Baci da Barcellona, da Pedralbes a Rafa Nadal, da El Prat a Radek Stepanek

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Baci da Barcellona, da Pedralbes a Rafa Nadal, da El Prat a Radek Stepanek

Riassunto di quasi una settimana da inviato vissuta a mille all’ora: l’ATP di Barcellona non è solo tennis ma anche un’esperienza di vita che ti forgia in virtù delle prove più dure

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C’è quella strana sensazione che ci avvolge ogni volta che stiamo per chiudere un avventura vissuta a grande velocità, dove per diverse ore si lavora duramente per arrivare preparati alle diverse situazioni che la giornata ci pone; fino ad allora non esistono stanchezza, freddo, caldo, sete o fame, sonno. I pranzi e le cena sono spesso rimediati, oppure decisamente saltati o posticipati a piè pari, i messaggini privati al cellulare rimangono in attesa di risposta per decine di minuti, e l’appartamento dove si alloggia utilizzato esclusivamente per lavarsi e per dormire.
Quando tutto questo cessa, all’improvviso, questa strana percezione di vuoto ci avvolge, una repentina stanchezza che gode dell’adrenalina che ormai ci sta lasciando.

Mi trovo all’imbarco numero 25 dell’aeroporto El Prat quando tutto questo avviene, mentre sul teleschermo in un angolo, a fianco delle pareti a vetro che affacciano sulla pista, stanno trasmettendo l’incontro fra Rafael Nadal e Fabio Fognini, e qualche eroico viaggiatore, appollaiato sullo sgabello, cerca di seguire il match fra il caos generale; molti dei miei compagni di volo sono rassegnati, accovacciati in fila sulle sedie tra uno sbadiglio e l’altro, dopo l’ennesimo spostamento del volo diretto a Bologna: “C’è una perturbazione fra Madrid e Barcellona”, bisbiglia qualcuno, ma hanno già rinviato sei volte l’orario e non sappiamo se questa notte dovremo rimanere qui oppure, a questo punto miracolosamente, riuscire a rientrare.
Ad un certo punto di fianco a me, compare un uomo con la bocca semi aperta intento ad osservare il tabellone illuminato dei voli: trattasi di Sir Radek Stepanek, sta rientrando in Repubblica Ceca dopo la bella prestazione sulla terra al Real Club, dove ha raggiunto gli ottavi di finale partendo dalle qualificazioni. Lo saluto, qualche battuta rilassata, ed improvvisamente appare l’uomo per come è, ossia immensamente timido, un buono, con la voce spezzata in gola, una “maschera” del tennis che tanto ha dato a questo sport. Martin Klizan, che è con lui, mi guarda come se fossi appena sbarcato da Marte: non devo avere un bell’aspetto poiché una delle valigie, la più grande, ha percorso talmente tanta strada che la gomma si è consumata a tal punto da non permettermi più di trascinarla, pertanto sono costretto a sollevarla ad ogni minimo spostamento. Ho un improbabile foulard blu attorcigliato al collo per evitare che l’aria condizionata sparata all’interno dell’aeroporto mi dia il colpo di grazia, ed ebbene sì, la mia avventura tarda a finire e anzi, pare complicarsi dopo giorni dove tutto è filato abbastanza liscio.

Sarebbe stupido dire di non aver ripensato continuamente al miscuglio di emozioni appena vissute, all’esordio, frenetico e convulso, davanti allo storico club spagnolo, il Reial Club de Tenis, il più antico del paese, in un fresca mattinata di lunedì, dove mi imbatto in Teimuraz Gabashvili, che entra direttamente dall’ingresso principale già cambiato per il primo incontro, con scarpe ancora sporche di terra dal giorno prima.

ATP Barcellona 2016
Faccio non troppo timidamente capolino in sala stampa dove, a dirigere i lavori, sono già appostati i “senatori” del clan spagnolo, ovvero i cronisti storici della carta stampata nazionale. Sorseggiano caffè tutto il giorno fra pettegolezzi, un gran vociare di chiacchiere (sempre “bueno”) e qualche match di Barcellona e Valencia sul monitor riservato alla stampa, il tutto, per uno o due articoli sul giornale del giorno dopo. Mi butto in una scrivania fra il referente delle statistiche ATP e un giornalista di Mundo Deportivo che nemmeno mi degna di uno sguardo. Dal canto mio non faccio in tempo nemmeno ad aprire la borsa che già la “capessa” degli spagnoli grida che Nadal è al Tibidabo per un set fotografico: “Al che?” esordisco io. “Ma come, non sai dov’è? È il parco divertimenti di Barcellona, si trova a dieci minuti in taxi da qui”.
Non faccio in tempo a presentarmi allo staff che gli altri cronisti si sono già dati tutti alla macchia: per quanto mi riguarda non so nemmeno dove mi stia trovando in quel momento, figuriamoci il Tidi… Il Tribibabo, ehm… il Tibidabo, come cavolo si chiama, come potrei mai pensare di fare un buon lavoro, sigh!
Spunta Kei Nishikori, nella stradella che congiunge i campi d’allenamento: è in stato di trance, fissa il pavimento come un’ameba e con la bocca mezza aperta si fa largo verso “il vestiario”; nessuna intervista, non se ne parla, afferma Chang. Allora impugno la macchina fotografica e scatto due foto, batto il fuoco e “tac- tac”: si evince ancor di più da due semplici istantanee la concentrazione che questi atleti devono raggiungere per trarre il massimo dalla loro mente su ogni punto.

Sotto lo stand dell’incordatura appare Richard Gasquet, con la carta di credito fra le dita mentre paga il conto delle corde: in volto è nero, esce mestamente dalla tenda  mentre l’addetto gli dà una pacca sulla spalla: “Cosa avrà fatto?”. Piombo in sala stampa e scopro che si è appena ritirato dal torneo, si è riacutizzato il problema alla schiena, anzi no, sta bene, mi dicono; anzi no, è confermato che si è cancellato, annunciano, questa volta definitivamente, comunicano dall’ufficio Media.
Dà forfait anche David Ferrer, che fino a cinque minuti prima stava a tirare pallate pazzesche allo sparring sul campo sette.
ATP Barcellona 2016
Per Rafael Nadal tutto si ferma, e quando comincia l’ultimo countdown prima della sua discesa nel bunker della sala stampa, le postazioni pc rimangono deserte per la prima volta in quella settimana; decide lui, qui, a che ora giocare e come devono essere i campi. “È il Direttore ombra del torneo”, mi viene da dire con Gabriele mentre sorrido: anche Albert Costa si muove per osservare l’allenamento dell’ex numero 1, all’interno della gabbia n.8, lui, ex primo competitor di Rafa in terra madre.
Quando entra in sala Prensa però è nero in viso, con la mascella contratta, e pare evidente come non abbia voglia di parlare adesso che è appena iniziato il torneo. Mi siedo nel primo seggiolino manco fossi un alunno al primo giorno di scuola; il moderatore del Trofeo Godò dà il via alle danze: “Domande?”. Nessuna risposta. “Domande?” ripete. Mi butto. “Sì, una domanda Rafa…” Mi gela con lo sguardo, inarcando il solito sopracciglio; apprendo poco dopo che hanno la priorità prima gli spagnoli poi le domande in inglese, e infine, forse, il sottoscritto italiano, anche se in spagnolo.

Metto il naso fuori, c’è Fognini che ha appena finito l’allenamento, quando fa ritorno dai campi è solo, pare arrivi da un altro pianeta. Sguardo per aria, spalle che ondeggiano a destra e sinistra e camminata in punta di piedi, mentre papà Fulvio ha già iniziato a prendere posto al ristorante assieme a Josè Perlas, lo sparring e il fisioterapista.
Il giorno dopo mi trovo assieme a loro nuovamente, accolto gentilmente nel box per seguire l’esordio al torneo dell’unico azzurro in gara. Poco prima, coach Perlas aveva organizzato un briefing in campo per il malandato servizio del ligure: Fabio lo segue come un vecchio zio, e le parole che l’allenatore spende centrano il segno della mente cocciuta del futuro Mr Pennetta, tant’è che il giorno dopo la battuta inizia a dare i primi frutti. Perlas, in tribuna, dà il cinque a tutti ad ogni punto importante, commentandolo con argute spiegazioni filosofiche: Fulvio invece segue silenzioso nascosto sotto la coppola e gli occhiali da sole, fra unghie e sigarette.
ATP Barcellona 2016
Nel corsello c’è un claudicante Carlos Bernardes che snocciola racconti di vita tennistica a mezzo Club, manco fosse lo Zio Tom, ma è rilassato e sorridente, e la gente pare apprezzarlo molto chiedendo decine di foto: “Sì, con Rafa il match di ieri è andato bene, ormai la tensione è passata”, mi confida a margine della Pista 2, ma “niente microfoni per favore, l’ATP non me lo consente”.
Dietro di noi si materializza anche Pat Cash, con in mano un gelato di un misterioso network televisivo. Ora fa il giornalista, dicono, e sta intervistando i ball boys su quale sia il loro idolo tennistico, ma arriva Feliciano Lopez e la folla molla l’australiano per andare a sbavare dietro all’idolo di casa; l’ex campione di Wimbledon appare disorientato, prima tenta un’improbabile avanzata col microfono nei confronti dello spagnolo, poi indietreggia scoraggiato senza porre nessuna domanda.

La sera, invece, c’è anche tempo per una fuga solitaria nella vicina Sarrìa, l’intimo quartiere pre-collinare di Barcellona, anche se in chat mi incalzano: “A Pedralbes ti spennano, gira che trovi anche dove cenare a buon mercato”. Mi imbatto in alcuni frizzanti locali, ma non ho voglia di entrare, decido dunque di rimanere assorto nei miei pensieri mentre tento invano di trovare le ceneri dello stadio che dà il nome al quartiere, “l’oracolo” simbolo dei mondiali di Spagna ’82, dove Paolo Rossi firmò quella storica tripletta ai danni di una delle più forti corazzate brasiliane di sempre. Provo a chiedere informazioni a qualcuno, ma mi imbatto solamente in un gruppetto di ragazzi fradici di alcool che barcollano davanti ad una chiesa, mentre l’unico evento della serata pare essere un camion della spazzatura che non riesce a transitare fra uno dei temibili vicoli del rione, mentre tutti escono fuori dai locali per assistere “all’evento” incitando il camion a passare ugualmente a discapito delle pareti delle antiche case. Scendo nuovamente verso Pedralbes, quando mi appare nell’oscurità un buco fra le case della grandezza di un campo da calcio, con in mezzo una trentina di campi da padel, e nessun cenno dell’incontro Italia-Brasile.

Esco di scena con la consapevolezza di aver lasciato il lavoro ad un valido collega, mentre transito per l’ultima volta dietro al Reial Club, che di sera fornisce un colpo d’occhio non indifferente, con tutti quei i lumini accessi intorno alle aiuole e sopra il colonnato in cotto della struttura originaria.
Mi rimane solo che salutare tutti, ringraziandoli per quest’accoglienza speciale; dalla vigilessa dell’ingresso laterale che tanto sembra essere uscita da un film di Almodòvar, all’inflessibile referente dell’ATP, tanto severa quanto timida, al responsabile delle conferenze stampe che mi sgrida fraternamente per nome quando piombo su Fognini in sala Prensa, ai giovanissimi funzionari dell’ufficio Media e a Mr. Oliver, il factotum dell’ufficio Stampa che manda avanti tutta “la baracca” in maniera impeccabile.

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