Una diciottenne fra le prime 50 del mondo: Naomi Osaka

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Una diciottenne fra le prime 50 del mondo: Naomi Osaka

Dopo Belinda Bencic, Jelena Ostapenko e Daria Kasatkina un’altra diciottenne sale alla ribalta del tennis femminile. Il Giappone ha trovato una futura top ten?

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Quando, nel mesi di marzo, mi sono occupato di Jelena Ostapenko e Daria Kasatkina, le due giocatrici nate nel 1997 che insieme a Belinda Bencic avevano formato un trio di tenniste straordinariamente precoci, pensavo di avere esaurito l’argomento, quanto meno per la stagione 2016. Mi pareva che tre teenager in grado di diventare protagoniste della WTA costituissero già un dato eccezionale; invece nel giro di qualche mese altre due loro coetanee sono state in grado di affermarsi.

Ecco perché sono “obbligato” a tornare sul tema, trattando separatamente le imprese di Naomi Osaka e Ana Konjuh. Anzi, anticipo che, salvo imprevisti, gli articoli saranno tre: uno su Osaka, uno su Konjuh, e uno di panoramica, analisi e confronto di queste cinque teenager così speciali. E se nessuno può leggere il futuro per avere la certezza che tutte le promesse saranno mantenute, già oggi siamo comunque di fronte a un dato di fatto: “la leva tennistica del 1997” è incredibilmente ricca di talenti precocissimi.

Dopo l’exploit a Tokio, Naomi Osaka è la novità del momento: entrata in tabellone come wild card, ha sconfitto Doi, Cibulkova (6-2, 6-1), Sasnovich, Svitolina, perdendo solo in finale da Wozniacki.
Ma il torneo di Tokio non è stata la sua unica impresa stagionale. Nel 2016 per la prima volta è entrata nel tabellone principale degli Slam, e su tre Major giocati tre volte è approdata al terzo turno. Quindi pochi timori reverenziali, ma al contrario la capacità di esprimersi bene anche nei grandi eventi, superando la timidezza dell’età.

Del resto Osaka ha avuto una carriera abbastanza anomala, che ha trascurato i tornei junior a favore dell’impegno nei tornei ITF professionistici statunitensi sin da quando aveva 14 anni. In questo ricorda il percorso che scelse Richard Williams per le sue figlie Venus e Serena.
E, come Serena, anche Naomi ha una sorella maggiore di poco più di un anno, che gioca a tennis (si chiama Mari, e in questo momento è numero 704 WTA). Eccola intervistata:

Le somiglianze con Serena non sono finite qui: proprio come per le sorelle Williams è stato il padre ad avviare le figlie al tennis e a fare loro da allenatore; un apprendistato famigliare poi integrato dalla collaborazione con academy di tennis in Florida: quella di Bollettieri per le sorelle Williams, la ISP Academy per le sorelle Osaka (poi la Pro World Academy).
In questi rimandi tra la ex numero uno del mondo e la “baby” giapponese vanno citati almeno altri due aspetti: Serena è da sempre l’idolo di Naomi, e d’altra parte la stessa Williams ha già espresso parole di elogio su di lei dopo averla vista giocare agli Australian Open.

Ma come mai una giapponese ha così tanti punti in comune con una giocatrice statunitense?
La vicenda di Naomi è quella di una ragazza che racchiude in sé un mix di etnie e culture. È nata a Osaka (no, non ho fatto confusione con il cognome, è effettivamente nata nella seconda città del Giappone) il 16 ottobre 1997. La madre, si chiama Tamaki Osaka, mentre il padre è haitiano e si chiama Leonard Francois. Ecco una foto di famiglia (tratta dal profilo facebook di Naomi):

Famiglia - Naomi Osaka

Dopo i primi tre anni trascorsi in Giappone la famiglia si trasferisce negli Stati Uniti, e alla stessa età Naomi inizia con il tennis. Quando appare evidente che le sorelle possiedono un talento superiore, papà Leonard si accorda con la federazione tennis giapponese per avere un aiuto economico, e da quel momento entrambe giocano ufficialmente per la nazione di origine della madre. Naomi ha raccontato in alcune interviste che era troppo piccola per compiere la scelta in prima persona, ed è stato quindi il padre a decidere, tenendo conto della migliore proposta che aveva ricevuto, visto che anche la USTA (la federazione tennis USA) si era fatta avanti.
Ma indipendentemente dalla scelta di bandiera, Osaka ha una formazione culturale e tennistica sostanzialmente statunitense; parla poco il giapponese, e preferisce essere intervistata in inglese, anche se sta sforzandosi di recuperare la lingua materna, consapevole che sia un elemento importante per il suo futuro professionale.

Da giocatrice Osaka comincia a farsi le ossa negli ITF americani, a cui aggiunge qualche trasferta in Giappone, approfittando del fatto che la federazione le procura wild card nei tornei di casa. A 15 anni, nell’agosto 2014, raccoglie il primo grande risultato quando sconfigge Samantha Stosur nel torneo di Stanford (disputato dopo aver passato le qualificazioni); è la conferma delle sue grandi doti, che la portano rapidamente a scalare il ranking: numero 1028 nel 2012, numero 450 nel 2013, numero 203 nel 2015, fino al numero 47 di questa settimana.

Secondo i dati WTA Osaka sarebbe alta 1,80 per 69 kg. Si sa che il peso indicato nelle schede WTA è spesso inattendibile, mentre normalmente l’altezza si avvicina di più alla realtà. In questo caso direi forse che il dato della statura potrebbe essere un po’ generoso: toglierei due-tre centimetri; mentre, considerando la struttura fisica solida e potente, non penso possa pesare meno di quanto indicato.

La prima volta che l’ho seguita, in Tv, ho avuto la sensazione che avesse veramente qualcosa di speciale: un timing molto preciso le permetteva di far viaggiare la palla a una velocità superiore; poteva reggere scambi ad alto ritmo, ma anche modulare la potenza per poi accelerare in modo definitivo, lasciando ferma l’avversaria. Il tutto con apparente facilità, tanto che dentro di me ho fatto un ragionamento ben poco tecnico e articolato. Ho direttamente pensato: “Questa ragazza è davvero forte. Ma proprio forte-forte”.
Poi è intervenuto il mio lato meno impulsivo, quello del pompiere che prova a spegnere gli eccessi di entusiasmo. Allora ho cercato di razionalizzare la prima sensazione, dicendomi che magari era in giornata di grazia, che forse l’avversaria le offriva il tipo di palla con cui si trovava meglio, che andava verificata nel tempo, che di illusioni e promesse non mantenute è piena la storia del tennis, etc etc.
Di sicuro era un nome di cui tenere conto per i tornei a venire. Purtroppo non ho potuto seguirla dal vivo a Wimbledon, che Osaka ha dovuto saltare a causa di un problema al ginocchio sofferto durante un match a Birmingham, e quindi la mia curiosità è rimasta inappagata.

È capace di tirare la prima di servizio a oltre 200 Km/h (dato misurato agli Us Open: 125 miglia contro Coco Vandeweghe, un valore che la colloca tra le prime dieci della storia dell’intera WTA), e possiede due fondamentali da fondo campo estremamente temibili.
Nelle interviste dichiara di avere il dritto come colpo preferito, ed effettivamente è quello con il quale riesce a raggiungere i picchi di velocità maggiore. È quello il colpo sul quale da ragazzina ha cominciato a costruire  il proprio tennis, con l’obiettivo di mantenere il comando dello scambio. Però credo si debba riconoscere che con il rovescio ha compiuto enormi progressi, tanto da essere diventata quasi altrettanto incisiva.
Confrontando come gioca in questo filmato di tre anni fa rispetto al 2016, emerge l’evoluzione dei colpi. Oggi, quando vuole, con il rovescio riesce a velocizzare la testa della racchetta al momento dell’impatto, producendo una specie di schiaffo che frusta ulteriormente la palla imprimendole un surplus di velocità.

Il dritto invece lo spinge trasferendo in modo ancora più completo il peso di tutto il corpo: forse è per questo che se non riesce ad arrivare ben coordinata sulla palla può sbagliarlo in modo più evidente. Quando invece ha la possibilità di eseguirlo al meglio è in grado di produrre velocità devastanti.

Ad esempio chi ha seguito il suo match di settimana scorsa contro Svitolina a Tokio si sarà forse chiesto perché Elina cercasse di impostare gli scambi sulla diagonale dei rovesci, senza provare a cambiare qualcosa, malgrado il punteggio a sfavore (avrebbe poi finito per perdere 6-1, 3-6, 2-6). Direi che la risposta sta in due aspetti: il rovescio è il colpo più sicuro di Svitolina, ma soprattutto penso che Elina ricordasse l’esperienza della sconfitta agli Australian Open, quando aveva subito la bellezza di 19 vincenti di dritto, a fronte di appena 3 vincenti di rovescio.

https://youtu.be/kHzE7Kd8XuM?t=4

E il resto del gioco? Al momento di scrivere questo articolo mi sono reso conto che non ero in grado di esprimere un fondato parere su molti colpi: possibile che non ricordassi come giocava in certe situazioni? Ho provato allora a fare una verifica sulla scorta delle statistiche dettagliate che vengono tenute negli Slam.
Ebbene, su nove match disputati nei Major, per un totale di 21 set, risultano rilevate la miseria di 5 volèe. Addirittura nei tre incontri di Melbourne i dati ufficiali parlano di zero volèe e zero colpi di volo sopra la testa (smash e volèe alte, i cosiddetti “overhead strokes”).
E’ vero che le statistiche registrano solo i colpi definitivi (nel bene o nel male) ma trattandosi di volèe non è che il dato si allontani molto da quello complessivo. Delle 5 volèe registrate negli Slam, 3 le ha eseguite contro Madison Keys (due di queste sbagliate), una contro Duan Ying-Ying agli US Open e una contro Simona Halep a Parigi. Stop. Non c’è altro.
Smorzate? Un solo drop-shot in nove partite (di rovescio, sbagliato) contro Elina Svitolina a Melbourne. Numeri davvero marginali.

Al momento siamo quindi di fronte a una giocatrice quasi del tutto monodimensionale, non in grado di costruire il proprio tennis sulla verticale. Si tratta di aspetti ancora tutti da scoprire, che possono essere considerati in maniera opposta: in una visione negativa si potrebbe pensare che, se in futuro non riuscisse a svilupparli, si troverebbe ad avere molti limiti. Al contrario in una visione positiva significherebbe che Osaka ha di fronte a sé grandi margini di miglioramento, che le permetterebbero di diventare ancora più forte.
Aggiungerei infine che, pur non essendo dello stesso livello del gioco offensivo, anche quello di contenimento è abbastanza efficace, logica conseguenza di una discreta mobilità e di una naturale capacita di coordinazione.

Quanto possano essere alti i suoi picchi di gioco già oggi, lo ha sperimentato agli ultimi US Open Madison Keys: la testa di serie numero 8 del torneo ha rischiato di essere eliminata quando si è trovata sotto 1-5 nel set decisivo. Poi Keys è riuscita a ribaltare il match (vincendolo 7-5, 4-6, 7-6), impegnandosi come non mai nel gioco difensivo (perché contro Osaka anche Madison Keys è costretta in diversi frangenti a difendersi), e approfittando del braccino che ha bloccato Naomi al momento di chiudere il match. Ma anche in una giornata non positiva è emerso prepotentemente il suo grande potenziale. Tanto che dopo quel match e dopo l’impresa di Tokio sono stati in diversi a predirle un futuro da protagonista del circuito.

Al di là degli aspetti tecnici, sarà in ogni caso interessante scoprire come evolverà nelle prossime stagioni Naomi Osaka in quanto personaggio della WTA, soprattutto in caso riuscisse a sfondare ad altissimi livelli.
Messa sotto contratto dalla Adidas fin dal 2014, secondo il suo manager ha la possibilità di incontrare l’interesse di un pubblico (e di conseguenza di un mercato) molto vasto ed eterogeneo. Una multiformità legata alle sue origini, e all’immagine del tutto particolare: ragazza di colore con gli occhi a mandorla, cresciuta con una cultura americana ma anche con una seconda lingua orientale e un padre che la lega ad Haiti. Il New York Times in un articolo dedicato a lei ha raccontato come a volte questo mix possa generare qualche qui pro quo, visto che Naomi ama fare battute, ma il suo senso dell’umorismo è poco compreso in Giappone. In compenso sa utilizzare in modo appropriato l’inchino, secondo i modi tipici della cultura orientale.

Lei si sente a tutti gli effetti una ragazza della sua epoca, a volte perfino troppo. Come quando, dopo i successi di Melbourne, le avevano chiesto quali fossero i suoi obiettivi di carriera e ha risposto:I wanna be the very best, like no one ever was”. Di fronte allo sconcerto dei giornalisti per l’affermazione quantomeno azzardata, ha chiesto scusa spiegando che si trattava di una citazione della sigla dei cartoni animati Pokemon, e pensava che anche loro la conoscessero:

L’intervista era del gennaio 2016, prima del ritorno in auge a livello mondiale dei “mostriciattoli”, grazie al gioco per gli smartphone. Quindi forse aveva ragione lei: volendo cercare un legame tra Giappone e Occidente, che cosa si può trovare oggi di più diffuso e popolare dei Pokemon?

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