L'ultima paella a Valencia

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L’ultima paella a Valencia

Dal 2016 il torneo di Valencia non ci sarà più. Per l’ultima edizione Ubitennis ha inviato un proprio redattore a seguire il torneo. Tra paellas, tennis e strette di mano vigorose ecco come ha passato le giornate

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Un grande paesone. Ecco cos’è Valencia: un grande paesone. Passeggiando fra i vicoli e visitando le principali attrazioni, difficilmente ci si rende conto che, con quasi 800.000 abitanti, questa è la terza città della Spagna. La lingua è sacra, tanto che le indicazioni sono sia in spagnolo che in valenciano; i negozi delle grandi marche ci sono, ma proprio perché non se ne può fare a meno; la cucina internazionale è presente in ogni angolo, ma la paella valenciana domina silenziosamente senza bisogno di gigantografie pubblicitarie; la metropolitana c’è e funziona perfettamente, ma se hai una bici arrivi ovunque senza problemi.

Una città a misura d’uomo, o quasi, divisa in diversi distretti, a loro volta suddivisi in barrios. Quelli che contano però sono racchiusi all’interno di un semicerchio ideale formato da quello che fino al 1957 è stato il fiume Tùria. Poi, quell’anno, l’ennesima alluvione, l’ennesima tragedia. Stanchi di dover ripulire le loro strade e le loro case non solo da fango e detriti, ma anche dal sangue dei loro concittadini, i valenciani richiesero a gran voce una soluzione naturale, futuristica, sostenibile. Ci vollero 30 anni prima che i loro desideri fossero ascoltati, visto che Francisco Franco non era molto aperto al dialogo (avrebbe voluto costruirci il continuo dell’autostrada Madrid-Valencia). Giornalisti, architetti, studenti, commercianti e semplici cittadini non riuscirono a produrre uno slogan più originale di “El Lit del Tùria es nostre i el volem verd”, ovvero “Il letto del Tùria è nostro e noi lo vogliamo verde”, ma che ci si creda o no, funzionò! Oggi è una delle opere paesaggistiche meglio riuscite al mondo e quell’indomabile fiume è diventato un parco, El Jardìn del Tùria, con tanto di piste ciclabili, alberi tropicali, pappagalli, campi da calcio, piccoli parchi giochi, colonnati un po’ casuali, fontane e l’imponente Palau de la Musica, un’opera di un’importanza culturale unica per la Comunitat Valenciana.
Alla fine di questa arteria di 9 chilometri, dopo aver schivato più podisti di quanti ne troverete mai a Central Park nella settimana precedente alla maratona di New York, si trova l’ultima (di certo non per importanza) grande opera infrastrutturale di Valencia: la Ciudad de las Artes y de las Ciencias, dal 1998 a oggi centro postmoderno della città e per nove giorni all’anno teatro nascosto del tennis internazionale. “Ma come nascosto?!”. Eh già, nemmeno un cartello col faccione di Ferrer, quasi nessuno in città era a conoscenza dell’esistenza del torneo e solo in pochi sapevano che Valentino Rossi, Marc Marquez e compagnia bella sarebbero arrivati tra meno di due settimane. Sempre e solo calcio.

Dopo essermi guardato intorno e aver vissuto da turista quanto basta, mi ricordo il motivo per cui mi trovo qui, perciò con lo zaino in spalla, contenente più roba di quanta ne serva per sopravvivere una settimana nel deserto (il motto “non si sa mai” è ormai uno stile di vita), proseguo dritto verso la mia destinazione. A cento metri dalla Pista Central si intravede finalmente un qualche stralcio di pubblicità del Valencia Open: “Nessuno può stare senza tennis” dice il cartellone. Continuo a camminare. Con fare spaesato, ma anche spavaldo, forte del mio accredito di colore giallo con scritto redactor, corro da un campo all’altro. Non mi voglio perdere nulla. Le vetrate del museo della scienza, adibito a zona allenamento, mi aiutano in questo. Cerco di cogliere quel qualcosa in più come fanno i grandi inviati. Noto Sara Errani che è venuta a vedere il suo amico Taro Daniel: dopo alcuni minuti di indecisione mi butto e le faccio qualche domanda; due domande al volo, poi si distrae giocando con il figlio del suo allenatore. Poteva andare peggio, ma almeno ci guadagno una stretta di mano piuttosto decisa, d’altronde non è mica una femminuccia!
Fra i “qualificanti” rivedo qualche faccia da future, giovani fenomeni, “vecchietti” alla ricerca del riscatto, copione già sentito, ma sempre degno di nota. Perciò scrivo e corro. Corro e scrivo. Nel frattempo ho anche il tempo di farmi degli amici in sala stampa. Pensavo che i giornalisti non avessero voglia di chiacchierare e invece sfrutto le lingue cercando di non risultare presuntuoso o pedante, sembra ci riesca visto che qualcuno si prodiga nel darmi delle dritte interessanti.
Con i giocatori la prendo larga, non ci sono italiani, sono tutti spagnoli o semisconosciuti. Provo ad avvicinarmi con nonchalance a Manuel Messina, l’arbitro italiano più famoso al mondo, in pratica il nuovo Lahyani. Gli rimango simpatico, forse per il mio accento toscano, ma gli arbitri non possono essere intervistati; se dipendesse da lui avremmo fatto una chiacchierata di un’ora, ma con grande dispiacere da parte di entrambi, tutto ciò è irrealizzabile. Da quel momento in poi ci saluteremo come due amici di vecchia data.

Devo aspettare fino al martedì per avere finalmente qualcosa di interessante di cui scrivere: sul centrale, che all’apparenza si direbbe più un tendone cigolante adatto alla sagra del pinolo di San Piero a Grado, Kyrgios perde 7-6 al terzo con Brands, con cui farò la mia prima intervista postpartita. Chardy si degna appena di scendere in campo, mentre Verdasco ha dei passaggi a vuoto che sembrano quelli di un ragazzino under 12 qualsiasi.
Il virus della stanchezza di fine stagione sembra essere arrivato anche a Valencia e così Ferrer si ritira e Tomic perde dando il via all’effetto domino che colpirà le teste di serie. Praticamente tutte le interviste che avevo preparato per i vincitori diventano un malloppo unico di carta da riciclare. Non sono mai stato bravo con le scommesse.
Giovedì è il grande giorno. Gioca Fognini! Sono l’unico italiano fra i giornalisti e quel giorno c’è più gente che fa il tifo per me che per Fabio. D’altronde se batti tre volte in un anno Nadal, può darsi che non tutti in Spagna continuino a volerti bene. Quando rientro in sala stampa dopo la sconfitta di Fognini è come se avessi perso anche io. Inaspettatamente si ferma per rispondere a qualche domanda, giusto il tempo di farlo innervosire (io non c’entro nulla eh!). Ci pensa Feliciano Lopez ad abbattere il morale dei tifosi e giornalisti spagnoli. Non fa meglio Paire che potrà dire quanto vuole che il tennis è la sua passione, ma io continuo a non crederci. Se tra dieci anni pubblicasse un libro “alla Andre Agassi” non mi sorprenderei. Perde con Joao Sousa e guardando il portoghese giocare penso: “Questo non andrà da nessuna parte!” Come ho detto prima, le scommesse non sono il mio forte.
Con la musica nelle orecchie mi godo ogni giorno la mezz’ora di passeggiata nei Giardini del Tùria che separa il mio alloggio dal “circolo”, ma i 28 gradi del venerdì mi fanno maledire il giorno in cui ho deciso di non portare dei bermuda. Nessuno però suda più di Pospisil (per ammissione del suo stesso preparatore) che ai miei occhi diventa il favorito del torneo. Sousa continua a sorprendermi e decido che potrebbe diventare un buon soggetto per una esclusiva. Chiedo e ottengo l’intervista il giorno seguente, dopo la sua vittoria in semifinale proprio contro Pospisil. Balbetto nei primi dieci secondi. Mi scordo che lingua sto parlando. Non la prende bene quando gli dico che secondo me non ha dei colpi perfetti. Non potevo trattenermi dal dirglielo, ma si sa, i portoghesi sono permalosi. Dopo sette intensi minuti ci stringiamo la mano e gli auguro buona fortuna. Ho il sorriso che mi arriva ai lobi delle orecchie. Mi sento come un bambino di nove anni dopo il primo autografo sulla visiera del suo cappellino.
Più tardi Bautista Agut infiamma il pubblico del serale salvando sei match point contro Steve Johnson: è a lui, valenciano della campagna, che tocca salvare le sorti della Spagna. Il suo fisico però non è d’accordo e lo abbandona sul più bello nella finale tutta iberica.

Mentre Joao Sousa alza il trofeo corro in sala stampa, gremita più che mai; due minuti dopo parte il giro delle conferenze. Il finale è quello più triste, più amareggiante e più sospettabile: è l’ultima edizione del torneo; “Nessuno può stare senza tennis” era una menzogna. I volontari cominciano a inscatolare e impacchettare tutto quanto, io finisco di scrivere i miei pezzi, cercando di assaporare fino all’ultimo questa grande atmosfera che ora ha del surreale. Il mio accredito non varrà più niente da domani. Il tendone da sagra di paese probabilmente non esisterà già più quando sarò sull’aereo. Sarà stato l’inizio di una storia d’amore oppure una mera one-night-stand? Difficile dirlo. Di sicuro questa sarà la fine per il Valencia Open e sono consapevole che se un giorno dovessi tornare in questa città non sarà per il torneo, ma per quella incomparabile e attraente paella!

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