Luca Vanni, un anno dopo, si racconta in esclusiva per Ubitennis

Personaggi

Luca Vanni, un anno dopo, si racconta in esclusiva per Ubitennis

Un 2015 eccezionale che lo ha visto far capolino tra i migliori cento giocatori al mondo prima di un periodo difficile e avaro di risultati ma che le ultime buone prestazioni sembrano aver finalmente lasciato alle spalle. Incorreggibili curiosi, gli abbiamo chiesto il motivo e abusando di una disponibilità non comune ci siamo fatti raccontare diverse altre cose…

Pubblicato

il

 

Dall’ultima volta in cui ci siamo occupati di lui è passato un anno intero, anche se in fondo sembra ieri. Il mondo, tra le mille brutture che il genere umano si diverte quotidianamente ad inscenare, pare abbia persino accelerato nel suo frenetico moto rotatorio ed il carrozzone del tennis – per la verità anch’esso contaminato nell’attualità da qualche peccatuccio del quale faremmo volentieri a meno – giocoforza pare essersi adattato. E pertanto, a parte Djokovic inscalfibile tiranno, non è affatto detto che ciò che era ieri lo sia ancora oggi e, soprattutto, lo sarà domani.

Non più tardi di dodici mesi addietro, sempre da queste pagine, si celebrava l’arrampicata vertiginosa di Luca Vanni, capace di issarsi fino in Top 100 al culmine di una prima metà di 2015 che a definire solo esaltante si compie un’ingiustizia. Il gigante buono di Foiano della Chiana, dopo una vita intera spesa addentando con profitto e sacrificio il pane duro del tennis di periferia, riusciva finalmente a far parlare di sé per una serie di conquiste che hanno fatto di un ragazzone di 30 anni una delle note più piacevoli del made in Italy. Insomma, un bel personaggio da esibire con orgoglio, in un contesto azzurro purtroppo tutt’altro che fiorente e che fatica terribilmente a rinnovarsi. Ancorato così com’è alle talentuose bizze di un seppur ritrovato Fognini ed alla commovente sostanza di Seppi e, soprattutto, Lorenzi. Due che per nostra sfortuna non fanno più della carta di identità il loro cavallo di battaglia.

Con buona pace dell’incantevole Mina che di questa proposizione ne seppe fare una pietra miliare, stessa spiaggia non è detto sia sempre sinonimo di stesso mare. Ad un’estate di distanza – un’era geologica nell’evoluzione continua e senza sosta del complesso sport fatto di racchette e palline – succede infatti che ci ritroviamo nella piacevole compagnia di Lucone, animato, però, da una condizione psicofisica sostanzialmente diversa rispetto a trecentossessantacinque giorni fa. Con il sempre simpatico e loquace aretino che, se un anno or sono calcava a Londra i campi verdi più famosi del mondo con addosso tutta la fiducia possibile ed immaginabile dettata dai traguardi fin lì conseguiti, ora si ritrova impelagato in una fase delicata della carriera, dove i risultati latitano e anche la salute ha cominciato a fare i capricci. Anche se la stretta attualità racconta di un Vanni rinfrancato e che da qualche settimana esibisce in campo un body language più convincente. Sotto alle suole, quindi, in luogo dell’erba nobile di Church Road, ecco di nuovo il pantano dei Challenger, dove di regale c’è soltanto il cuore che i tennisti gettano oltre l’ostacolo in cerca del celebre quarto d’ora di gloria di warholiana memoria. Tra le mille più una difficoltà che un giocatore desideroso di tirare fuori la testa dall’acqua incontra lontano dai palcoscenici più prestigiosi provando a galleggiare con pochi quattrini in tasca in un mare agitato e zeppo di squali.

Quella che potete leggere nel seguito è dunque un sunto della nostra lunga conversazione, gentilmente concessaci dall’allievo di Coach Fabio Gorietti nonostante l’impegno concomitante nel Challenger di Recanati che lo ha visto in ripresa per qualità di gioco e buon quarto-finalista. Si è parlato di tennis, ovviamente, ma non solo. Luca ancora una volta si dimostra persona umanamente eccezionale, riflessiva, pacata, competente e mai banale nelle esternazioni. Un ragazzo che sprizza amore da tutti i pori per uno sport che con sacrificio ed abnegazione è riuscito a trasformare in un lavoro.

Ciao Luca, intanto grazie per la disponibilità. Dopo un 2015 eccezionale nel quale hai conseguito traguardi importanti, i risultati fino a questo punto della stagione sono forse inferiori alle aspettative. Quale potrebbe essere la spiegazione? Sei più deluso, arrabbiato o fiducioso per il prosieguo?
Ti dico, deluso no. La stagione l’anno scorso è stata lunga e ci siamo fermati solo per dieci giorni di riposo e poi ho avuto solo quindici giorni per preparare il 2016. Avessi avuto la possibilità di recuperare un po’ di più le forze sarebbe stato meglio. Ma l’anno scorso a novembre ho dovuto giocare quattro tornei perché mi mancavano pochi punti per entrare nel main draw degli Australian Open a cui tenevo molto. La prima parte di quest’anno è stata caratterizzata da partite molto tirate e perse per pochi punti, per esempio sono stato battuto da Zverev nonostante un match point a favore nel quale la mia palla ha preso il nastro ed è uscita di due centimetri. I primi mesi dell’anno ho avuto un livello secondo me alto poi ho cominciato a sentirmi stanco finché ho scoperto di aver contratto la mononucleosi. Una situazione molto difficile per noi giocatori che facciamo del nostro corpo un lavoro avere questa malattia che ti prende anche a livello cerebrale, con la testa che manda un input al fisico e questo non riesce a rispondere. Però da un mese a questa parte ho ricominciato ad allenarmi bene tutti i giorni anche nelle ore più calde. Mi sento nuovamente forte, un guerriero, mentre prima giocavo senza avere le armi.

Tra gli exploit dello scorso anno c’è l’aver portato alla salvezza nella massima serie il “tuo” TC Sinalunga. Come mai hai deciso di cambiare aria preferendo disputare altrove la A2? Lì eri quasi una sorte di eroe…
Sono onesto. Le due stagioni che ho fatto a Sinalunga ho percepito una cifra che rispecchiava la mia classifica del primo anno. Anche se il secondo l’ho disputato in qualità di numero cento del mondo. Nonostante questo ho giocato tutte le partite vincendone molte e mi sono sempre impegnato al massimo. Per quest’anno mi hanno fatto una buona offerta ma giocando ancora per loro mi sarei precluso il campionato francese che mi garantiva un po’ più di soldi. Poi si è fatto avanti Arezzo che ho scelto ma comunque avrei privilegiato un circolo di A2 che mi lasciasse libero di giocare anche in Francia. A Sinalunga io ho fatto comunque la mia proposta chiedendo di venirmi incontro dal punto di vista economico pur sapendo che per loro sarebbe stato un sacrificio. Allora, è difficile. Se sei il numero cento non devi chiedere più soldi perché tanto dicono che guadagni già abbastanza, se sei numero quattrocento al contrario ti dicono cosa pretendi di più. A tennis non ci giocherò tutta la vita quindi cerco di sfruttare al meglio ogni occasione. Io che so la fatica che ho fatto non sputo nemmeno su cinquecento euro.

L’anno scorso in questo periodo approdavi in Top 100. Se prima con ogni probabilità eri noto ai soli addetti ai lavori adesso grazie soprattutto ai risultati ottenuti nella prima metà del 2015 in molti hanno imparato a conoscerti. Che effetto ti fa essere fermato per strada? Questa nuova dimensione ti ha costretto a cambiare stile di vita?
È effettivamente successo che qualcuno mi fermasse per complimentarsi, soprattutto per la persona che ho dimostrato di essere. Ti faccio un esempio concreto. Settimana scorsa stavo parlando con Gianluca (Mager, ndr) del più e del meno e una persona mi ha avvicinato per farmi i complimenti, intanto come giocatore per quello che posso aver fatto di buono ma soprattutto come uomo. Mi ha esortato a continuare così, a non mollare. È questo che mi fa davvero piacere. La vita? Sì qualcosa è cambiato nel senso che ho potuto togliermi qualche sfizio. Dal punto di vista economico ora sono un po’ più tranquillo ma io sono lo stesso di prima. Io credo che ci si debba sempre ricordare come ci sei arrivato e quello che sei. Io mi piaccio così come sono.

A proposito di novità, cosa hai provato a giocare per la prima volta a Wimbledon?
Secondo me Wimbledon è il più bel torneo del mondo, come storia, come location, come impatto. Non perché io sia italiano ma lo metto solo di poco sopra a Roma. Il Pietrangeli, il parco. Pochi tornei nel mondo come ambientazione sono pari a Roma. È stata una emozione grandissima giocare a Londra, ovviamente, ma anche agli Internazionali d’Italia ho provato bellissime sensazioni.

Hai disputato la tua miglior stagione a 30 anni quando per molti colleghi è già quasi ora della pensione. Pensi che a questo livello di gioco avresti potuto arrivarci prima?
No. Io credo che uno merita e ottiene per ciò che fa. Non che io non mi fossi impegnato abbastanza negli anni precedenti, anzi, però ci sono molte componenti da mettere insieme, una per una, per fare un determinato salto di qualità. Mi dici che questa è una questione tutta italiana? In realtà non sono solo gli italiani che maturano tardi, guarda per esempio Karlovic che risultati sta ottenendo proprio ora. Forse è anche una questione culturale. Gli italiani, la famiglia. Noi a differenza di altri usciamo tardi di casa, per esempio. Cominciamo a giocare a tennis da bambini ma se poi non sei veramente forte da essere già a vent’anni nei primi cento prima di fare un passo decisivo nel tennis che conta magari ti preoccupi di ultimare gli studi per garantirti in ogni caso un futuro. E intanto il tempo passa.

Finale di San Paolo. Vanni serve per il titolo ed è a soli tre punti dal match. Ci racconti cosa ti è passato per la mente in quel frangente? Ci hai mai più ripensato a quel giorno?
A dir la verità anche durante l’ultimo cambio di campo non ho pensato a troppe cose se non a giocare al meglio un quindici dopo l’altro. Fin dal primo turno, che poi per me è stato il secondo, ogni cosa che mi è accaduta a San Paolo è stata una prima volta. Non solo quella di essermi trovato a servire per il titolo. Durante quella settimana sono state tutte partite lottate e avrei anche potuto perdere prima. Nel gioco a cui fai riferimento (sul punteggio di 5 a 4 a suo favore nel terzo set, ndr) non ho pensato sinceramente a niente, ho giocato e commesso un paio di errori dettati anche dall’avversario che a un passo dalla sconfitta si è messo lì e non ha più regalato nulla, affrontando ogni quindici come se fosse l’ultimo della vita. Paura? In quel momento no, anche se l’ho provata diverse altre volte. Il ‘braccino’ può capitare ai giocatori che ci sono già passati altre volte su quella strada piuttosto che a me che non avevo ancora realizzato in quale situazione mi trovassi e potevo colpire senza pensare e a braccio sciolto. Se vuoi sapere cosa sia la paura di vincere nel tennis posso dire che a certi livelli, per esempio, può essere una palla su cui devi entrare e poi non spingi. In altre parole fai qualcosa di meno rischioso e lasci che a prendere un azzardo sia l’avversario. Sì, ci ho ripensato a quella partita, purtroppo. Alla fine ho avuto anche un mezzo sfogo, un mezzo pianto per averla persa. Ero avanti di un quindici con uno smash non chiuso. Ci ho ripensato, sono dispiaciuto, però penso di non potermi dare particolari colpe. Credo sia giusto costruire il resto della carriera a partire proprio da quell’esperienza. Intanto lì ho capito di poter essere competitivo a certi livelli, e non è poco.

Toglici un dubbio una volta per tutte. Qual è la superficie sulla quale senti di esprimerti al meglio? E quale, invece, pensi sia il tuo colpo migliore?
Sicuramente la terra indoor e purtroppo non ce ne sono molti di campi così. La cosa che più mi da fastidio è giocare sul cemento lento o in condizioni di vento. Perché lì sopra non si può scivolare e fai pochi punti diretti col servizio. Tipo a Miami. Preferisco la terra perché se sto bene fisicamente mi piace la lotta, di natura sono un combattente. Sulla gomma veloce, invece, a volte ti senti un po’ impotente sulle giocate dell’avversario. Poi mi piace scivolare perché intanto è meno stressante per le articolazioni e poi per una questione prettamente tecnica. Sono a mio agio quando dalla parte del diritto ci posso arrivare in scivolata in posizione aperta. Il mio diritto è il colpo più costruito e devo stare meglio di testa per farlo rendere al meglio; il rovescio è sicuramente più naturale, soprattutto in back. Anche se spesso mi ci siedo e ne gioco troppi di rovesci col taglio indietro. Avendo comunque a disposizione un bel piattone dovrei imparare a dosarli meglio.

Sempre parlando di colpi, ce n’è uno in particolare o un aspetto del gioco sul quale con il tuo allenatore stai lavorando?
Da migliorare c’è sicuramente la ricerca della rete che non è una mia caratteristica naturale. Sto lavorando per non perdere campo durante lo scambio. C’è da dire che mi piace molto restare a fondo campo a scambiare a lungo. Mi rendo conto che a volte così io non riesca a fare male all’avversario ma è difficile all’interno della stessa partita, dopo che per ore sono rimasto indietro a lottare, cambiare all’improvviso atteggiamento mentale. Ho perso delle partite perché non sono stato capace di uscire dal mio io tennistico. Ma ci sto lavorando per fare un mezzo passo avanti nel campo.

Mi aiuti a costruire il tennista perfetto? Poi già che ci siamo mi dici anche chi è attualmente il tuo preferito?
Il servizio di Isner. Il diritto sarebbe troppo semplice dire quello di Federer allora scelgo quello di Simone (Bolelli, ndr). Per il rovescio prenderei quello di Safin, il mio idolo da ragazzo, mentre per il gioco al volo questa volta devo dire per forza quello di Roger. Non ce ne sono di paragonabili. Il mio tennista preferito? Allora se devo scegliere di guardare una partita alla televisione non la guardo sicuramente di Djokovic. Nulla di personale, non lo conosco, parlo solo del campo dove a volte mi trasmette l’idea di giocare per forza. Specialmente nei primi turni fa pesare troppo la sua superiorità, il suo essere Djokovic, ma forse è solo il suo modo di fare. Per la verità questa sensazione me la dà un po’ anche Federer ma lui mi emoziona. A 35 anni Roger dimostra ancora tutto il suo amore per il tennis. Giocare contro di lui sarebbe per me una grandissima emozione, penso che mi tremerebbero le gambe. Sì, gli chiederei la maglia a fine partita. Nadal invece l’ho rivalutato molto nell’ultimo periodo. Dei big storici è quello che tecnicamente si è forse evoluto di meno anche a causa dei tanti infortuni che ha subito. Però lo stimo per l’impegno che ci mette ogni giorno per tornare quello di una volta.

Un obiettivo da fissare sulla tua agenda da qui a fine carriera?
Intanto voglio finire l’anno entro i primi 200/220 per poi provare nel 2017 a rientrare nuovamente nei primi 100. Poi vorrei giocare sia a Melbourne che a New York per completare gli Slam che ancora mi mancano. Primario per la fine della carriera, invece, il giorno che smetto è di essere consapevole di aver dato tutto me stesso come giocatore. Per il dopo mi piacerebbe trasmettere la mia passione per il tennis ai bambini. Ad oggi mi ci vedo più come maestro di circolo che come allenatore.

Attualità, purtroppo, significa anche doping e scommesse. Di recente il caso Sharapova, ora lo scandalo che ha travolto l’atletica russa in vista di Rio. Qual è da sportivo il tuo punto di vista?
A livello di doping la verità la conosce solo chi lo fa. Io non ho mai sospettato che qualcuno dei miei colleghi ne potesse fare uso, se lo ha fatto non me ne sono mai accorto. È un po’ come per il discorso delle scommesse. Io dentro un circolo di tennis non mi sono mai accorto di nulla. Anche qui, certe cose le sa solo chi le compie. Quando vedo in campo uno che ha una grande prestazione fisica non mi viene da pensare male, penso solo che abbia lavorato duramente. Magari meglio di me. Sulle scommesse ti posso dire che ci sono gli organi competenti che decidono. Forse si, con i montepremi più alti nei circuiti minori ce ne sarebbero di meno ma quello delle scommesse è anche un problema più ampio, un po’ come una malattia. A proposito di montepremi bisogna ricordare che quello che si legge sui main draw intanto è lordo e ci devi togliere le tasse, che sono tante, e poi le spese. Di quel che prendi ti resta poco in mano considerati i costi anche delle cose più semplici. A Recanati, tanto per farti un esempio, per una pizza e una lattina durante il torneo ti chiedevano dieci euro. Spesso nei tornei se ne approfittano…

Cosa significa per te essere un professionista?
C’è lo sportivo che si fa la serata, che va a divertirsi. Senti, è anche giusto svagarsi un po’ tra un torneo e l’altro ma i veri professionisti certi eccessi non li possono avere. Il nostro è pur sempre un lavoro che richiede dedizione. Non è che puoi fare le sei del mattino in giro e poi lavorare seriamente sul tuo fisico o rimanere sul campo per quattro ore con 40 gradi al sole. Mediamente io mi alleno tra le cinque e le sei ore al giorno ma è tutta la mia giornata che è dedicata al tennis. C’è il fisioterapista, l’osteopata. Tante cose. Non sono da considerare solo le ore passate in campo. Un professionista poi deve convivere con il dolore, è il prezzo che deve pagare per chiedere il meglio al proprio fisico. É un po’ come una macchina. Pensa alla mia Fiat Bravo con su 300 mila chilometri. Si certo, che ce l’ho ancora (sorride). Mi sono potuto permettere di cambiare la macchina ma la mia Bravo storica c’è sempre, è il muletto per gli aeroporti di tutta Italia.

Senti un po’ Luca, ma Ubitennis lo leggi? Attento a come rispondi!
Ma certo, lo leggo sempre (ride).

Noi di Ubitennis notoriamente portiamo bene agli italiani, chiedere a Fabbiano e Lorenzi per credere. E quindi ci sentiamo autorizzati a strappare una promessa ai tennisti che via via incontriamo. Dovessi vincere uno dei prossimi tornei post-intervista cosa ci puoi promettere? Oltre a riconoscerci parte del merito…
Beh, se vuoi ti posso regalare il completino che ho usato (ride).

Vuoi aggiungere ancora qualcosa?
Riguardo al caso scommesse io, Luca Vanni, sono una persona che è a posto con la propria coscienza e sono orgoglioso di me come persona.

Per chiudere questa nostra bella chiacchierata, vuoi infine ringraziare qualcuno in particolare?
Ringrazio come sempre la mia famiglia, la mia Francesca e tutta la Tennis Training School di Foligno per tutto quello che fanno per me.

Che umiltà questo ragazzo. Ve lo immaginate uno come Luca Vanni a far lo sbruffone in diretta planetaria prima di tirare (male) un calcio di rigore? O a disfare una Ferrari rossa fiammante all’alba di ritorno dalla discoteca? Noi francamente no. Sono i personaggi così genuini che ci riconciliano con un mondo, quello dello sport professionistico, troppo spesso incapace di offrire di sé la migliore versione possibile. E che finisce per trasmettere un messaggio diseducativo per i più giovani. Allora teniamocelo stretto questo lungagnone un po’ sgraziato, perché quelli come lui vincono sempre a prescindere. Almeno fino a quando il buon esempio, nello sport come nella vita, continuerà a valere più di qualunque trofeo. E di conto in banca.

Continua a leggere
Commenti
Advertisement

⚠️ Warning, la newsletter di Ubitennis

Iscriviti a WARNING ⚠️

La nostra newsletter, divertente, arriva ogni venerdì ed è scritta con tanta competenza ed ironia. Privacy Policy.

 

Advertisement
Advertisement
Advertisement