Wimbledon day zero: l'attesa

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Wimbledon day zero: l’attesa

Tra luoghi comuni e giocatori che non si vedono e da cui non farsi vedere. Prima giornata di un torneo che sarà bello, bellissimo. Che lo è già

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Southfields, Church Road, the Queue, il Centre Court, le Doherty Gates, fragole con panna, quiet please, the championshisp, l’All England Lawn Tennis and Croquet Club,  gli steward, la pioggerellina, chissà cos’altro. Del resto dove, se non in Inghilterra, riempirsi di luoghi comuni con la soddisfazione di aver compiuto un paradosso? E dove, se non a Wimbledon, angosciarsi della stanca ripetizione di un rituale sempre uguale, che da lontano può certamente avere un suo fascino, e alzi la mano chi non l’ha subito, ma che già la seconda volta si trasforma in sottile angoscia. Che cresce se vi avvicinate al santuario quando ancora i fedeli sono lontani.

Mancano almeno 30 ore alla prima partita e si incontrano file di tende acquartierate su Wimbledon Park Road, la strada che dalla stazione di Southfields porta a Church Road. La diversità dei tratti somatici delle persone che le abitano, con una certa prevalenza di orientali, scaccia via il pensiero di file simili ma di ben altra durata e drammaticità. Gli occhi cerchiati testimoniano che tanto bene non devono aver dormito, ma il pudore nello scattare una foto è lo stesso che se ci si trovasse, appunto, in altri contesti. La pioggia, le nuvole, il freddo non aiutano certo l’umore, e la curiosità di vedere come mai siano tutti assiepati sul marciapiedi invece che nel Wimbledon Park non è poi così tanta da fare 50 metri in più. In fondo cosa c’è da sapere? O il parco è ancora chiuso oppure c’è talmente tanta gente che crollerà ogni record passato e futuro.

Col cuore in pace ci si può avviare verso l’ingresso. Degli operai finiscono di sistemare la gabbia che conduce dalla Queue all’ingresso principale i fortunati che riescono ad accedere al tempio. Appena entrati loro troveranno il Centre Court, chissà se gli succederà di incontrare lo Steward che comprensivo gli dirà “la prima volta, sir?”, per poi ricordargli che quello non è il suo posto, e non si è sicuri che stia parlando solo dello stadio.

Ci sono dei controlli, ma niente di particolare, e dietro le Doherty Gates non c’è nessuno, neanche fanno storie se ci si porta dentro i campi, a calpestarli, per vedere l’effetto che fa. Tutto è in costruzione, tutti i venditori di pizza, hamburger, e ovviamente le strawberries and cream, hanno le sedie sul tavolo come una qualsiasi pizzeria di un litorale adriatico prima che arrivino i bagnanti. La sala stampa vuota, piena di televisori ipermoderni, che quest’anno regaleranno infinite statistiche che arricchiranno una rubrica già sin troppo ricca di roba inutile, la sensazione che servano a rendere superflue le visite al campo, luogo dove andare a vedere quello famoso, mica la partita.

Si scrive, Djokovic dice le cose che ci si aspetta da lui, ha la barba incolta, sembra finalmente a suo agio, forse davvero un torneo non vinto può diventare una maledizione. Di certo, si sente inscalfibile; sembra anche più affascinante del solito, anche se gli uomini sicuri in genere sono noiosi.

È il momento dei volti noti,  i ragazzi che sono cresciuti di un anno che chissà se davvero si ricordano di te o se sono soltanto cortesi. Pare che quest’anno ci sia una novità, si potrà andare – lasciando il proprio pass in sala stampa – nella lounge dove ogni tanto stanno i giocatori. A cosa serva lasciare il pass è un mistero che chissà se ci sarà la voglia di risolvere, sovrastato da quello più grande: cosa si dovrebbe andare a fare in un posto dove non puoi né scattare foto né fare due chiacchiere, almeno formalmente? E dove, pare, sia meglio non farsi riconoscere?

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