Arrivederci Roma, tra la via Appia e Andy Murray

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Arrivederci Roma, tra la via Appia e Andy Murray

Bilancio di una settimana che si credeva migliore. Il torneo di Roma sarà anche il quinto Slam ma gli altri quattro rimangono un’altra cosa. Tra la stanchezza di Nadal, il cattivo umore di Djokovic e la soddisfazione di qualche ragazzo, Roma rimane distante dal tennis

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Roma è bellissima. E vabbè. Se avete la fortuna di pernottare dalle parti del Colosseo, in questo quartiere Monti che fa finta di rimanere agli anni 40 nonostante turisti e lounge bar, con osterie rassegnate a tradurre in inglese i rigatoni alla Gricia o la cacio e pepe, quando vi avvierete al tennis, rigorosamente con mezzi pubblici, la passeggiata ve la ricorderete a lungo. Si intravedono delle rovine, si passa dal Foro di Nerva, si guarda dubbiosi un loggiato dove c’è una sede dei Cavalieri di Malta – unico organo che non governa nessun territorio ma ha un seggio all’ONU – ci si istruisce sulle colonnacce. Il segreto è dare le spalle a quell’ingombrante magnifico anfiteatro, Flavio pare lo chiamassero, ma sapendo che c’è e dimenticandosi di quelle grate che sareste pronti a scommettere non c’erano trent’anni prima; non badare a carrozzella che va co’ du’ stranieri, immaginare cosa c’è dietro l’arco di Tito; subire il fascino del gigantismo dell’assurdo altare della patria (minuscolo per favore); imparare che la colonna traiana è una colonna coclide (pare significhi “a spirale” secondo Salerno. Ma per fortuna Andrea Girolami lo spiega meglio, è il caso di lasciargli la parola: “Coclide non ha etimo da spirale, ma dal latino cochlis-cochlidem, ‘chiocciola’. È la colonna “tortile” ad essere scolpita con sviluppo “a spirale”, mentre per la Traiana è doveroso precisare che è il fregio decorativo ad avere sviluppo continuo a “spirale”, e non la colonna stessa, altrimenti sarebbe stata appunto una colonna “tortile”…). Roma non è certo Melbourne, che nelle due settimane dello slam vive di tennis, te lo trovi tra i piedi ovunque, persino nei musei.

Il sorteggio a Piazza del Popolo è uno scimmiottamento che prelude alla sensazione che non ti aspetti, né su Roma né su un “1000”: una forma di provincialismo, o se volete da festa di piazza, sagra paesana, che accompagna l’inviato per i suoi 10 giorni. La sorpresa che il racconto da tregenda – “a Roma devi calcolare due ore per andare da un punto all’altro. Al Foro Italico? Ci perdi la giornata, lassa perdere” – è decisamente esagerato, regala un sollievo che solo l’impatto con la prima vista del Foro compensa. Negativamente. Arrivandoci dal Ponte della Musica è complicato comprendere tutti quei discorsi sulla “location”. Si vede un fabbricato brutto, davvero brutto, che si scopre essere una vecchia aula bunker dove si tenevano i processi alle Brigate Rosse durante gli anni di piombo, anche se la fonte non sembra orientarsi perfettamente nel sottobosco della sinistra extraparlamentare del tempo; chissà se è vero, diamolo per buono.

All’interno il solito bazar, con gente che raddoppia i prezzi – chi sa, parlerebbe, con cattive parole, di gentrificazione dello sport, ma questo non è calcio, non c’è niente da gentrificare, maledetti – tanto è uguale, devi stare 12 ore. È il mercato babe, non puoi farci niente. Un vialone che scimmiotta Hollywood, con la Walk of Fame costruita con qualche polemica, perché qui Panatta non è ben visto: un’indecorosa processione di piastrelle che parte qualche passo dopo l’aula bunker e arriva fino al Grandstand. Ci sono grandi progetti per il Grandstand, ma intanto si fa la gara a cercare di renderlo infrequentabile, riempendolo di gente sconosciuta. I posti per i giornalisti sono assegnati con un certo criterio; probabilmente c’è stato un tizio che è entrato, ha dato un’occhiata e ha detto “quali sono i posti peggiori? Quelli da cui non si capisce niente?. E chi se la sente di dargli torto? Però nel frattempo ci sono millanta posti vuoti e quindi va bene lo stesso. C’è qualche partita nei campi periferici, finalmente si vede questo famoso “Pietrangeli”, il campo delle statue, quello più bello del mondo. Come non arrivarci prevenuti? Come non pensare agli esperimenti di Watzlawick, alla pragmatica della comunicazione umana, non foss’altro che per fare un po’ di scena? Come che sia, siamo vicini ai giocatori, cosa che sembra esaltante, ma a patto di essere un appassionato di tennis. Altrimenti il rischio è di essere assaliti da una profonda pena per quel poveraccio che arranca, sbuffa, protesta, inveisce, perde o magari vince ma solo per perdere la volta successiva, perché in questo campo non ci giocano quelli che arrivano in finale, di solito. Però stavolta sì, non si erano fatti i conti con Murray, il più imbronciato di tutti, quello che vincerà il torneo facendo arrivare una volta a 5 solo David Goffin, e solo perché è Murray, e perdendo 25 game in tutto, nessuno gliene vincerà più di 6 tutti insieme. Ma Murray non è per tutti, ha vinto solo due slam, il poveraccio, almeno lo 0,002%, stando larghi, degli esseri umani ha fatto meglio, quindi perché seguire uno qualunque? Meglio Djokovic che sbraita e urla e che però non è simpatico ma è forte ed è uno showman ed è elastico ed è il più forte di tutti e insomma che noia; Federer che tutto vorrebbe fare tranne che giocare, e Nadal che ha l’aria di chi dice “se mi arrendo che ne sarà di me?” contenti loro.

Si saluta qualcuno, qualcun altro scruta misteriosamente in cagnesco, si assegnano facce ai nomi, sempre stupendosi, si cerca l’idea, si scrive qualcosa si torna finalmente all’autobus. Adesso è di nuovo Roma, finalmente, il signore a due passi dal quell’Anfiteatro lì che avrà 80 anni e insieme alla moglie che ne avrà 79 tiene il negozietto ancora aperto alle 23: “Ma che ci fa ancora sveglio a quest’ora?”. “E se andavo a dormire chi le dava le cose?”. “Vabbè ma io domani non vengo”. “E verrà n’altro”.

Il giorno dopo la passeggiata già non si guarda più, serve fare in fretta, arrivare al foro italico. È già mercoledì (e io no, diceva Bergonzoni, che è un genio) il giorno dell’evento. No, non c’entra Federer, che però dirà “mi sa che questo torneo non lo vinco” ma una cosa che fanno per i giornalisti. Se credete che qualcuno faccia un discorsetto vi sbagliate, serve solo a dar da mangiare a qualcuno, far le scorte per il resto della settimana. Arriva Binaghi, fa talmente tanta tenerezza nella sua solitudine e con quella camicia rosa da provocare un’inaspettata alzata di calice. “La solitudine di Binaghi”, sembra un bel pezzo, chissà. Il tempo di mangiare un pessimo ragù di pesce che l’occhiata al resort che ospitava il tutto ricorda l’assalto dei sardi alla Federazione. Sono tutti sardi, e tutti con la faccia arcigna. Prima che dispetto provocano una certa compassione. Ma mai come la festa in onore della Pennetta, davvero incommentabile, forse è snobismo, sicuramente è snobismo, ma quella roba lì solo a qualcuno di perverso può venire in mente. Poi però torna in mente la vera sagra paesana col bravo presentatore che non fa ridere, tenuta il giorno prima in mezzo al delirio per “il capitano”, uno che da queste parti pare famoso, e allora viene da rivalutare la Pennetta, la simpatica Schiavone, la povera Vinci, che deve trovare il modo di salvarsi da tutto questo. Bisogna aver fiducia, ce la farà Roberta a non finire così, speriamo trovi qualcuno in grado di spiegarglielo.

Ci sono state le partite, questi ragazzini buttati allo sbaraglio tra gente che gioca per la sopravvivenza. Sono contenti di prendere tre giochi a Kyrgios, trovano il giornalista che gli chiede se sa di aver fatto la storia della Sicilia oggi (o mio dio) e loro pensano dica sul serio. Tutti bravi ragazzi, davvero, con un sorriso solare; c’è l’unico che ci crede davvero che sarebbe Cecchinato, che perde da Raonic, non uno qualsiasi, e la sorpresa del torneo, quello su cui puntare, che ovviamente è il ragazzino su cui la federazione punta meno, sembra lo facciano apposta. Lorenzo Sonego ha colpi, testa e cuore, è gracile, crescerà, speriamo bene. Se la Federazione fa i numeri come con Bolelli e Giorgi fomenteremo sollevazione popolare, è una promessa.

Il giovedì già non se ne può più, si è visto tutto quello che si doveva vedere, si sorride mestamente della rassegna stampa preparata dalla torneo, che presenta articoli di siti che fanno un terzo dei nostri lettori di dicembre ma hanno il pregio di non disturbare il manovratore, poi dice che uno ci resta male. Federer sembra dello stesso umore, prova in tutti i modi a perdere contro Thiem e finalmente ci riesce, col rammarico di tutti, ma figurarsi che gli frega. I “1000” valgono quanto una Coppa Italia, basta vedere come li tratta Djokovic che perde 6-0 il primo set contro Bellucci. C’è il tempo di una bella partita, del povero Nadal che alla sua età ancora deve remare e remare, sfiancarsi, contro Nicolino Kyrgios, che invece non si stancherà mai, al limite litigherà, al limite vincerà meno, ma si divertirà molto di più di quanto lo spagnolo potrà mai sognare. Nadal vince e si regala Djokovic, un altro venerdì di passione, ma intesa in quel senso lì, non in quello di buono. Djokovic è terribilmente più forte, finisce col dare l’impressione di Federer, di uno che scende in campo decidendo di non stancarsi troppo e vada come vada e poi lì diventa il tennista di borgata, quello che non vuole perdere manco a bocce, figurarsi contro Nadal. La partita ha una curiosa caratteristica: piace agli under 60 ma non agli over 60. Costretti a scegliere siamo forse condizionati dall’età, vecchi sì ma non fino a questo punto. C’è del bello anche in quella sofferenza, è uno sport cattivo il tennis, non è fatto per tirare fuori il meglio di sé. Ma del resto lo sappiamo, lo sport non forma il carattere, piuttosto lo rivela, anche nello spettatore. Djokovic vince e replica il giorno dopo, quando pioggia e vento regalano raffreddori. C’è stato il tempo per le colazioni con vista anfiteatro, la pioggia fa un po’ Francia ma pazienza, forse è meglio così.

Si spera di tornare a casa presto, davvero non se ne può più. Nishikori vince un primo set francamente brutto, Djokovic ha voglia di andarsene e poi rimane intrappolato. Si deve rimanere fino a mezzanotte, non si finisce prima delle due, dicono che l’articolo ne risenta, non hanno ragione ma non importa, per fortuna c’è Brera, lo leggano.

Finalmente è domenica, ma c’è ancora il tempo di farsi venire un po’ di sangue amaro. Si ascolta il racconto di un’esperienza che fa sembrare una disfatta la battaglia di Napoleone ad Austerlitz, con questo presidente del CONI con gli improbabili capelli da uomo di potere, però in carriera, perché non basta mai. Si presentano numeri che nessuno capisce, viene il ricordo di altre situazioni, più serie forse o semplicemente più discorsive, in cui i relatori non l’avrebbero passata così liscia. All’uditorio pare basti, beati loro, anzi no, non sanno cosa si perdono. Chiedono se Djokovic farà di Roma la sua seconda casa, certo, come no, non vede l’ora. Supertennis stacca quando il direttore fa una domanda, accanto al delicato uomo che ha detto “dovrebbero sparare alle gambe a chi rifiuta la convocazione in nazionale”, Binaghi non intenerisce più, si comporta come ci si aspetta da lui, non troppo elegantemente si aggrappa ai codici linguistici conosciuti, quelli che sentite in televisione a base di “non mi faccio fare la predica sul sociale”. Mai nessuno che dica “embè? io la faccio lo stesso, che pensa di fare?” Confortato da Repubblica dice che i risultati italiani sono ottimi, siamo nei quarti di Coppa Davis e la Schiavone ha vinto Roland Garros perché sfruttava Tirrenia, che sia chiaro a tutti non serve a sfornare giocatori, ma chissà a cosa. L’uomo con i capelli da potente si lancia in un azzardato paragone con i prezzi dei biglietti di Champions League, l’evento principale di uno sport lievemente più popolare. In un crescendo di delirio si mormora un “per ora”, meglio andare a vedere la partita. Non prima di un’altra grottesca sceneggiata, con Panatta premiato da Ricci Bitti, con l’uomo che voleva sparare alle gambe insieme a quello con la camicia rosa che ridacchiano, nervosi e protervi.

Stavolta Djokovic ci riesce a perdere, Murray non è né Nadal né Nishikori, gli riserva lo stesso trattamento degli altri, sei game e via, ci si vede a Parigi. La partita non cambierà nulla per Djokovic, ma forse cambierà qualcosa per Murray, lo sapremo prestissimo. Djokovic si arrabbia lo stesso, ha paura di farsi male, appare poco sereno, chissà la tensione tra qualche giorno. Murray ha l’aria di uno che ha finito la giornata di lavoro, non è troppo divertito, forse non ha gradito l’atmosfera, quando dice che è contento di iscrivere il suo nome nell’albo d’oro del torneo ha l’aria di non ricordare di che torneo stessero parlando tutti.

È finita, l’ultima carbonara a Testaccio, per rendere omaggio all’ultimo luogo comune su Roma. Che nostalgia però, non si è vista la via Appia, accidenti.

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