La piccola libreria di Ubitennis: Rod Laver, (Bud Collins) e il grande Slam del 1969

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La piccola libreria di Ubitennis: Rod Laver, (Bud Collins) e il grande Slam del 1969

Di Federer sappiamo tutto. Di Rod Laver poco. La cultura tennistica in Italia ha un enorme buco nero. Prima dello sdoganamento pop prodotto da Panatta, e dalla RAI, il tennis era uno sport d’élite. Di quello che è avvenuto prima poco si è visto e meno si è scritto. La piccolo libreria di Ubitennis recensisce per voi un gran libro, incredibilmente mai tradotto in italiano. Bud Collins, il più grande giornalista tennistico del mondo, racconta il grande Slam del 1969 di Rod Laver. L’unico giocatore che ha tutti i titoli per concorrere al mito del GOAT

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Laver R., Collins B. (1971) The education of a tennis player, New Chapter press, 2009

Il problema delle fonti è un concetto chiave quando si comincia a studiare la storia sul serio. In soldoni si tratta di definire e saper riconoscere la validità di una determinata testimonianza in relazione all’attendibilità di un autore o una teoria e quindi accettarla o scartarla. Un problema che nel leggere questo libro non avremo, considerando chi sono gli autori.

Rod Laver è nato nel 1938 e nell’impossibilità logica di stabilire nel tennis come in ogni altro sport chi sia stato il migliore di tutti, Rod è stato certamente uno dei primi cinque tennisti di ogni tempo. Ha vinto il primo dei suoi quattro Wimbledon nel 1961, il Grande Slam da dilettante nel 1962, è stato l’indiscusso numero uno fra i professionisti fra il 1963 e il 1968 e all’avvento del tennis Open ha pensato bene di ripetere il Grande Slam nell’anno di grazia 1969. Il trionfo del talento ma anche dell’intelligenza, della modestia, della voglia di meritarsi i doni ricevuti con applicazione e allenamento costanti di questo mancino basso, rosso di capelli e con le gambe ad arco. “I was a midget” – ero un nano – “però c’era una cosa, il mio corpo insignificante pendeva dal braccio sinistro di King Kong”. E quel braccio sinistro ha scritto la storia del tennis.

Bud Collins è il decano del giornalismo tennistico statunitense. Nato in Ohio, classe 1929 , è stato un giocatore di discreto livello e impugnando la penna con presa eastern ha scagliato i suoi migliori colpi. Firma di punta del Boston Globe e commentatore della NBC per trentacinque anni, è autore della “Modern Encyclopedia of tennis” e di altri testi come “My life with the Pros” del 1989. Si è meritato il posto nella International Tennis Hall of Fame. Chiarito questo passiamo al resto.

Nel 1971 un giornalista americano propone ad un timido campione australiano agli ultimi fuochi di trasferire su carta il racconto del più grande anno che un tennista abbia mai avuto. L’anno è il 1969, l’uomo stampa la sua orma sul suolo lunare e i Beatles si esibiscono per l’ultima volta dal vivo sul tetto della Apple Records a Londra, fin quando il traffico si blocca e la polizia li obbliga a smettere. Il risultato è questo libro, cercate di vederlo come un albero. Il fusto è la narrazione dei quattro Slam conquistati, i rami ci raccontano tutto quel che ci fu intorno e le radici descrivono bene perché Rod poté arrivare a tanto. La penna di Collins scorre veloce e nitida restituendo fedelmente il carattere schivo e tenace del grande australiano, il suo rispetto per il gioco e gli avversari, il tutto condito da un insospettabile humour e situazioni paradossali degli anni di vita nomade nel carrozzone del tennis pro. Al momento della prima stesura erano passati solo due anni dal Grande Slam e la memoria di Laver è fresca e quasi capace di farci vedere i momenti fondamentali dei suoi quattro storici trionfi.

Soffocheremo nell’estate australe di Brisbane assistendo ai cinque set giocati a 40 gradi all’ombra contro Tony Roche in semifinale, rischieremo di affondare con lui nelle sabbie mobili di Parigi in un secondo turno maledetto contro il picchiatore baffuto Dick Crealy prima di “avere la miglior giornata della mia vita sul rosso” e distruggere in finale un certo Ken Rosewall. Nella verde Londra lotteremo al suo fianco per respingere l’assalto dei giovani leoni in caccia, Stan Smith nei quarti, Arthur Ashe in semi e John Newcombe in finale, tutti futuri campioni di Wimbledon. Arriveremo con lui stanchi e felici nella piovosa costa est degli Stati Uniti per trovare in finale ancora Tony e batterlo in quattro set spediti su un campo fradicio e più simile ad un patinoir. Ma sarà nel racconto schietto e diretto di come si arrivò a quel magico 1969 che troverete la parte più interessante, vera e vivaddio istruttiva di questo libro. Dalle partite in pigiama e a piedi nudi sul campo di casa contro i fratelli alla ferrea guida di Charlie Hollis, colui che “vide” Rod per primo e ne costruì fisico, mente e gioco, fino all’incontro con Harry Hopman e con il vero tennis. Ebbene, nell’introduzione Rod dice testualmente “even though i’d been playing tennis for more than twenty years, i was still learning in 1969”. “Nel 1969 stavo ancora imparando” capite?.

A trentun’anni uno dei più grandi di sempre, il numero uno indiscusso del tempo dice che nel 1969 stava ancora imparando. Proiettatevi sull’oggi, dove è lecito presumersi e pontificare appena si possiede una minima competenza, fate i vostri ragionamenti e traete le vostre conclusioni. Rod è sincero nel mettere l’accento sul sacrificio di una vita da girovago della racchetta che al pubblico appare tutta lustrini. La difficoltà di tenere insieme un matrimonio vivendo di fatto separati, la moglie che esasperata da una finale importante rinviata per maltempo gli dice “Se non sei qua entro martedì non disturbarti a tornare”.

Ma anche spaccati divertenti di un mondo che non c’è più, un mondo in giacca e cravatta. Nel 1958 Lew Hoad, un immortale del gioco, è in tour con i pro in Australia, nel Queensland, precisamente nella sconosciuta cittadina di Cloncurry dove “la temperatura di 43° era poco meno fastidiosa delle zanzare”. Lew e i migliori tennisti del pianeta si recano nell’unica birreria ma sono duramente apostrofati dal cameriere. “Trovatevi una giacca e una cravatta o fuori di qui, brutti ceffi”. La sete è tanta e la scelta una sola. Il gruppo si ripresenta vestito come conviene. Ogni singolo capitolo è un gioiello e allo stesso tempo una tappa verso la scoperta di sé stessi e del proprio miglior tennis, anche attraverso 25 piccole lezioni sulla costruzione mentale e tecnica del giocatore vincente. “The killer instinct”, “Pressure”, “Playing on clay” “Hitting trough the ball” e “Know yourself” sono solo alcune di queste, spiegate attraverso esempi tratti dalle migliaia di partite giocate dal Razzo Rosso.

Amarus in fundo, questo libro è in inglese ma fidatevi, fate uno sforzo e leggetelo. Non temete, non si tratta certo dell’ “Ulysses” di Joyce, e al termine sarete grati. E forse, come il sottoscritto, vi chiederete come mai fra mille fotobiografie formato Sorrisi e Canzoni di Nole, Rafa o Roger non abbia mai trovato posto nella mente degli editori e quindi nello scaffale di una libreria questa piccola bibbia del tennis. Detto per inciso, anche l’autobiografia del primo Slammer Don Budge, “A Tennis Memoir”, non ha ancora avuto il beneficio di una traduzione nel volgare italico.

O tempora, o mores…

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