mai, i nervi messi a dura prova dalle stecche a cui non ero abituato. Per tutte quelle palle scagliate maldestramente sulle tribune mi scuso, addirittura mi costerno, ma ancora non volevo arrendermi allo scorrere del tempo. Dopo un po’ di confusione con le racchette ho ritrovato me stesso, un angelo biondo mi ha aiutato a correre in avanti e sono ritornato grande a modo mio, sono tornato a essere il più bravo ma a quanto pare, non il più forte.

Oggi ho 34 anni e sono l’unico vero rivale di quel signorino con cui ogni tanto provano a farmi litigare, riuscendoci anche; eppure vorrei batterlo un po’ più spesso, soprattutto dove conta di più. E se non ci riesco mi scuso con i miei tifosi, che sono dalla mia parte ovunque e contro qualunque avversario, sempre tantissimi. E se a volte risultano un po’ eccessivi mi scuso con i miei avversari e con i loro sostenitori, non è colpa mia. Anche se essere osannato mi ha sempre fatto piacere, la non modesta soddisfazione nascosta sotto la mia maschera di umiltà, e ora sotto quel velo di barba che finalmente posso sfoggiare.

La finale di domenica mi ha fatto male, e non perché mi fossi illuso di poterlo battere più di quanto il mio ego non faccia regolarmente, piuttosto perché avrei voluto ancora una volta vedermi forte sul terreno dei forti, a onorare gli incoraggiamenti che io stesso riconosco ciechi, debordanti al limite del surreale persino per me, ma di cui allo stesso tempo non riesco più a fare a meno. E per questo ci riproverò, l’anno prossimo, ancora alle mie condizioni. E se anche credo che non basterà, e per questo mi scuso in anticipo, non trovo un motivo valido per cambiare.

Riconsidero tutto sin dal principio: se non sono riuscito a spingermi oltre il mio orgoglio di giocatore che tende alla perfezione stilistica mi scuso con coloro i quali mi avrebbero voluto più cinico, più calcolatore, più machiavellico. La vita mi ha dato tanto e ho sempre ritenuto giusto fare con quel che avevo, che non è mai stato poco, la mia certezza consolidata dagli elogi ogni giorno più frequenti. Ormai avrete capito che non amo scusarmi, ma mi tocca farlo un’ultima volta: mi scuso con voi ma non posso smettere di fare quel che faccio perché sono Roger Federer e sono nato per dare alla racchetta istruzioni che lei credeva di non poter eseguire.

 

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