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La Piccola Biblioteca di Ubitennis. Vitamina. Sandro Veronesi

Speciale “venerdì letterari” di Ubitennis. Per gentile concessione pubblichiamo integralmente “Vitamina” (oggi la prima parte, venerdì prossimo la seconda) di Sandro Veronesi

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Il singolare contro Paladini lo persi 6-4, 6-4, ma giocai molto bene e a sprazzi mi sembrò che il suo campo fosse grande e il mio piccolo, come quando giocavo in doppio con Luca Ciardi. Nel secondo set ebbi anche una palla per il 5-4, che sprecai mandando in corridoio uno smash – perché attaccavo, e costringevo Paladini a fare i pallonetti. Questo mi bastava per essere soddisfatto, e perciò, davanti a tutto quel pubblico, tenni un comportamento esemplare, anche quando l’arbitro mi rubò un punto, chiamando fuori un servizio vincente. Lasciai che a protestare fosse il nostro allenatore, ma l’arbitro fu irremovibile e non concesse nemmeno due palle. Io non battei ciglio, non detti del venduto all’arbitro o del ladro a Paladini, non volai la racchetta contro la rete di cinta: trattenni la rabbia, mi concentrai sulla seconda palla e commisi mansuetamente doppio fallo – ma nemmeno dopo quel doppio fallo mi arrabbiai, nemmeno dopo aver perso il game per quella ragione. Ero soddisfatto di me, stavo lottando alla pari con un avversario più forte e più grande di me, e i miei genitori avevano fatto male a non venire. E poi c’era sempre il doppio.

Luca Ciardi strapazzò Perfetti – uno che perdeva da pochi altri, in Italia –, mentre il singolare femminile lo vinse Marina di Carrara secondo pronostico. 2-1 per loro, e mancavano i due doppi. Fu deciso di non giocarli contemporaneamente, per permettere al pubblico di assistere a entrambi, e per primo fu fatto disputare il doppio misto. Malgrado la componente femminile avvantaggiasse i nostri avversari, il loro terzo maschio era piuttosto scarso mentre noi avevamo Francesco Generoso. Capelli lunghi, maglietta colorata fuori dai pantaloncini, Adidas sporchissime senza calzini, Generoso testimoniava della prima vera mutazione estetica del tennis moderno, quella che di lì a un anno o due sarebbe stata imposta al mondo da Vitas Gerulaitis. Sarebbe stato molto forte se solo si fosse allenato a modo, ma aveva altre cose per la testa – ragazze, motocross –, e così aveva perso il posto di secondo singolarista, a mio vantaggio. Rimaneva però un valore aggiunto nel doppio misto, anche perché le sue randellate di dritto a tutto braccio avevano più campo per andare a segno, grazie ai corridoi. L’incontro fu molto combattuto ma alla fine vincemmo noi, e così, come mi aspettavo, il doppio maschile diventava decisivo. Paladini-Perfetti erano campioni toscani in carica, Luca Ciardi campione d’Italia, e poi c’ero io. Il pensiero che mi aveva tenuto sveglio tutta la notte era fondato: sarei stato l’ago della bilancia.

Vincemmo di slancio, in due set. Io risposi benissimo (campo degli avversari ancora più grande del solito), non feci troppi doppi falli e a rete piazzai qualche volée vincente: il resto lo fece Luca Ciardi, dando letteralmente spettacolo. Alla fine però quello portato in trionfo fui io, dopo che ebbi fatto di corsa tre giri del circolo con la coppa in mano. Più che felice ero sollevato: tutta quella pressione, tutta quell’emozione e la notte in bianco non mi avevano impedito di giocare bene – cosa che, con un Ciardi così, era più che abbastanza per vincere il titolo.
A casa mi presi le mie soddisfazioni.
“Allora? Com’è andata?”
“State parlando con un campione toscano.”
“Davvero? Complimenti!”
“Avete mai parlato con un campione toscano?”
“Bravo.”
“E tu, fratello? Lo so che mi senti, là dentro. Hai mai parlato con un campione toscano?”
“Io sono campione toscano.”
“Sì, ma di sci. Io sto parlando di tennis, fratello. Campione toscano di tennis.”
“A squadre. E con Luca Ciardi nella tua.”
“Ah, l’invidia! Che brutta bestia.”

Restai a casa pochi minuti, giusto il tempo di fare la valigia, perché il tennis, il mio sport, mi chiamava a Bologna. C’era un torneo nazionale che cominciava quel giorno, e per via dell’impegno nella coppa a squadre il mio incontro di primo turno era stato spostato all’indomani mattina. Se l’avessi vinto avrei dovuto giocare il secondo turno al pomeriggio.
Sul treno locale per Bologna rivissi i momenti più esaltanti della partita. La solidità del mio dritto incrociato era ormai una realtà conclamata. Quello smash in sospensione nel primo set. Il servizio in slice che permetteva a Luca Ciardi di entrare e chiudere con la volée. Quella palla facile facile che mi era capitata sulla racchetta sul set-point: in passato l’avrei sbagliata per l’emozione, e poi mi sarei demoralizzato, avrei cominciato a fare doppi falli, gli avversari si sarebbero ringalluzziti, e invece… Là, piazzata di fino tra le gambe pelose di Perfetti, in scioltezza, senza problemi. E che dire della forza fisica che mi sentivo dentro? Dopo una notte insonne e due incontri consecutivi mi sentivo un leone, impaziente di tornare in campo.
A Bologna i miei cugini vennero a prendermi alla stazione. La mamma li aveva informati per telefono e loro si dichiararono orgogliosi di me. Raccontai loro per filo e per segno la partita, e a casa la raccontai di nuovo alla nonna e alla zia, e anche se fui onesto nel dire della bravura impareggiabile di Luca Ciardi per loro ero un campione anch’io. In mio onore, per cena avevano fatto le tagliatelle al ragù di prosciutto, e me ne mangiai due piatti. Poi andai a letto, per arrivare riposato all’incontro del giorno dopo – ma non dormii nemmeno quella notte. Avevo una gran sete, una gran sete. Il ragù di prosciutto, pensai. Trascorsi la notte in cucina, a bere l’acqua minerale fatta con le bustine e a pensare all’indomani. Non sapevo nemmeno che avversario mi era toccato ma poco importava: aveva ragione il dottorino, chi c’era c’era, io avrei lottato per batterlo.

La mattina dopo feci una bella colazione: pane inzuppato nel caffellatte, come si usava a casa della nonna. I miei cugini erano più grandi di me, uno doveva andare a lavorare e l’altra a scuola, sicché non poterono accompagnarmi: ma il Tennis Club Bologna era molto vicino a casa loro, ai giardini Margherita, e la strada per raggiungerlo a piedi era facile facile. Era fine maggio, c’era un gran caldo già di prima mattina, e nel circolo era tutto un tripudio di piante fiorite. Di nuovo quell’odore di gelsomini che m’inebriava.
Al primo turno mi era toccato un gruppo B di Perugia, e lo spazzai via. Magicamente, era tutto rimasto come il giorno prima, come se Luca Ciardi fosse al mio fianco – e invece lui a quel torneo non partecipava proprio, doveva farne uno internazionale a Milano. Servizio, volée, smash: a quanto pareva ero venuto a capo di questo sport inventato dal diavolo che mi aveva succhiato il sangue per anni.
Nel pomeriggio dovetti giocare di nuovo, contro un gruppo A che era anche testa di serie numero 8. Mezzo australiano, addirittura, e perciò bello, biondo, con la fascia tra i capelli e tre racchette Dunlop una più nuova dell’altra. Tirava parecchio forte, negli scambi era decisamente migliore di me – ma il suo campo rimaneva enorme, e il mio piccolo, e io ebbi la sfrontatezza di pensare che avrei potuto battere pure lui. Era forte nello scambio? Ok, non avremmo scambiato. Avremmo giocato la partita che volevo io, fulminea e senza ritmo come un doppio. Sempre a rete dopo il mio servizio, anche con la seconda palla; sempre smorzata seguita a rete quando rispondevo, di tanto in tanto attacco lungo sul rovescio: se mi passava, pazienza, io non cambiavo, e lui non poteva mai trovare il ritmo di cui aveva bisogno per esprimere la sua superiorità. Risultato: andò completamente fuori palla, cominciò a sbagliare da solo e a dare in escandescenze, spaccò in terra una delle sue tre Dunlop e un’altra se la tirò su un ginocchio, azzoppandosi. La partita finì sul 6-3, 3-1 per me perché fu costretto a ritirarsi, e io approdai per la prima volta agli ottavi di finale di un torneo nazionale.

CONTINUA VENERDÌ 20 MAGGIO

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