Tornei scomparsi: c'era una volta il West...Side Tennis Club - Pagina 2 di 3

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Tornei scomparsi: c’era una volta il West…Side Tennis Club

Per la nostra serie “I tornei scomparsi” è il momento del Tournament of Champions – Forest Hills, un torneo con un’erba un po’ diversa da quella di WImbledon…

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Quando le mucche furono indirizzate verso altri pascoli e là, dove c’era l’erba malmessa, venne steso uno strato di terra verde, ovvero quella polvere grossa ricavata dalla lavorazione delle rocce di basalto che si trovano in grande quantità sulle Blue Ridge Mountains, in Virginia. Una svolta importante, che però ebbe l’unico effetto di rinviare a tre anni dopo l’inevitabile. E l’inevitabile partì dalla mente di William “Slew” Hester, allora presidente della United States Tennis Association e fermo sostenitore che fosse giunta l’ora di affrancarsi dai club privati e domiciliare gli US Open in una casa di proprietà. Sembrava una follia ma, si sa, spesso i “folli” hanno una visione del futuro assai più lucida degli altri e quando lo sguardo di Slew, in volo sul cielo di New York, cadde sul Singer Bowl, fu amore a prima vista. Aperto al pubblico la prima volta per l’esposizione mondiale del 1964 e sponsorizzato dalla Corporation che gli diede il nome, il Singer Bowl ospitò negli anni concerti di grandi gruppi rock (memorabile quello del 2 agosto 1968 in cui gli Who fecero da apripista ai Doors di Jim Morrison), importanti incontri di boxe e altre manifestazioni. Dopo qualche anno l’impianto iniziò a segnare il passo e, data la sua natura inizialmente temporanea, non venne esclusa l’ipotesi dell’abbattimento; molto probabilmente fu proprio l’iniziativa di Hester a salvarlo, anche se l’esigenza di adattarlo al tennis gli fece perdere del tutto l’identità. E il nome. In molti pensarono che la finale degli US Open 1977, in cui Guillermo Vilas sublimò la sua stagione da extra-terrestre sulla terra battendo Jimmy Connors con un perentorio 6-0 al quarto set, sarebbe stato l’ultimo grande evento tennistico a Forest Hills perché già si sapeva del trasloco a Flushing Meadows e del progetto di trasformare il Singer Bowl in uno stadio per il tennis. E dodici mesi dopo, puntualmente, il major statunitense debuttò sul cemento del Louis Armstrong rottamando, in senso prettamente sportivo, il centrale di Forest Hills. Il contraccolpo psicologico si fece sentire e solo la consolidata vocazione musicale lo salvò dalla depressione. I grandi concerti dell’estate americana tennero vivo l’interesse sul West Side Tennis Club ma, capirete, è quella parola, tennis, che stonava con le belle canzoni di Janis Joplin, Pat Metheny, Jaco Pastorius e via di seguito.

L’ancora di salvezza gliela gettarono quelli del WCT, dapprima organizzando per due estati consecutive il loro “Invitational” e in seguito quando decisero di spostare il loro “Tournament of Champions” da Dorado Beach a Forest Hills. Anni complicati, gli Ottanta, per la creatura di Lamar Hunt e soci. Svanito in buona parte l’effetto dirompente che aveva avuto sul mondo del tennis, il WCT si trovava ora a metà di un guado di cui non si intuivano le insidie ed era combattuto tra la rivendicazione della propria autonomia (e di conseguenza la rottura inevitabile con gli altri organismi, ATP in primis) e l’accettazione di un ruolo di partnership. Comunque sia, dopo due edizioni estive dell’Invitational (un torneo con dodici protagonisti divisi in tre gruppi di quattro ciascuno con la famigerata formula del round-robin seguita da semifinali, a cui accedevano i primi di ciascun gruppo e il migliore tra i secondi, e finale) che ebbero scarso appeal in quanto collocate subito dopo Wimbledon, il 5 maggio 1980 prende il via la prima edizione del torneo dei campioni. Ventotto giocatori, di cui la metà statunitensi, cercano di raccogliere la pesante eredità lasciata dagli US Open. Jimmy Connors, seconda testa di serie e beneficiario di uno dei quattro bye concessi dall’organizzazione, debutta con una sconfitta per mano dell’elegante indiano Vijay Amritraj e in finale ci vanno due newyorchesi doc: John McEnroe e Vitas Gerulaitis. Dopo averlo battuto nelle loro prime tre sfide dirette (tra cui di gran lunga la più importante è stata la finale degli US Open 1979), McEnroe ha perso gli ultimi due confronti diretti con l’amico Vitas. Al momento di iniziare la finale piove e John non ha nessuna intenzione di scendere in campo. Undicimila persone sugli spalti e la tv che ha preso i diritti di trasmissione sono però ragioni più che sufficienti a limitare il rinvio a mezzora poi, sotto un cielo plumbeo, si parte. John domina il primo set, si porta 1-0 nel secondo finché Gerulaitis esce dallo stato soporifero con cui si è destreggiato fino a quel momento, incamera dodici dei tredici giochi successivi e porta a casa il titolo.

L’anno dopo, i due perdono subito. Dopo un turno preliminare che coinvolge solo 22 atleti, nei sedicesimi entrano in scena i grossi calibri ma vengono subito sorpresi. Fritz Buehning da Short Hills, New Jersey, batte il campione in carica in due set (7-5 7-5) nonostante Gerulaitis si trovi a condurre 5-1 nel secondo. “Ero pronto per il terzo” dichiarerà Fritz a fine match; “Ho perso la concentrazione, ho iniziato a commettere doppi falli e favorito la sua rimonta” la spiegazione di Vitas. John McEnroe, reduce dalla vittoria nelle finali di Dallas, arriva a un punto dal successo ma il piccolo brasiliano Carlos Kirmayr viene graziato da una risposta lunga dell’avversario sul 5-6 del tie-break del secondo set, lo vince 9-7 e infine, dopo aver perso il gioco d’apertura del terzo, ne infila cinque consecutivi a suo favore e batte per la prima volta in carriera un tennista del calibro di McEnroe. La favola del sudamericano prosegue a colpi di match-point annullati. Dopo quello a Supermac, Kirmayr ne fronteggia tre contro lo spagnolo Angel Gimenez (al quale curiosamente succederà come coach di Gabriela Sabatini alcuni anni più tardi) al terzo turno (3-6 7-6 6-2) e altrettanti contro l’ungherese Balasz Taroczy nei quarti (4-6 7-6 7-6 e il primo tie-break vinto 15-13!). È un peccato che, nel soleggiato e caldo pomeriggio di New York, ci siano solo poco più di tremila persone sugli spalti ma le dimensioni di Carlos sono altre. Abituato a lottare nelle retrovie e fin troppo modesto nelle dichiarazioni (“Come ho fatto ad annullare sette match-points? Niente, hanno fatto tutto gli altri. Io mi sono limitato a rimettere la palla in campo…”), in tutto l’anno precedente ha racimolato appena 40.000$ mentre qui, qualora dovesse aggiudicarsi il torneo, ne prenderebbe centomila tutti in una volta. Arrivato diciassettenne negli States con l’obiettivo di imparare l’inglese (“Avevo ambizioni da cantante rock ma non capivo il senso delle parole…”), iniziò a giocare a tennis al Modesto Junior College in California e ha finito per sostituire la chitarra con la racchetta. In semifinale ha la meglio, stavolta senza patemi, del polacco Fibak in due frazioni ma sul traguardo un altro “piccoletto”, Eddie Dibbs, lo priva del lieto fine.

Come a sua volta viene privato dell’ultima gioia l’anno successivo, pur avendo sconfitto McEnroe in semifinale, perché il giorno dopo si imbatte in un uomo che, a detta dello stesso John, “non si sa dove arriverà ma se continua così certamente molto in alto”. L’uomo è Ivan Lendl e il povero Dibbs, già sconfitto nei sette precedenti e all’ultima di 42 finali in carriera, viene spazzato via in 47 minuti, per il disappunto dei 12.661 spettatori che fanno subito i conti di quanto gli è costato al minuto il biglietto per quella non-partita. “Sono due passi troppo lento per lui” afferma un rassegnato Dibbs e del resto contro uno che ha vinto 88 degli ultimi 91 incontri ufficiali disputati, cosa puoi aspettarti? Ivan diventerà in seguito l’unico capace di vincere questo torneo tre volte ma quando si tratta di difendere il titolo, nel 1983, incappa in un mancino francese che non sai come prenderlo e perde 6-2 6-3 al terzo turno. Henri Leconte non è però mai stato un mostro di regolarità e collassa il giorno seguente contro Kriek (6-0 al terzo). La finale è la stessa di tre anni prima ma stavolta John McEnroe fa buona guardia e batte Gerulaitis 6-3 7-5. Nel biennio successivo il torneo ha la miglior finale possibile: John McEnroe contro Ivan Lendl. Il primo round, nel suo ormai leggendario 1984, se lo aggiudica l’americano. Il giorno precedente un pubblico record di 13.785 spettatori assiste attonito al 12-0 inflitto da Lendl a Jimmy Connors. “Ero lì e colpivo bene la palla ma lui non ha mai sbagliato” dichiara Jimbo, frastornato. “Connors è pericoloso, se gli dai la minima possibilità di rientrare nel match sei fregato. Mi aveva battuto nelle finali degli ultimi due US Open; questo 6-0 6-0 mi riempie di soddisfazione” precisa Ivan.

“Credo che Ivan fosse consapevole che oggi sarebbe stata una partita diversa. Sto giocando come probabilmente non ho mai fatto prima nella mia carriera ma penso di poter ancora migliorare”. Il cronista guarda McEnroe non senza stupore e tutto quello che riesce a chiedergli è: “Pensi di poter finire l’anno senza mai perdere?” E il mancino: “Penso di sì. Se smetto oggi!”. Un siparietto per archiviare una finale in cui l’americano ha giocato con il cecoslovacco come il gatto con il topo. Lendl, sia pur a fatica, tiene fino al 4-5 ma lì perde la battuta e con lei la fiducia di poter infastidire il grande rivale. Il solco lo scava la differenza di versatilità tra i due protagonisti. La seconda di Lendl è sempre troppo timida e ha solo l’obiettivo di tenere McEnroe lontano dalla rete ma così facendo si espone alle invenzioni del genio, che alterna deliziose volee a mortiferi drop-shot con cui a sua volta chiama in avanti il rivale per poi passarlo. Ma Ivan non ne fa una tragedia: “Se penso a come stavo due settimane fa, questa finale mi sembra una conquista insperata. Sapevo che oggi sarebbe stata una partita diversa rispetto a ieri; con Connors è bastato mettere la palla in gioco e aspettare, con John questo non basta. Dovevo fare qualcosa di più ma lui me lo ha impedito”. Dodici mesi dopo Lendl restituisce lo sgarbo. SuperMac è un po’ meno super rispetto all’anno prima mentre Ivan è il primo candidato a sottrargli lo scettro di re del mondo, che è già stato suo in passato. Le prime quattro teste di serie raggiungono le semifinali e le prime due la finale, nonostante sia Krickstein che Sundstrom riescano a strappare il set centrale ai rispettivi e più quotati avversari. Lendl ha più certezze, McEnroe è all’inizio della discesa che lo allontanerà dalla vetta: inevitabile il doppio 6-3 per il cecoslovacco.

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