Paolo Lorenzi, ai piedi dell'Hahnenkamm un sogno inseguito trentacinque anni

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Paolo Lorenzi, ai piedi dell’Hahnenkamm un sogno inseguito trentacinque anni

Paolo Lorenzi al termine di una settimana davvero incredibile fa suo il torneo di Kitzbühel, primo titolo di una carriera infinita. Doppia soddisfazione per lui, oltre al trofeo della città dei camosci anche il nuovo best ranking. Cosa chiedere di più ad un ragazzo di quasi trentacinque anni che con dedizione e passione tiene a galla la barca del tennis azzurro?

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Nel cuore delle Alpi, a nord del Tirolo settentrionale, è situata la regione di Kitzbühel con la sua omonima cittadina fatta da non più di ottomila anime. Questo grazioso capoluogo alpino, altresì chiamato Gamsstadt – la città dei camosci – tutto vicoli e sapori montani, una volta l’anno in gennaio, dal lontano 1931 in poi, si traveste da centro del mondo per gli sport invernali grazie alla disputa del cosiddetto trofeo dell’Hahnenkamm. Dal nome della montagna sovrastante il paese e che accoglie le mitica Streif, con ogni probabilità la pista da sci più celebre e complicata al mondo. Ogni trecentosessantacinque giorni, quindi, a Kitzbühel gente proveniente da ogni dove rivolge il naso all’insù nell’intento di cogliere le acrobazie fisiche e stilistiche dei campioni dello sport eroico che fu di Franz Klammer, uno che tanto per non sbagliare quella vertiginosa discesa l’ha fatta propria la bellezza di quattro volte. Correva l’anno 2004 quando un nostro portacolori baciato, bontà sua, da un talento pari almeno al grado di intrinseca follia, fece se possibile qualcosa di meglio che iscrivere il proprio nome – cosa già fatta tra l’altro – nell’albo d’oro della manifestazione. Ghedo, al secolo Kristian Ghedina da Cortina d’Ampezzo, in quella circostanza non vinse la gara ma domò per l’eternità il ‘mostro’. Al pari di quei cowboy capaci di francobollarsi alla schiena del toro inferocito durante un rodeo. Successe infatti che il salto sullo schuss finale, imboccato ad una velocità prossima ai 140 chilometri orari, quell’irripetibile pazzoide scelse di farlo in spaccata, in parole povere divaricando le gambe a compasso, per la gioia irrefrenabile di trentamila spettatori estasiati. Prima di tagliare il traguardo con il sorriso beffardo di chi è conscio di averla combinata grossa.

Dodici anni e due stagioni astronomiche più tardi, a quelle stesse latitudini, il cielo è tornato nuovamente ad essere color azzurro Italia. Merito per l’occasione, come vedremo, di un antidivo per eccellenza, l’inesauribile Paolo Lorenzi. Guru di racchette, palline e sudore, più che di scarponi e scioline. Immersi questa volta in un panorama assai meno glaciale, lo sfondo, da bianco neve, è mutato in rosso argilla, con l’aria secca dell’inverno, quella che taglia il fiato ad ogni respiro, che si è fatta calda e intrisa di polvere. Già, perché la caleidoscopica Kitzbühel, in quanto a sport, non vive di sola Streif e da cinquant’anni a questa parte propone con orgoglio anche il proprio torneo di tennis. Un tradizionale appuntamento su terra battuta di mezza estate – oggi appartenente alla cerchia degli ATP 250 – che fa da spartiacque tra la fine dei Championships e la stagione dei prati verdi e l’avvento della campagna sul cemento americano. Torneo che ha visto trionfare nel corso degli anni gente assai poco comune come Santana, Vilas, Muster e Sampras, giusto per citarne alcuni, oltre che i nostri Panatta e, più recentemente, Seppi. E appunto Lorenzi.

E non sarà arcigna come l’Hahnenkamm, ma la scalata compiuta in questa edizione 2016 del Generali Open dal quasi trentacinquenne tennista romano trapiantato a Siena è da iscrivere comunque nel libro dei ricordi indelebili del nostro sport preferito, per una serie di innumerevoli ragioni. Perché, se per dirla alla maniera ben poco decoubertinana tanto cara a Boniperti vincere è realmente l’unica cosa che conta, vuoi mettere farlo attraverso il tourbillon di emozioni che ha travolto il nostro Paolino nell’arco dell’intera settimana? Con partite infinite che prima sembrano vinte, poi perse e poi vinte di nuovo? Tra valanghe di occasioni conquistate, accarezzate e poi svanite per un soffio e che solo una pazienza grande come una casa ha saputo infine tramutare in esultanze liberatorie? Il tutto condito dalla feroce determinazione nel conseguire l’obiettivo di un vecchietto con il fuoco dentro di un ragazzino.

Paolo Lorenzi si presentava al via della manifestazione tirolese forte della quarta testa di serie del seeding, con un bye dunque all’esordio, e di un ranking da numero 48 che con tutte quelle primavere sul groppone farebbe già di per sé gridare al miracolo. Davanti a lui, a caccia di gloria qui in Austria, l’idolo di casa e designato futuro numero uno al mondo Dominic Thiem, il tedesco dai modi gentili e il rovescio da guardare e riguardare in slow motion Philipp Kohlshreiber e l’iberico pochi fronzoli e tanta concretezza Marcel Granollers. A completare un tabellone globalmente di buon livello il ceco Lukas Rosol e la talentuosa speranza russa Karen Khachanov, oltre ai due fratelli Melzer. Desiderosi, questi ultimi, di ben figurare dinnanzi ad un oltremodo esagitato pubblico casalingo. Il sorteggio collocava il senese d’adozione nella parte alta del tabellone, quella presidiata come da regolamento dalla prima testa di serie. All’orizzonte, quindi, la possibilità di una semifinale di lusso proprio contro Thiem per il più classico degli scontri generazionali. E di stili.

Il battesimo nel torneo per Lorenzi significa Roberto Carballes Baena, iberico di Tenerife e carneade solo per gli appassionati meno attenti ma pur sempre un giovanotto con la spavalderia dei ventitré anni e con la classifica che oggi rasenta una più che onorevole Top 100. Una gara senza storia, troppo esperto e centrato l’azzurro capace di liquidare la pratica lasciando indietro la miseria di quattro giochi sulla strada che porta ai quarti di finale. Le sorprese, però, non si fanno attendere e per i favoriti è letteralmente un’ecatombe prematura. Gli ottavi sono infatti fatali alle teste di serie numero uno (Thiem), numero due (Kohlshreiber), numero 3 (Granollers) e numero 7 (Cervantes) con la numero 5 (Rosol) che aveva ben pensato di lasciare la città di Kitzbühel già nel turno precedente.

Avversario di Lorenzi nell’unico quarto di finale tra due teste di serie è dunque il picchiatore tedesco Jan-Lennard Struff, che di anni ne conta nove in meno e che in due partite ancora non ha ceduto un solo set. Più che un incontro di tennis, a conti fatti, uno psicodramma. Paolo, avanti in carrozza un set e un break, si conquista rapidamente due match point. Pratica in ghiaccio? Macché. Trapattoni aveva proprio ragione, mai esultare senza il gatto nel sacco, con il teutonico che non solo aggancia l’italiano ma fa proprio il parziale trascinando la partita al terzo. Lo scontro, come comprensibile, si trasforma in una lotta senza quartiere con i rally che diventano a dir poco interminabili e le scimitarre a soppiantare definitivamente i fioretti. É allora Struff il primo ad andare in fuga prima della reazione orgogliosa dell’azzurro che, come nel set precedente, sale fino a match point. Non basta, perché ce ne vorranno altri tre e tre massacranti ore di lotta complessive per scrivere la parola fine che certifica l’approdo di un indomito Lorenzi alla semifinale, dove ad attenderlo è, effettivamente un po’ a sorpresa, il minore di casa Melzer.

In basso, zitto zitto, è Basilashvili a farsi largo, è proprio il caso di dirlo, a sportellate. Per il georgiano dal diritto al fulmicotone e dalla sagacia tattica così così, sulla via della finale c’è il serbo Lajovic, poi asfaltato in maniera assolutamente perentoria. Cosa che non si può dire della vittoria – la terza nel torneo – del nostro eroe dal cappellino girato al contrario ed i polsini tricolori. Per Lorenzi, pertanto, due tie-break, due ore di interruzione per inclemenze meteorologiche, quattro set point annullati nel primo set (di cui tre in rapida successione) ad un avversario in stato di grazia e lesto ad aprofittare della spinta di un pubblico tutto per lui e, soprattutto, dodici (!) match point incredibilmente gettati alle ortiche nel secondo parziale prima di chiudere la sfida di nervi e paure alla tredicesima occasione utile: un lungo spot per il tennis. Inevitabile, quando in campo scende Lorenzi si suda anche sul divano.

Sarà dunque finalissima.

Un passo indietro. Il 2 marzo di due anni or sono Paolino Lorenzi ebbe già modo di disputare una finale nel circuito maggiore. A San Paolo, quel giorno, a prevalere fu l’argentino Delbonis, bravo e caparbio nell’avere la meglio sull’azzurro al termine di tre set, manco a dirlo, giocati sul filo di lana. Chissà se l’allora trentatreenne Lorenzi si immaginava che da lì a ventiquattro lunghi mesi la vita gli avrebbe concesso una seconda possibilità. Allo stesso modo, chissà se in questo nuovo ed entusiasmante frangente Paolo, conscio di una carta di identità che da tempo ha smesso di fare sconti, sentirà il peso di un’occasione mai così a portata di mano e, per ovvi motivi, ancor di più irripetibile? E ancora. Come risponderà il fisico fiaccato da mille battaglie e la bellezza di sei ore di match in due giorni di un ragazzo la cui cifra stilistica è solidamente ancorata all’asse portante testa-gambe-cuore?

L’atto conclusivo è in programma all’ora di pranzo. Una disdetta se si pensa che, tra una cosa e l’altra, per Paolo l’incombenza semifinale si sarà conclusa – massaggi e rituali vari inclusi – solo a serata inoltrata. Avrà riposato a sufficienza, la domanda dei tifosi con tutta la preoccupazione del caso. Sul suo stato psico-fisico è già il primo game del match a mettere i puntini sulle i, spazzando via come birilli i dubbi che hanno tormentato l’avvicinamento all’incontro. Lorenzi in campo ci è entrato come un leone al punto che in un amen è già un break avanti con l’avversario, spaesato in un mare (per lui) di novità, che a freddo già si ritrova a dover inseguire la velocissima lepre. Lorenzi è un computer programmato per far sempre la cosa giusta al momento giusto e che non perde la rotta nemmeno quando le bordate dell’avversario sembrano cominciare a far breccia nella collosa ragnatela inscenata con maestria operaia dal tennista romano. Il torneo ha un copione ben preciso da rispettare, fatto di pathos e frenetica alternanza di sentimenti, tant’è che anche la finale non può esimersi dall’aderirne fedelmente. Lorenzi, incamerato con facilità il primo parziale, sul punteggio di tre giochi a uno a proprio favore nel secondo subisce, come un fulmine a ciel sereno, il ritorno di Basilashvili che, ormai spalle al muro, sceglie la via per l’occasione redditizia del tutto per tutto rientrando di prepotenza in un incontro che sembrava compromesso. Ancora una volta è battaglia punto a punto; ancora una volta però, a questo logorante giochino di freddezza e polmoni, Paolo si dimostra il più forte. Implacabile interprete del principio di azione e reazione di newtoniana memoria, Lorenzi rimanda al mittente tutto ciò che gli capiti a tiro – missili georgiani inclusi – e la coppa col camoscio e la racchetta sollevata nel cielo di Kitzbühel da lì a qualche istante non può che essere la naturale conclusione di una delle più entusiasmanti storie di tennis (e di vita) che abbiamo avuto l’onore di raccontare.

Cosa ci lascia in eredità questa settimana austriaca? Parafrasando il compianto Jonah Lomu, e una nota réclame di qualche annetto fa che l’assunse a fortunato testimonial, saremmo portati a dire con il cuore in mano nothin’ is impossible”. Sì, anche nel tennis, lo sport diabolico che non fa sconti e che non perdona nemmeno la più impercettibile manchevolezza. Una locuzione, quella televisiva di cui sopra, che Lorenzi deve aver davvero preso alla lettera, costruendo come la celebre formichina delle fiabe la carriera perfetta per un ragazzo forse privo di particolare talento tennistico – anche se qui si potrebbe aprire un lungo capitolo – ma con una volontà ed una abnegazione più grande delle avversità. Abbiamo visto questo giovanotto dalla faccia da buono e il sorriso contagioso migliorarsi ogni inverno e ripresentarsi ai nastri di partenza tutte le volte con una freccia nuova al proprio arco. Un colpo diverso da proporre all’avversario, un aspetto del gioco meglio registrato, un dettaglio ancora più curato. Perché se è vero che nulla è per sempre, pare lo siano solo i diamanti, vero anche che il nuovo possa sempre essere migliore di ciò che lo ha preceduto. Esponente benemerito di quella classe operaia che finisce dritta in paradiso e che ci rende fieri di esserci sentiti almeno una volta nella vita come dei piccoli, grandi Lorenzi, Paolo non più tardi di qualche settimana fa confidava a noi di Ubitennis di avere nel cassetto il sogno di migliorare ancora una volta il proprio best ranking. Detto e fatto. Ma non solo. Visto che nella bacheca già debordante di titoli Challenger ora brilla anche un trofeo ATP. Con le agili sembianze di quel camoscio che ogni santo giorno scorrazza su e giù per i boschi dell’Hahnenkamm e che non teme di percorrere la leggendaria Streif, in discesa alla maniera di Ghedina o in salita proprio come lo scalatore Lorenzi. Questi sette giorni, in altri termini, hanno il pregio enorme di veicolare agli aficionados della racchetta, ed ai più giovani in particolare, un messaggio di inestimabile valore, fatto di sacrifici, umiltà e passione. Ingredienti che, tutti insieme, concorrono al raggiungimento di un sogno.

Appurato che il tennis di casa non nostra non stia navigando in acque prosperose, ancorato così com’è alle lune del talentuoso e, a quanto si apprende da Umago, pure ritrovato Fabio Fognini ed alla potenza talvolta senza controllo di Camila Giorgi, c’è da ammettere senza nessuna vergogna che poter mostrare al resto del mondo della racchetta questo Lorenzi ci riempie immensamente di orgoglio. Lui, un classe 1981 come Federer e come Serena – questa longevità sarà mica un caso? – che da questa mattina conta solo la miseria di quaranta giocatori davanti a sé in classifica e che con questa voglia matta di scendere in campo e divertirsi può tranquillamente rinviare ancora più in là la data della meritata pensione.

Coraggio guerriero, lotta ancora un po’. Del resto, una volta domata la Streif cosa pensi possa farti ancora paura?

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