Zverev e Pouille diventano grandi. I giovani che avanzano e forse fanno paura

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Zverev e Pouille diventano grandi. I giovani che avanzano e forse fanno paura

Sascha Zverev e Lucas Pouille hanno vinto i loro primi titoli lo scorso weekend. Finalmente qualcosa si muove tra le nuove leve, eppure sembra che all’improvviso facciano troppa paura

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Sinceramente, la sensazione è che tutto sia passato un po’ sotto traccia. Nessuno se n’è reso conto in pratica, lo hanno quasi dato tutti per scontato. Qualcuno avrà bussato alla spalla di qualcun altro per dire “oh ma hai visto?”, e si sarà sentito rispondere pigramente “sì, niente di che, ce lo si aspettava”. Tanto che anche il primo si sarà convinto che di fatto non è stato nulla di eccezionale, solo il decorso naturale delle cose. E intanto qualcosa si muove. Non i diciassettenni biondi e di Wimbledon e tutti mostri di precocità e i quintali di storie già riascoltate come segreterie telefoniche, chiaro; ma due giovinetti che vincono i loro primo torneo in carriera, nella stessa settimana. Contro due avversari caldissimi, uno addirittura fresco di Slam, entrambi con il rovescio ad una mano. Che non c’entra niente, ma il rovescio a una mano va sempre segnalato. Non si trattava neanche più di un esame di maturità, quello era stato superato abbondantemente, peraltro contro lo stesso avversario: la sconfitta dorata di Zverev a Indian Wells, con tanto di matchpoint fallito su una comoda volèe a campo aperto, e il trionfo in cinque set di Pouille agli ultimi US Open bastavano per poter prendere la licenza dal limbo delle promesse, e diventare comunque realtà. Potenzialmente esplosive, tutto sommato già solide: dall’altra parte della rete c’era Nadal, per dire. Qui stiamo parlando invece della guida pratica per la patente, del passaggio del test per l’università di medicina, un curriculum per il quale la risposta non è il solito “le faremo sapere”.

Eppure non lo si è sottolineato abbastanza. Di sicuro sono due successi di valore relativo, due tornei di categoria minima con un parterre tutto fuorché de roi, sebbene si leggessero nomi come Berdych, Simon, Goffin, oltre ai finalisti Wawrinka e Thiem. Paradossalmente, i nomi delle nuove leve si chiacchierano quasi di più quando arrivano ad un passo dall’impresa, senza conquistarla, che quando effettivamente mettono in borsa qualcosa di concreto (per quanto poco belli possano essere i trofei di Metz e San Pietroburgo). E le possibili alternative per questa sorta di velato disinteresse, sembrano essere due: uno, appunto, la consapevolezza del pubblico medio di quanto in effetti un paio di 250 non siano di fatto nulla che possa far gridare all’apparizione divina (ne ha vinto uno anche  Zeballos, e sappiamo tutti chi sconfisse in finale). Per cui si aspetta ancora qualche acuto di fascia superiore, quanto meno un Master 1000, peraltro ben lungi dall’essere impossibile nei prossimi anni, per entrambi. Anche perché sbottonarsi troppo per qualche piccolo squillo, e ne abbiamo avuto carrellate di conferme, creerebbe un’aspettativa ancora maggiore di quella che i due virgulti sono tenuti a reggere adesso; si è diventati bravissimi a dire “quello sembrava stesse esplodendo, poi nulla”, quando magari la colpa non è di altri se non di quelli che si erano agitati per una settimana con i pianeti allineati a favore.

Oppure, e questa ipotesi potrebbe annidarsi nel profondo dell’animo degli appassionati, e perché no degli addetti ai lavori, il motivo potrebbe essere una sorta di rifiuto inconscio, di non voler ammettere che alla fine, il nuovo che avanza ci sarebbe anche. L’idea che possano essere dei ragazzetti tutti integratori, bordate e addetti stampa ad iniziare una nuova dinastia, un nuovo filone di successi, scalzando i sovrani a cui ci si è affezionati per anni, per quanto in un primo momento affascinante, potrebbe rivelarsi scomoda. Ci si lamenta per settimane di come “che noia, vincono sempre gli stessi”, ma poi quando arrivano le prime scosse dal sottosuolo NextGen, si cerca di correre ai ripari immediatamente, perché di Djokovic e Federer non ci si è affatto già stancati. E di fatto il tedesco biondo (diciannovenne stavolta) è là con la sua strana coppa, oltre confine c’è un francesino carino che solleva un oggetto non meglio identificato: i ragazzini hanno anche vinto stavolta, non sono più un “deve fare esperienza per poter dare fastidio ai top”. Anche perché, e ci tocca malvolentieri tornare al tennis giocato per un attimo, gli avversari battuti in finale non sono proprio gli ultimi stupidi. Zverev ha battuto Stan Wawrinka a San pietroburgo. Quello del rovescio fotonico e del trionfo a New York appena due settimane fa, l’alternativa ai Fab Four, il quinto Beatle, che lontano dagli Slam torna umano. Pouille ha avuto la meglio, in casa a Metz, su Dominic Thiem: sei finali di cui quattro vinte, su tutte le superfici, soltanto in questo 2016. Ora d’accordo la programmazione scellerata, ma l’austriaco non si candida certo per la palma di concorrente più morbido del circuito.

Ancora una volta, lo spettro di un ricambio generazionale sembra soffocare l’entusiasmo per il nuovo che avanza, per quella brezza fresca che tanto invochiamo quando la razzìa dei tirannosauri è in atto. Sembra una scena in cui una signora anziana è ferma sulla sua poltrona, nella sua enorme e splendida casa con le finestre chiuse. I suoi nipoti, bellissimi e giovani, entrano e la coccolano, dicendole che la casa è sempre stupenda, ma forse è il caso di aprirle le finestre, perché l’aria è viziata e va cambiata. La signora magari sorride e acconsente anche, ma dentro un po’ ci rimane male perché stava così bene con quella temperatura e quella luce particolare. Noi addetti ai lavori e appassionati, siamo quella signora. Il circuito di Federer, Murray, Nadal e Djokovic è splendido, ma l’aria va cambiata.

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