Intervista esclusiva ad un grande mental coach, Alle Mora: "L'importante è tenere a bada il dialogo interno”

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Intervista esclusiva ad un grande mental coach, Alle Mora: “L’importante è tenere a bada il dialogo interno”

Intervista esclusiva al mental coach Alessandro “Alle” Mora, uno dei massimi esperti mondiali di PNL, che ha lavorato con sportivi di alto livello di tante discipline. Argomento il coaching in ambito sportivo, in particolare nel tennis professionistico. Con un suggerimento finale anche per i tennisti di qualsiasi livello: perché ognuno di noi può allenare la propria mente per ottenere delle performance migliori

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In molti avranno notato che alle classiche figure dell’allenatore e del preparatore atletico nei team dei tennisti professionisti si sono aggiunte negli ultimi anni altre figure professionali, con l’obiettivo di permettere al tennista o alla tennista in questione di scendere in campo essendo in grado di esprimersi al massimo delle proprie potenzialità psico-fisiche.
In questo contesto, una figura che sta diventando sempre più diffusa è quella del mental coach, il professionista che aiuta l’atleta a prepararsi al meglio dal punto di vista mentale alla performance agonistica.
Figura professionale nata in America negli anni 80 e che negli anni si è man mano diffusa anche in Europa ed in Italia, il mental coach opera in tre aree fondamentali: life, business e sport.

Per saperne un po’ di più di come un mental coach “allena” la mente dei professionisti dello sport, lo abbiamo chiesto a uno dei migliori, Alessandro “Alle” Mora. Attenzione, con Alle abbiamo parlato dei professionisti, ma la realtà è che anche gli sportivi dilettanti si rivolgono sempre di più ad un mental coach quando vogliono raggiungere un determinato obiettivo.
Perché in fondo – che si tratti di arrivare tra i primi dieci nella gara più importante dell’anno, piuttosto che di “limare” in maniera significativa la propria miglior prestazione cronometrica o anche semplicemente di riuscire ad avere un approccio più sereno alla competizione – gli obiettivi sono gli stessi, sebbene ovviamente il livello sia molto diverso.

Alle Mora, parmigiano di nascita, è mental coach da circa vent’anni. Formatosi con alcuni dei più importanti trainer a livello mondiale come il dott. Richard Bandler, John La Valle, Paul McKenna e Anthony Robbins, è uno dei massimi esperti di PNL (Programmazione Neuro Linguistica) non solo in Italia ma nel mondo. Sebbene lui con modestia glissi sull’argomento e lo si venga a scoprire parlando con altri esperti del campo.
La PNL è una disciplina fondata da Richard Bandler e John Grinder a metà degli anni ’70 in California. Bandler e Grinder partirono dallo studio dei terapeuti che “facevano la differenza” come Virginia Satir, Fritz Perls, Milton Erickson per estrapolarne le strategie di successo e capire come essere più efficaci. Oggi le applicazioni della PNL si sono allargate allo sviluppo personale, alla comunicazione, allo sport, alle relazioni personali e lavorative.
Mora è Master Trainer in PNL dal 2008, titolo assegnato direttamente da Richard Bandler e riservato a una trentina di persone in tutto il mondo che hanno dimostrato un’eccezionale abilità nell’insegnare e applicare la PNL. Nei corsi Internazionali tenuti dallo stesso dott. Bandler e della Society of NLP è a capo del Top Team degli assistenti. In Italia, con EKIS, la società di cui è uno dei soci fondatori, tiene i corsi di specializzazione in PNL, oltre ad altri corsi di formazione per aspiranti mental coach professionisti.
È inoltre docente ufficiale della Scuola Dello Sport del CONI nei moduli di Coaching, Comunicazione Efficace, Team Work e Team Building.

Lo sport è infatti da sempre una delle passioni di Alle e di conseguenza è diventato una delle sue specializzazioni nell’ambito della sua professione di mental coach. Da quando ha iniziato, nel 1997, ha seguito sia atleti singoli che squadre di quasi tutti gli sport. Tra questi, ovviamente, anche il tennis.
Ed è proprio della sua esperienza come mental coach nelle varie discipline sportive e poi più specificatamente nel tennis, che abbiamo parlato in questa intervista che ci ha rilasciato durante una pausa di un corso di specializzazione in PNL che ha tenuto a Milano.

Alle, come si svolge il tuo lavoro di mental coach con gli atleti professionisti?
Innanzitutto dipende, ovviamente, se lavoro con una squadra o con un singolo atleta. Se sono ingaggiato da una squadra come mental coach – di solito per l’intera la stagione – allora all’inizio concordo con l’allenatore l’obiettivo su cui dovrò lavorare con la squadra. In questo caso le sessioni di lavoro vedono la partecipazione collettiva di tutto il team e fornisco strumenti di teamwork, comunicazione efficace, gestione degli stati d’animo ecc. Parallelamente, c’è una sessione individuale facoltativa per ogni singolo atleta. Io presento ai giocatori il mio lavoro e periodicamente, in genere ogni due settimane, sono da loro per una giornata intera e lavoro con gli atleti che hanno deciso di lavorare con me anche singolarmente.
C’è poi un momento di allineamento con l’allenatore, nel quale gli do un feedback su quegli aspetti che può migliorare per allenare e far rendere al meglio la squadra.
Non c’è invece nessuna condivisione dei contenuti delle singole sessioni di lavoro individuali con ogni singolo atleta. Quello di cui si parla nella sessione rimane tra me e l’atleta. Banalmente, da una di queste potrebbe anche emergere che un giocatore non sopporti l’allenatore. In questi casi posso dare degli strumenti all’atleta per gestire meglio la situazione oppure per confrontarsi in modo utile con l’allenatore stesso oppure, eventualmente, dare delle indicazioni all’allenatore su come può lavorare con quell’atleta per farlo rendere al meglio e mantenerlo motivato. Anche a livello comunicativo, ci sono tanti piccoli e talvolta impercettibili elementi su cui si può lavorare e che fanno una differenza enorme nel risultato finale.
In generale, sia negli sport di squadra che in quelli individuali, lavorare in accordo con l’allenatore è molto importante, perché è lui che mi dà il feedback sulla parte tecnica: se il giocatore ha giocato bene oppure su quello che gli è mancato nel corso della prestazione. Che di conseguenza saranno i temi che andrò poi a sviluppare nella sessione singola con l’atleta.
Si tratta della situazione ideale di lavoro per me: posso lavorare con l’atleta e confrontarmi con l’allenatore che mi dà appunto i feedback sulla parte tecnica, che ovviamente è quella che a me manca nello sport specifico.

Per quanto riguarda nello specifico il tennis, questa collaborazione con lo staff tecnico del giocatore c’è sempre o ci sono casi in cui non avviene?
In genere mi chiama l’atleta in accordo con l’allenatore, in alcuni casi direttamente l’atleta. In un caso l’atleta mi ha anche detto chiaramente “Il mio allenatore non crede in queste cose, però io ci credo e voglio farlo”. Di conseguenza con questo giocatore non ho potuto lavorare in accordo con l’allenatore e quindi non sono potuto andare in campo ed avere da lui i feedback di cui parlavo prima.

Come imposti, in linea generale, le sessioni di lavoro con un tennista?
In genere la prima sessione si svolge “a secco”, cioè non in campo ma fuori, ed è la sessione in cui definiamo insieme gli obiettivi, dove vogliamo arrivare. Dalla seconda in poi faccio in modo di andare in campo, perché è lì che si sviluppa il gioco e dove ci sono “agganciati” gli stati emozionali. Poi ci sono talvolta delle tematiche su cui si può anche lavorare in ufficio, ad esempio quando insegno a gestire gli stati d’animo.

Lavorando con i tennisti, hai notato delle peculiarità rispetto ad atleti di altri sport individuali? Ti faccio questa domanda perché spesso il tennis viene catalogato come uno sport in cui l’aspetto mentale ha un’importanza maggiore che in altri sport.
No, non in particolare. Quello che fa differenza tra i vari sport è l’aspetto tecnico, se devo lavorare ad esempio sul miglioramento di un gesto tecnico (sempre aiutando l’atleta dal punto di vista mentale), oppure la tipologia della prestazione. Per spiegarmi meglio relativamente a quest’ultima, ti faccio un esempio, confrontando il tennis con il golf. Il tennis è uno sport in cui alterni fasi di gioco a fasi di stop. Devi quindi programmare un allenamento mentale per essere al top nelle fasi di gioco e poi sai che hai un determinato periodo di tempo di recupero prima di avere un altro momento di attivazione mentale. Nel golf, invece, c’è il breve momento del gesto tecnico in cui devi essere al top e poi un’infinità di tempi “morti” in cui saper gestire i tuoi pensieri che rischiano di vagare dappertutto, creando potenziali stati di frustrazione e ansia.
Quindi in base al “formato” della prestazione sviluppo degli allenamenti o altre cose, come le routine, affinché l’atleta possa essere performante e possa recuperare, quando può farlo, invece di disperdere energie.
Il tennis in questo senso è uno sport che ha un vantaggio enorme, perché il giocatore ha molte possibilità di “staccare” e interrompere il modulo negativo se e quando accade. Quando invece, ad esempio, lavori con un ballerino, sai che ha tre minuti di performance in cui non può interrompere per cercare di recuperare. Sai che deve essere al massimo in quei tre minuti, perché finiti quelli è finito tutto.

Hai accennato prima al fatto che con il tennista lavori spesso dal punto di vista mentale anche su aspetti essenzialmente tecnici. Ad esempio, sul miglioramento di un determinato colpo.
Certo. Ci sono diverse metodologie per allenare la mente a fare un determinato colpo in maniera migliore. Un esempio semplice che possono applicare tutti è prendere un modello nell’esecuzione di quel gesto tecnico che si vuole implementare, magari Federer per il dritto. L’atleta, dopo aver visto un po’ di volte un video in cui il modello di riferimento esegue il gesto tecnico, si immagina al posto del modello, prima vedendolo dall’esterno e studiandolo in ogni dettaglio, poi entrando in visuale “soggettiva” e sentendo le sensazioni (la differenza è quella che c’è tra un videogioco in cui comando la mia macchina vedendo la pista e le auto dall’alto – quindi dall’esterno – e quello in cui sono al volante come se fossi veramente alla guida dell’auto – dall’interno – ndr). Poi torna all’esterno, effettua gli aggiustamenti necessari, ecc. Ci sono degli specifici allenamenti mentali per il miglioramento del gesto tecnico che si possono fare tranquillamente fuori dal campo di gioco: sul pullman mentre si sta andando alla partita oppure anche a casa.

Tu hai lavorato sia con tennisti che con tenniste. Una peculiarità del tennis femminile è spesso l’andamento molto altalenante del punteggio nel corso di un singolo match: un set vinto nettamente da una giocatrice, quello successivo nettamente dall’altra e poi nel terzo set le cose cambiano nuovamente. Qualcuno da questo ne deduce che l’aspetto mentale abbia maggiore importanza a livello femminile. C’è un fondo di verità oppure la questione è un’altra?
Sia per gli uomini che per le donne la parte mentale è fondamentale. Diciamo che, in genere, mi capita di lavorare su aspetti diversi. Entrambi hanno dei punti forti e dei punti deboli. Si “incasinano” semplicemente in modo diverso. Ad esempio, le donne hanno un dialogo interno molto accentuato e tendono a fare “lettura della mente” e agire senza verificare che sia corretta oppure no. Spesso tutto ciò viene influenzato dalle relazioni che si instaurano con gli allenatori e con lo staff, dalla comunicazione, dalle relazioni che loro hanno con gli altri. Quindi con un’atleta donna mi capita di lavorare tanto su questi aspetti in modo che lei possa entrare nello stato emozionale ideale per permetterle di accedere alle proprie risorse.
Gli uomini, invece, tendono ad esempio a fare più fatica a tenere alta la concentrazione o gestire più informazioni nello stesso momento: con loro perciò lavoro più di frequente su migliorare questi aspetti.

Parlando dell’importanza dell’aspetto mentale e di conseguenza della capacità di riuscire ad accedere alle risorse necessarie, a cui hai appena accennato, c’è una partita che è entrata nella storia del tennis femminile, la semifinale degli US Open tra Serena Williams e Roberta Vinci, che può essere presa come riferimento di come una singola partita possa far scattare un qualcosa nella testa dell’atleta. Quella partita ha infatti avuto degli effetti notevolissimi, ma completamente diversi, su entrambe le giocatrici. Partendo da Roberta, che sembrava ormai entrata nella parabola discendente della carriera, quella vittoria le ha dato la fiducia e l’energia per raggiungere quel grande obiettivo che le era sempre sfuggito e che le ha permesso di coronare la sua carriera: entrare tra le prime dieci giocatrici del mondo.
Sì, qualche volta può bastare una partita per fare uno switch mentale. Attenzione però, non è la partita in sé: è quello che cambia nella tua testa in seguito a quella partita. Che da quel momento ti fa pensare al giocare in maniera diversa, entri in un’identità diversa e quindi cambia concretamente il tuo modo di giocare. Si tratta del famoso “fattore esterno” che fa scattare qualcosa nella tua mente e ti fa cambiare. È una esperienza che è capitata a tutti nella vita: accade un qualcosa, pensiamo alla classica “goccia che fa traboccare il vaso”, e da quel momento pensi e agisci in modo diverso. Lavorare sull’aspetto mentale nello sport – ma vale anche nella vita – significa non dover dipendere da un fattore esterno per arrivare a fare quel cambiamento, ma riuscire ad arrivarci consapevolmente facendo accadere di proposito quei passaggi mentali ed emozionali.

Per Serena invece c’è stato l’effetto contrario. Da quel settembre newyorkese ha dovuto attendere maggio e gli Internazionali d’Italia per tornare a vincere un torneo. E non ha più vinto uno Slam. Soprattutto, in tutti questi mesi è sembrata più rilassata, meno “arrabbiata” per le sconfitte, rispetto a come eravamo abituati a vederla.
Può anche essere una evoluzione, è interessante vederla anche da questo punto di vista. Serena è una indiscussa n.1, con una mentalità vincente. Forse, semplicemente, sta finendo il suo ciclo e se ne è resa conto.
Se torniamo a quella partita, da una parte c’era Roberta che mai avrebbe pensato di vincerla. Ecco, lei non aveva niente da perdere, ed è spesso il modo miglior modo per affrontare un match. Mentre la Williams aveva tutto da perdere. Questa cosa le è entrata probabilmente nella testa. E, attenzione, Serena è una che queste cose le conosce benissimo, ha lavorato con Tony Robbins (uno dei guru mondiali del mental coaching e della crescita personale, ndr). Ma il sapere le cose non sempre significa necessariamente riuscire a metterle in pratica.

Ecco, proprio relativamente al tema delle cose che uno sa, che era in grado di fare e poi ad un certo punto non gli riescono più, passiamo al tennis maschile e nello specifico a Rafa Nadal. Che solo ora sta tornando ad avere fiducia in sé stesso e nel suo gioco – sperando che il nuovo stop non pregiudichi il tutto – dopo un anno in cui aveva ammesso di averla persa. Lui che per anni è stato preso come esempio dell’atleta pieno di autostima, di fiducia in sé stesso e nel proprio gioco, in qualsiasi momento e qualsiasi cosa accadesse sul campo da gioco.
Certo, capita, ed è uno dei motivi per cui gli atleti vengono da me. Perché loro accedono a queste capacità in maniera istintiva e quando per motivi diversi – come può essere appunto un infortunio che li costringe ad un lungo stop – non ci riescono più, non sanno come tornarci. Proprio perché per loro era una cosa naturale, inconscia.
In questo il coaching è fondamentale. Per imparare ad entrare nel cosiddetto stato di “flow “consapevolmente.
Così sai e capisci che non è una cosa che capita, ma una cosa che fai: devi tornare lì e sai come tornare lì. Altrimenti fai entrare nella tua mente i dubbi del tipo “Sono stato fermo un anno, lui no”, “Con lui ce la giocavamo e ora ci perdo nettamente”, “Chissà se tornerò al suo livello”, che sono quelli che iniziano a limitarti… Invece della consapevolezza che puoi entrare in quello stato perché sai come entrarci. E ci entri…
Si tratta di un aspetto che si può notare abbastanza facilmente, in molti casi, analizzando la fisiologia degli atleti durante il riscaldamento. A suo tempo avevo fatto uno studio su questo, analizzando i video di Andre Agassi disponibili su YouTube. Fu interessante osservare come era cambiato il suo comportamento durante il riscaldamento nei vari momenti della sua carriera.
Agassi in fase di riscaldamento era sempre stato – sin da quando, giovanissimo, si fece notare nel circuito – una “molla”: si muoveva a scatti, reattivo e pronto a partire, a iniziare il match. Invece nel periodo in cui le cose non andavano bene, aveva perso fiducia in sé e nel suo gioco, la sua fisiologia durante il riscaldamento era completamente cambiata, era sparita una buona parte di quella reattività. E questo lo faceva di conseguenza entrare in uno stato d’animo diverso e quindi a non accedere a quelle risorse a cui prima riusciva ad accedere.

Il fatto di parlare di Nadal permette di passare ad un altro tema: le grandi sfide tra fuoriclasse assoluti e i meccanismi particolari che si possono instaurare all’interno delle stesse. Il tennis maschile di questo secolo è stato caratterizzato, prima dell’avvento dell’attuale dominatore del circuito Novak Djokovic, dal dualismo Federer – Nadal. Con il curioso dato che lo svizzero, da molti considerato il più grande tennista di tutti i tempi, non lo è stato nel suo periodo di massimo splendore, perché nettamente in svantaggio nei confronti diretti con il maiorchino. Le ipotesi avanzate nel corso di tutti questi anni sono state le più disparate, sia tecniche che psicologiche. Ti sei fatto per caso un’idea sulla questione?
Premetto che non mi sono fatto un’opinione. Diciamo che tra atleti di quel livello, la differenza la fanno veramente delle piccole cose, perché tecnicamente sono degli extraterrestri: nel caso specifico uno più basato sulla potenza fisica, Nadal, uno più sulla tecnica di esecuzione, Federer. Quando uno dei due non era al 100% vinceva l’altro, quando erano tutti e due al 100% era bello anche vedere queste piccole differenze. Secondo me non si può dire che uno, in questo caso Federer, subisse l’altro, perché questi sono campioni allenati a giocare rimanendo nel momento presente. Potrebbe essere che lo subisse in alcuni momenti, quando usciva dal momento presente e gli veniva il pensiero “Ecco se perdo questo punto, poi dopo…” ed entrava magari in un dialogo interno depotenziante. Ma è una questione di singoli punti. Perché se lo avesse subito veramente, avrebbe preso dei 6-0.
Tutti fanno delle grandi letture a posteriori. L’unica cosa sarebbe stata quella di chiedere a Federer, alla fine match: in quel momento lì cosa ti sei detto, cosa ti sei visto, cosa ti sei immaginato? E la risposta sarebbe potuto anche essere un “Niente” piuttosto che un “Ho pensato che non dovevo perdere quel punto“.
Sono quei piccoli attimi che “succedono” nella loro mente che fanno perdere o vincere quel determinato punto… Ed è il punto che magari ha indirizzato poi quella partita in un certo modo.

In chiusura, ti chiedo un consiglio per chi tra i nostri lettori, oltre ad essere un appassionato del tennis professionistico è anche un giocatore di tennis. C’è una indicazione, un “tip”, che può essere utile a tutti i livelli per rendere meglio in campo?
Inizino a notare la vocina dentro la loro mente. Quella che spesso fa il bello e cattivo tempo. E prima di entrare in campo si pongano la domanda: come sto entrando in campo?
Se ci pensi, tutti si scaldano fisicamente prima di giocare: scaldano le articolazioni, la muscolatura. Ma non scaldano l’atteggiamento, la parte mentale. Che è quello che fa rendere tutto il resto al meglio in campo. Questo vale dal principiante al professionista. Ad esempio, il principiante che inizia a dirsi: “Eh sì, ma tanto sono scarso nel giocare il rovescio a due mani” oppure “Non mi entra mai il passante lungolinea”. Quindi è importante prendere il controllo del proprio dialogo interno, quello di cui parlavamo prima a proposito di Federer e Nadal, e iniziare a smettere di dire a se stessi delle cose negative che poi sono quelle che, guarda caso, si realizzano.
Cominciare perciò, prima della partita, a scaldare il proprio atteggiamento. Come farlo? Concentrandosi su ciò che possiamo fare al meglio oggi con le risorse che abbiamo a disposizione.
Facendo così si allena una qualità di gioco sempre superiore. Il che vuol dire – prendendo due esempi di giocatori agli estremi – che il principiante inizierà a migliorare nell’esecuzione dei suoi colpi, mentre il professionista inizierà a inanellare periodi sempre più lunghi in cui il suo gioco salirà di livello.
E ogni volta che dalla nostra testa salterà fuori quella vocina che dice “Non riesco a farlo”, aggiungere la parolina “per ora” e continuare dicendo a se stessi “E oggi voglio iniziare a farlo”.
Prendere il controllo di quella vocina e cominciare ad avere un dialogo interno positivo perché, fino a prova contraria, il cervello è nostro e quindi possiamo dirigere i nostri pensieri: questo è il mio consiglio ai lettori di Ubitennis.

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