Everyday America: viaggio nel Sistema USA

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Everyday America: viaggio nel Sistema USA

Tappa introduttiva del viaggio alla scoperta del sistema universitario e tennistico americano, raccontato attraverso le storie dei suoi figli

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Il primo impatto con gli Stati Uniti immagino sia sempre forte per chiunque sia nato e cresciuto in Europa. Nonostante la globalizzazione e la forte americanizzazione della società dall’avvento della televisione in poi, le differenze storiche e culturali e strutturali sono, per fortuna, dure a morire. Così, al primo arrivo a Los Angeles avevo pagato lo scotto del credere che la città degli angeli fosse quella che vedevo al cinema. Non lo è. Los Angeles è infatti una città che anche i più vecchi losangelini farebbero una tremenda fatica a definire bella. Le strade a dodici corsie che tagliano la città e la dilagante disuguaglianza e i cinquantamila clochard e la possibilità pressoché nulla di passeggio la rendono dapprima alienante e poi, col passare del tempo e del trauma, a modo suo interessante. Particolarmente interessante avevo trovato fin da subito l’ambiente universitario. Questi campus che paiono città, con prati irrigati giorno e notte e fiori curati dai miglior giardinieri, e pieni di biblioteche e strutture sportive d’ogni genere erano forse l’unica cosa che aveva rispettato le enormi attese portatemi dietro dal Sud Italia. L’università che frequentavo poi, la University of Southern California, negli anni aveva investito enormi quantità di denaro nella costruzione di un campus che fosse in grado di far dimenticare la pericolosità e le lotte tra gang dei quartieri circostanti, da Downtown fino a Compton un po’ più giù, e di attrarre i migliori talenti, che fossero talenti dell’economia o del giornalismo o dello sport.

Ecco, la cosa che più mi aveva stupito era l’attenzione per lo sport. In Italia, come nell’Europa tutta a dir la verità, si fatica a collegare lo studio e l’attività fisica a livello professionistico, e prima che a livello di tempo e strutture, si fatica da un punto di vista concettuale. Vedere quindi palestre a sei piani aperte ventiquattr’ore e il Coliseum, lo stadio di football da 90.000 spettatori usato per le due Olimpiadi californiane, e le decine di campi da tennis e le piscine che ospitavano fior di campioni olimpici, mi aveva colto in contropiede. Non mi ero mai neanche posto il quesito di collegare la carriera universitaria ad una carriera sportiva: non lo ritenevo possibile. Mi ero quindi ripromesso di fare delle ricerche, di provare a capire come funzionasse il sistema e come quello che io ritenevo impossibile, o quantomeno altamente improbabile, fosse qui invece la prassi. Poi, fra studio e nuove conoscenze, l’idea di ricercare e scrivere qualcosa era lentamente finita nell’angolo, mentre alla iniziale curiosità e stupore si era sostituita l’accettazione per la normalità delle cose. Fino a che quest’anno non sono tornato a Los Angeles e mi sono accorto e stupito di nuovo, forse in maniera più lieve, delle stesse cose di cui m’ero accorto e stupito tre anni prima. Questa volta però il mio compagno di stanza era proprio uno di quegli atleti-studenti, tennista per di più, che si dividono fra sport e studio ed allora di scuse per non guardarci più da vicino non ce n’erano. Con il suo aiuto, quindi, mi sono imbarcato alla scoperta del tennis universitario americano.

Per capire il tennis universitario, mi suggerisce il mio compagno di stanza Jake, occorre partire da prima, almeno dal liceo. È lì che si giocano i primi tornei ed è lì che gli aspiranti tennisti si mettono in mostra alla ricerca di allenatori universitari che li scoprano e che offrano delle borse di studio. È infatti nell’interesse dei vari coach trovare i migliori giocatori che possano poi sfondare, o almeno provarci, nel mondo pro e dare lustro a loro prima ancora che alla scuola. Ma gli Stati Uniti sono enormi, grandi quanto un continente, come si fa a capire dove si nascondono le potenzialità? Facile, con un ranking. Gli Stati Uniti da questo punto di vista sono talmente meritocratici da rischiare alle volte di fare il giro completo e ritrovarsi dall’altro lato della strada. Tutto ha una classifica: dai test di fisica alle gare di spelling di prima elementare, al grado di fascino di una persona. Gli americani nascono dalla culla con in testa ben chiaro un sistema fatto di voti e classifiche, e poco importa che a classificare bambini di sei-sette-otto anni s’incorra inevitabilmente in errori marchiani dovuti a tempi di maturazione diversi o a sistemi di valutazione ingiusti. Se sei bravo, lo devi essere fin da subito. Il ranking tennistico segue quindi la cultura dominante, ed è forse uno dei pochi casi per cui abbia davvero senso farlo. La classifica la redige il sito tennisrecruiting.net, che valuta i ragazzi in base a degli algoritmi che tengono in considerazione la qualità delle vittorie e delle sconfitte ed il livello dei tornei in cui le si è ottenute (un po’ come si faceva qualche anno fa nei circuiti pro con i “quality points”). Conta spesso quindi il livello dell’avversario affrontato più che il torneo, in un tentativo di eliminare possibili casi di ragazzi spremuti e sbattuti da una costa all’altra alla ricerca dei punti necessari.

I ragazzi sono divisi in categorie che corrispondono ai vari anni scolastici e in base alla loro posizione nel ranking gli viene attribuito uno status: blue chips (sì, come nel poker o in borsa) per i primi venticinque della classifica, five star per i primi settantacinque, four stars per i primi duecento e così a scendere fino a one star e not ranked. Lo status dà quindi una prima idea al coach di quali siano i prospetti da seguire. Il processo di recruiting non finisce però qui, anzi questa ne è la base. La seconda componente riguarda infatti la parte accademica. “Si può avere il talento di Roger o Serena, ma se i voti non sono all’altezza degli standard dell’università interessata, le chances di essere ammessi ad un buon college si abbassano”, mi dice Jake, Ecco, forse ho esagerato, se sei Roger o Serena e vuoi andare ad Harvard ci vai lo stesso, ma diciamo che se invece sei un giocatore dal buon talento che potrebbe emergere come no, ecco lì i buoni voti tornano utili per evitare bagarre tra l’ufficio ammissioni e quello sportivo”. Le borse di studio sono infatti limitate e vanno assegnate con cautela. Sono quattro e mezzo per gli uomini e otto per le donne nella Division I e ancora quattro e mezzo per gli uomini e sei per le donne nella Division II.

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