La Piccola Biblioteca di Ubitennis. Vitamina. Sandro Veronesi (seconda parte) - Pagina 2 di 2

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La Piccola Biblioteca di Ubitennis. Vitamina. Sandro Veronesi (seconda parte)

Speciale “venerdì letterari” di Ubitennis. Per gentile concessione pubblichiamo integralmente “Vitamina” (oggi la seconda parte, venerdì scorso la prima) di Sandro Veronesi

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“Non ce la fa. Se perde il secondo non ce la fa.”
“Ce la fa.”
“Non c’è verso. Lo vedi, è già cotto.”
“Non è cotto.”
“Il ragazzo è fresco come una rosa.”
“Sì però intanto perde.”
Pur lottando come un leone, e giocando il suo tennis arioso, antico, molto più bello dell’ottuso tambureggiare del suo avversario – un tennis che proviene dritto dagli anni settanta, dalle racchette di legno e dalle finali di Coppa Croce che il nostro ha giocato a quell’epoca, e anche vinto, insieme agli altri grandi vecchi del mio circolo –, il nostro perde il secondo set. Il suo avversario ha trentaquattro anni meno di lui. Fa sempre più caldo. In tribuna c’è un certo pessimismo.
“Non ce la farà mai.”
“Ce la fa, ce la fa…”
“Ma è impossibile, dai. Stanno giocando da due ore.”
“Non c’è problema, vi dico.”
Non è che si riesca a distinguere chi dice cosa, è una specie di coro greco appena bisbigliato, ma la voce che insiste a ripetere che il nostro ce la farà è una sola, sempre la stessa. Finché:
“Ma, scusa, come fai a essere così sicuro?”
“Faccio che sono sicuro.”
“Non gli avrai mica dato la vitamina?”
“…”
“Rispondi. Gli hai dato la vitamina?”
“…”
“Non ci posso credere. Gli ha dato la vitamina.”
“Ma sei pazzo? Ha l’aritmia.”
Il dottorino sorride, il cappello da pescatore calato sulla fronte, gli occhietti furbi.
“Me l’ha chiesta lui.”
“Siete pazzi, tutti e due.”

Dopo un’altra ora di lotta durissima il nostro vince il terzo set, 7-5, e il circolo passa il turno, accede alla finale a quattro. Io però non ho più seguito la partita, sono rimasto imbambolato tutto il tempo a ripensare, a ricordare, a non riuscire a credere. Quel campo avversario così più grande, il mio così piccolo. Quelle notti insonni, quella sete. Quel crollo totale dopo due giorni, con tutto che si era rovesciato. Possibile? Avevo quattordici anni, non avevo ancora fumato una sola sigaretta né bevuto un solo bicchiere di vino schietto. Possibile?
Prima di tornare a casa per il pranzo tiro da una parte Massimo, uno dei miei amici di allora. Più grande di me, giocava con la Yoneyama. Lui ha continuato a giocare e pare sia più forte ora di allora, a quarant’anni suonati.
“Senti, ma cosa vuol dire che gli ha dato la vitamina?”
“Lascia stare.”
“No dai, dimmelo. Cosa gli ha dato?”
“Ma niente, quegli intrugli che fa lui.”
“Quali intrugli?”
“Parla piano. Quelli che chiama vitamina.”
“E che cos’è, invece? Amfetamina?”
“Parla piano, ti dico.”
“È amfetamina?”
“Credo si sì.”
“E l’ha sempre fatto?”
“Sì. Era famoso, per questo, credevo lo sapessi. Lo sanno tutti.”
“Avevo quattordici anni, che potevo sapere.”
“È vero anche questo.”
“E la vitamina la dava anche a quelli che giocavano i tornei? Cioè, le lotte sul campo centrale, le maratone in coppa Facchinetti, tutto nel segno della vitamina?”
“Nooo, ci mancherebbe. La prendeva lui, per sé, per battere il Risaliti sul campo 1, o l’Andreozzi, o quelli più giovani. È la prima volta che la dà a qualcun altro, che io sappia.”

Guardo il dottorino, che mi ballonzola davanti col suo passo leggero, da ballerino, diretto verso il ristorante.
“Quanti anni ha?”
“Eee, più di ottanta, ormai. Ha perso il cervello.”
Allora ne aveva cinquantacinque, però. Era consigliere del circolo, aveva la farmacia, aveva fatto il giuramento d’Ippocrate. Per un lungo momento penso di dire a Massimo quello che ho appena capito, ma poi decido di no: non toglietemi anche quei due giorni, penso, gli unici in cui sono venuto a capo del tennis. La punizione l’ho già avuta, il terzo giorno: non toglietemi le uniche soddisfazioni che mi ha dato il gioco del tennis, penso, insieme a tanto dolore.
“Allora ci vediamo.”
“In gamba. E un’altra volta che vieni avverti, che facciamo un doppio.”
“Non gioco più, Massimo.”
Vado via. L’odore dei gelsomini è lo stesso di allora, dà quasi alla testa. Nel pomeriggio prenderò la macchina che fra due mesi mi ruberanno, la moglie dalla quale mi separerò tra due anni, i bambini che ne soffriranno terribilmente, e ritornerò a Roma. Stasera li addormenterò nei loro letti e poi m’infilerò nel mio, e chiuderò gli occhi, e questo magone sarà passato, e mi addormenterò rivolgendo un lungo pensiero protettivo alla mia famiglia, ai miei amici, a Luca Ciardi, a Rinaldini, a Paladini e Perfetti, a Francesco Generoso, all’australiano, al dottorino e, come dice sempre mio padre, a tutte le navi in mare.

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