Venus Williams, perché tornerò ad Indian Wells

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Venus Williams, perché tornerò ad Indian Wells

Dopo Serena, anche la sorella Venus ha deciso di tornare quest’anno ad Indian Wells. Ispirata dalla sorella minore, Venus Williams racconta a ThePlayersTribune cosa l’ha spinta a tornare in California

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Venus e Serena Williams (foto di Art Seitz)
 

Qui l’articolo originale

C’è una cosa particolare dell’essere una sorella maggiore.

Quando sei una sorella maggiore, sei la prima, sempre.

A volte è un vantaggio. Essere sorella maggiore significa che sarai la prima a prendere la patente di guida. Significa che sarai la prima ad uscire per un appuntamento. La prima ad avere il permesso di stare sveglia fino a tardi, o di stare a casa da sola.
Significa che sei la prima a crescere.

Nel caso della mia famiglia, questo ha significato anche essere la prima a diventare una tennista professionista. Quindi la prima a partecipare ad un torneo ufficiale WTA. La prima a giocare contro una numero 1 del mondo. La prima a battere una top10, a giocare in un Grande Slam, a giocare una finale di un Grande Slam.

E ovviamente sono stata anche la prima a diventare famosa.

La prima ad avere degli articoli scritti su di me. La prima ad avere richieste di autografi. La prima ad avere uno speciale in TV prodotto per me, a ricevere premi, ad avere delle scarpe a cui hanno dato il mio nome.

Sono stata la prima ad essere conosciuto solo con il mio nome di battesimo.

Venus. Solo Venus.

Ero la sorella maggiore. Dovevo essere prima.
E ne sono orgogliosa.

Certe volte però, essere una sorella maggiore, vuol dire avere delle responsabilità.
Per me essere la più grande significava questo, e mentre facevo il mio debutto da professionista, ero l’unica tennista nel tour ad essere così. L’unica con il mio colore della pelle, con i miei capelli, con le mie origini, con il mio stile.

Essere la sorella maggiore significava che nel momento in cui diventai N.1 del mondo nel 2002, non ero solo la N.1 del mondo. Ero anche la prima donna americana di colore a raggiungere quella posizione. E significava anche che avrei dovuto portarmi dietro l’importanza di quello che avevo raggiunto. Ed anche di questo sono stata onorata.

Essere una sorella maggiore significava che, quando la mia sorellina ha debuttato da professionista, io diventai per lei molte altre nuove cose – la sua collega, la sua avversaria, la sua partner d’affari, la sua partner in doppio. Ma ero ancora, prima di tutto e sopra ogni cosa, l’unica cosa che ero sempre stata: la sua famiglia. Ero la sua protettrice – la sua prima linea di difesa contro la forze esterne. Ed ho amato esserlo.

Essere la sorella maggiore… Non ho preso alla leggera questa responsabilità. Sapevo cosa stava per attraversare, diventare una tennista professionista, crescere di fronte ad una telecamera, entrare nella vita pubblica come una giovane teenager di colore – e sapevo quanto poteva essere dura. E sapevo quanto avrei voluto avere una sorella maggiore durante i miei primi anni nel tour, e quanto fossi orgogliosa del fatto che mia sorella avesse me.

Serena potrà sempre contare su di me.

Ma non ho mai dovuto dirglielo. Essere una sorella maggiore significa che niente deve essere necessariamente detto ad alta voce. È implicito. È compreso:

Tu puoi farcela. Ci sono riuscita io. Segui il mio esempio.

Essere una sorella maggiore significa fare da apripista.
Tu gli mostri la via.

E ancora di più, essere la più grande è un legame. Un legame senza età, e senza direzione; non è definito da chi è più grande, o più piccola, da chi ha le responsabilità, o i vantaggi. Un legame non si basa su chi viene prima.

Un legame si basa sulla forza.
Essere la sorella maggiore di qualcuno significa essere forti per due.

E a volte “essere forti” significa, sì, essere forti. Ed altre – forse più spesso – significa solo esserci. Significa essere lì, quando ce n’è bisogno, a qualunque costo.

E questo – sopra ogni cosa – è quello che per me vuol dire essere una sorella maggiore.
Significa esserci.
Significa essere lì per Serena.

Quando Serena ha deciso di tornare a giocare ad Indian Wells lo scorso anno, sono stata estremamente fiera di lei. Non aveva messo piedi lì dal nostro torneo del 2001, nessuna delle due.

Per spiegarmi la sua decisione, Serena mi disse che aveva letto tanto su Nelson Mandela. Ha imparato molto da lui, ha pensato a lui – rielaborando tutte le complesse questioni sul suo viaggio e i suoi principi.

Riguardo il perdono.

Quando Serena si appassiona a qualcosa, riesci a vedere i suoi occhi che si illuminano. E posso dire che gli insegnamenti appresi dal Signor Mandela erano qualcosa che stava prendendo molto seriamente. E quindi non mi sorprese per niente quando, poco dopo, le venne l’idea che poteva esserci questa opportunità unica per lei a Indian Wells – non solo di imparare dall’esperienza di Mandela, ma di mettere in pratica quello che aveva imparato.

Ero davvero fiera di Serena per tanti motivi: per la percezione di sé che ha mostrato affrontando la nostra complicata storia ad Indian Wells; per aver preso questa decisione con così tanta tenacia; per aver trasmesso la sua decisione con una tale grazie e chiarezza; e ovviamente, per aver giocato con altrettanta grazia e chiarezza.

E sapevo che sarei dovuta essere lì per Serena – a qualunque costo – perché questo è ciò che fa una sorella maggiore. Loro sono lì.

Sono andata a guardarla e ho tifato per lei.
Ed ero così fiera.

Ma per quanto fossi fiera, la verità è che i miei sentimenti personali non erano cambiati: non pensai che giocare di nuovo ad Indian Wells sarebbe stato qualcosa che avrei voluto fare.

In campo Serena è molto più emotiva di me – e tutti possono vedere il suo lato competitivo più di quanto non riescano a vedere il mio. Ma questo non vuol dire che io non sia emotiva, e non significa che io non sia competitiva. Credo solo di essere più istintivamente calma. Non lo faccio in maniera conscia. Mi viene naturale.

Ed onestamente, dal mio punto di vista, sarei potuta essere la più competitiva delle due. Ma credo che la capacità di Serena di dare tutto in campo le permetta di gestire meglio le emozioni. Per me invece credo che il processo sia un po’ più conflittuale. La mia calma invece mi porta a pensare di più. E se mi sento in determinato modo riguardo qualcosa, la mia competitività forse mi rende più lenta.

Credo che questo sia avvenuto anche con Indian Wells.

Da una parte, i ricordi di ciò che avvenne nel 2001 sono ancora vividi.

Ricordo il mio match di quarti di finale, contro Elena Dementieva, come fosse ieri: 6-0, 6-3, una vittoria davvero bella conto un’ottima tennista. Ricordo il dolore del mio infortunio al ginocchio, e quanto fortemente volessi giocare in semifinale contro Serena – finché non ho accettato alla fine che non ne sarei stata in grado. Ricordo bene le accuse contro me, mia sorella e mio padre. E ricordo la reazione del pubblico mentre raggiungevo gli spalti durante il match di finale di Serena. E ricordo come non riuscivo a comprendere la reazione delle centinaia di persone che reagivano in quel modo – contro una ragazza di 19 anni ed una di 20, che provavano a fare del loro meglio.

Ci sono delle cose che se ti accadono in giovane età, semplicemente non riesci a dimenticarle.

Ma d’altro canto, se ci ripenso, dopo così tanti anni – il ricordo non è tanto su quello che successe, quanto su come mi sentii quando successe, e questo mi aveva bloccato.

Ricordo come mi aveva ferito. Ricordo la mia confusione e la delusione e la rabbia. Ricordo di come la copertura di quello che successe a quel tempo non sembrava preoccuparsi di me e Serena come persone – ma solo sulla storia in sé. E con la versione della storia che poteva attrarre di più l’attenzione, a prescindere dalla verità. Ricordo la sensazione di aver sbagliato qualcosa, quando non avevo fatto nulla di male. Ricordo la sensazione di aver subito ingiustamente il peso della colpa di una brutta situazione.

E ricordo di aver lasciato Indian Wells nel 2001 sentendo di non essere la benvenuta.

E sentire di non essere la benvenuta è un ricordo difficile da cancellare, a qualunque età. A 20 anni? È quasi impossibile. E questo è ciò che feci. Ho trattenuto tutto dentro.

Ma poi ho visto Serena.

Ed è stato in quel momento, dopo aver visto Serena accolta a braccia aperte lo scorso anno ad Indian Wells, che credo di aver realizzato completamente e sinceramente, cosa significhi essere una sorella maggiore.

Ovvero che per tutte le cose che ho fatto per prima, e tutte le volte che ho aperto la strada a Serena, questa era la cosa di cui sarei dovuta essere più fiera.

Quando Serena ha aperto a me la strada.

Giocherò ad Indian Wells quest’anno – 15 anni dopo la mia ultima apparizione, ed un anno dopo Serena. Adesso che il tabellone si avvicina, non vedo l’ora. Non vedo l’ora di vedere gli incredibili campi californiani. Non vedo l’ora di prendere parte ad un torneo importante WTA. Non vedo l’ora di incontrare i fans – che hanno svolto un ruolo davvero importante ed hanno aiutato a rendere speciale l’anno scorso.

Ma più di tutto, non vedo l’ora di giocare a tennis.

Sembra semplice, vero? Ma dopo 30 anni che gioco a tennis, ho imparato alcune cose. Ho imparato che non importa cosa accade, e cosa non accade. Dove ti trovi, o devi sei stato, alla fine della giornata: il tennis è il tennis. È sempre, sempre il tennis. Non c’è nulla di meglio.

Chi mi ha insegnato questo?

In realtà, è una storia divertente. È stata la più grande tennista del mondo.

Io sono la sua sorella maggiore.

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