Roland Garros femminile, una nuova generazione si affaccia al potere

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Roland Garros femminile, una nuova generazione si affaccia al potere

Con la vittoria di Garbiñe Muguruza in finale su Serena Williams è tornata ad affermarsi negli Slam una giocatrice sotto i 23 anni. Ma non è stata l’unica giovane a farsi notare a Parigi

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Il Roland Garros 2016 è stato un torneo con alcuni aspetti di continuità con il recente passato, ma anche con una novità di grande importanza. Da una parte, infatti, i quindici giorni di partite hanno confermato la sensazione di fluidità e labilità delle gerarchie attuali; ma, dall’altra, invece, per la prima volta è stata una tennista giovane a diventare protagonista, vincendo il titolo. E dato che nel tennis contemporaneo gli Slam sono diventati i riferimenti fondamentali per stabilire i valori in campo, la vittoria di Muguruza assume una portata estremamente significativa.

Ma prima di fare ragionamenti ad ampio respiro vorrei tornare sul torneo appena concluso. Comincerei con il dire che il cattivo tempo non ha solo influito sulla programmazione, ma ha avuto ricadute anche sugli aspetti tecnici, e quindi sui risultati. Le continue piogge e la grande umidità hanno determinato condizioni di gioco particolari: hanno appesantito campi e palline, favorendo le tenniste fisicamente più potenti, in grado di spingere la palla autonomamente senza avere bisogno di appoggiarsi a quella avversaria. E così in semifinale sono arrivate quattro ragazze simili (Muguruza, Stosur, Williams e Bertens): tutte dal fisico eccezionalmente forte, con qualche limite nella mobilità e nel gioco difensivo, ma capaci di servire bene e di imprimere grande energia alla palla durante lo scambio. Di conseguenza sia nelle semifinali che in finale chi ha saputo comandare il palleggio e tenere le redini del gioco più a lungo ha finito per prevalere.

Per quanto mi riguarda in questa edizione sono stato colpito soprattutto da tre giocatrici, relativamente giovani: Shelby Rogers (23 anni), Kiki Bertens (24 anni) e, naturalmente, Garbiñe Muguruza. Ci sarebbe forse da aggiungere Yulia Putintseva (21 anni), ma purtroppo non sono riuscito a seguire per intero nessuna delle sue partite, e dunque mi mancano i requisiti necessari per parlarne.

Shelby Rogers: entrata nel tabellone principale per un soffio (al momento della definizione dell’entry list era numero 108, l’ultimo posto utile per l’ammissione di diritto), è riuscita a superare i livelli dell’estate 2014, quando era arrivata in finale a Bad Gastein partendo dalle qualificazioni, e poi aveva sconfitto perentoriamente Eugenie Bouchard in Canada. A Parigi si è fatta strada grazie a un tennis potente e preciso, con un ottimo servizio e un dritto quasi incontenibile: in alcuni match è apparsa così ispirata che quando poteva colpire con il dritto da ferma otteneva sistematicamente il vincente. Prima di essere fermata dalla futura vincitrice Muguruza ha ottenuto quattro successi non da poco, contro Pliskova, Vesnina, Kvitova e Begu. E grazie al quarto di finale ha guadagnato 48 posizioni, arrivando al numero 60, best ranking in carriera.

Best ranking in carriera anche per Kiki Bertens: 31 posti scalati sino al numero 27. I meriti di Bertens sono ancora superiori, e non solo per il turno in più raggiunto (ha perso in semifinale da Serena), ma perché ha dovuto farsi largo attraverso un tabellone terribile: Kerber, Giorgi, Kasatkina, Keys, Bacsinszky, fino a Williams.
Un percorso difficilissimo non solo per la qualità delle avversarie, ma per la varietà delle loro caratteristiche: continua alternanza fra tenniste forti nel gioco di contenimento e grandi attaccanti. Contro Kasatkina (sconfitta 6-2, 3-6, 10-8) ha dovuto affrontare una battaglia logorante: si è trovata di fronte una specialista del gioco su terra, tenacissima e paziente, disposta ad affrontare scambi interminabili sulla diagonale debole di entrambe (quella del rovescio) per impedirle di liberare la potenza del suo colpo più forte, il dritto. Bertens ha finito per avere la meglio più che per ragioni tecnico-tattiche per maggiore solidità fisica, visto che al momento di servire (due volte) per il match, Kasatkina non è più riuscita a spingere il servizio a causa di problemi muscolari.

Per Bertens le 6 partite di Parigi si sono sommate alle 7 disputate nella settimana precedente a Norimberga, dove aveva vinto il torneo partendo dalle qualificazioni. Alla lunga i tanti match si sono fatti sentire, sotto forma di un piccolo infortunio al polpaccio. Ma non credo si possa colpevolizzarla per la programmazione scelta; è quella che adottano normalmente molte giocatrici di rincalzo, che non si aspettano di andare tanto avanti negli Slam e quindi non si preoccupano di risparmiare le energie alla vigilia. E che Bertens avesse sottostimato le sue possibilità lo si deduceva anche dal fatto che veniva data partecipante al torneo 125K di Bol, in Croazia, in calendario durante la seconda settimana del Roland Garros: significa che aveva “messo in programma” di perdere nei primi turni del Major.

In realtà Bertens ha confermato di trovarsi particolarmente bene a Parigi, dove già nel 2014 era arrivata al quarto turno partendo dalle qualificazioni. Quello che mi ha colpito del suo gioco non sono state tanto la pesantezza del dritto e del servizio, due doti ampiamente conosciute, quanto la maggiore sicurezza mentale e la solidità dalla parte del rovescio. E normalmente è proprio l’efficacia del colpo ritenuto più debole a dare la misura delle condizione di forma di una giocatrice.
Sul piano stilistico trovo che il colpo più bello del suo repertorio sia proprio un particolare tipo di rovescio: quello di recupero giocato slice ad una mano, al termine della scivolata laterale; una soluzione classica da terra battuta (la scivolata è parte sostanziale dell’esecuzione), eseguita con una coordinazione impeccabile e sorprendentemente elegante per un’atleta della sua mole. E sempre staccando la mano dal rovescio bimane, Kiki ha sagacemente utilizzato la palla corta, colpo molto utile nelle condizioni di gioco pesanti delle settimane passate.

Ma la maggiore protagonista di Parigi è stata naturalmente Garbiñe Muguruza. E’ stata lei, come dicevo all’inizio, a trasformare l’ultimo Roland Garros in un evento particolarmente significativo. Per diverse ragioni.
La prima è che finalmente è tornata a vincere uno Slam una giocatrice giovane: Muguruza è nata l’8 ottobre 1993, significa che ha 22 anni e mezzo. Nelle recenti stagioni le ultime in grado di vincere un Major ad una età simile sono state Victoria Azarenka (Australian Open 2012, a 22 anni e mezzo) e Petra Kvitova (Wimbledon 2011, a 21 anni e 3 mesi). Da allora si erano affermate solo tenniste mature.
Non solo: con la sua vittoria si aggiunge una seconda giocatrice nata negli anni ’90 all’elenco delle vincitrici Slam, primo fermo alla sola Kvitova (nata nel marzo 1990). In più con il successo di Muguruza abbiamo avuto anche un primo responso al quesito posto in un articolo che avevo scritto nel giugno 2015, su chi fra le nuove leve avrebbe avuto le maggiori possibilità di conquistare uno Slam (la mia opinabilissima idea metteva Keys al primo posto, Muguruza al secondo, Stephens al terzo).

Ma credo che fermarsi ai dati statistici sarebbe limitativo; non è infatti meno importante il modo con il quale Garbiñe ha vinto il torneo. Dopo aver perso il set di esordio contro Schmiedlova (battuta 3-6, 6-3, 6-3), ne ha vinti 14 di fila. In fondo non ha attraversato momenti particolarmente difficili: citerei il primo set contro Shelby Rogers (quando, se non ricordo male, sotto 3-5 ha salvato un set point e poi infilato sette giochi consecutivi sino al 7-5, 3-0) e il primo set contro Serena, quando ha perso il break di vantaggio ma se lo è ripreso evitando di doversi giocare il parziale al tie break.
E a suo ulteriore merito devo dire che non ho nemmeno avuto la sensazione che per vincere la finale abbia dovuto sfoderare la “partita della vita”: ha senza dubbio giocato bene, ma a questi livelli secondo me si era già espressa in passato (in alcuni match di Wimbledon 2015 e dei tornei cinesi di fine stagione). Dunque l’impresa non è stata estemporanea.

Se allarghiamo l’analisi al di fuori del torneo e ragioniamo su tempi più lunghi, la sua vittoria contro Williams diventa forse ancora più significativa. Negli ultimi anni chi aveva messo più in difficoltà Serena erano state le giocatrici in grado di contenere e contrattaccare, allungando il palleggio: come è successo a Kerber agli Australian Open 2016, o come ha saputo fare Azarenka. Sembrava invece più difficile che Serena si facesse battere da tenniste spiccatamente di attacco: se si esclude la sconfitta contro Kvitova a Madrid 2015, era da tempo che Williams non trovava una rivale in grado di superarla con le sue stesse armi, cioè “mettendo sotto” l’avversaria, tenendo il comando delle operazioni nella maggior parte degli scambi.

Nell’articolo di presentazione del torneo avevo posto questa domanda: la Serena vincitrice di Roma sarà sufficiente per conquistare Parigi? La risposta l’abbiamo avuta: la numero uno del mondo è ancora molto competitiva, ma se il suo livello di gioco è questo, l’esito dei match non dipende più solo da lei; nel circuito attuale c’è chi è in grado di tenerle testa e anche di spuntarla.

E se a Flushing Meadows e a Melbourne la mia sensazione era stata che sul risultato avessero pesato i carichi psicologici determinati dal possibile raggiungimento del Grande Slam e del record di Steffi Graf (i famosi 22 Major), a Parigi la sconfitta mi è sembrata con meno attenuanti, e più strutturale: la inevitabile conseguenza di una superiorità complessiva da parte di Muguruza, sia sul piano fisico che tecnico. Garbiñe non è stata meno potente di Serena, ed è stata più efficace negli spostamenti e nella conduzione del gioco: più capace di prendere il comando dello scambio e di tenere una posizione a ridosso della linea di fondo.
La capacità di essere più aggressiva da parte di Muguruza è stata una costante del match. Perfino il maggior numero di doppi falli (9, contro i 4 di Serena) indica che era scesa in campo assolutamente decisa a non cedere l’iniziativa, anche quando avesse dovuto fare ricorso alla seconda di servizio. Alla fine i numeri le hanno dato ragione: ha vinto il 45,4 % di punti sulla seconda contro il 42,8% di Serena; a conferma che considerare il dato dei doppi falli senza valutarne l’impatto sugli equilibri del match è limitativo: a volte è meglio rischiare (e sbagliare) di più sulla seconda se comunque il saldo finale dei punti vinti rimane vantaggioso.

Un’altra delle chiavi del successo di Muguruza a mio avviso è stato l’utilizzo del dritto lungolinea, che già le era servito per mettere in difficoltà Shelby Rogers. Abbastanza rapidamente Garbiñe si è resa conto che Serena tendeva a rimanere sulla direzione incrociata, senza recuperare del tutto il centro del campo; e così dopo i primi game ha cominciato ad accettare la sfida che implicitamente l’avversaria le lanciava (cioè di provare a cambiare direzione, abbandonando la diagonale), finendo per avere la meglio anche nella costruzione geometrica dello scambio. Per certi aspetti la tattica di Serena mi ha ricordato quella adottata agli Australian Open 2007 (ne avevo parlato QUI), solo che questa volta non è stata altrettanto vincente.

A Serena, inoltre, è in parte venuto a mancare il sostegno del servizio: non tanto per la bassa percentuale di prime (non è la prima volta che serve attorno al 50%), quanto per il poco aiuto avuto da ace o servizi vincenti sui punti importanti; eppure sino a qualche tempo fa il superiore killer instinct emergeva regolarmente nella sua capacità di servire meglio di tutte proprio nei frangenti decisivi.

Dopo questo match inevitabilmente sono cresciuti i dubbi nei confronti della numero uno del mondo, che sta vivendo una serie di situazioni inedite: sia per quanto riguarda le finali perse (Slam e non solo), sia per la modalità di raccolta dei punti in classifica, dato che per la prima volta nella carriera mantiene il primato nel ranking non più grazie alle vittorie, ma soprattutto grazie ai piazzamenti. Una situazione insoddisfacente per chi ha come primo obiettivo il raggiungimento del record di Steffi Graf.
A quasi 35 anni è difficile tornare al livello degli anni passati, ma credo che prima di darla sulla strada del declino irreversibile sia giusto aspettare; in fondo Parigi era il Major meno adatto alle sue caratteristiche, e penso dovranno essere Wimbledon e Flushing Meadows a farci capire quale potrà essere il suo ruolo nel circuito in futuro. Anche perché se il fisico non può essere quello di qualche anno fa, rimane pur sempre una giocatrice di grandissimo carattere e superiori mezzi tecnici.

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