Alla scoperta di Matteo Donati, "Abatino" con licenza di vincere

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Alla scoperta di Matteo Donati, “Abatino” con licenza di vincere

Potrebbe essere questa la stagione della definitiva consacrazione di Matteo Donati, talentuoso gioiellino del nostro tennis. Braccio e testa sono dalla sua, i muscoli verranno. Forse anche l’Italia ha una NextGen su cui contare…

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Il futuro è adesso. È quello che devono aver pensato molti appassionati dell’universo della racchetta osservando con curiosità mista a speranza le gestualità del giovane Matteo Donati, accurate ed efficaci insieme, nel corso degli ultimi scampoli di un’annata che, per dirla alla maniera di Carlo Verdone, non era affatto nata sotto una buona stella. A causa, come troppo spesso accade a coloro che vivono con l’acceleratore perennemente pigiato a tavoletta, di qualche noia fisica di troppo. Pure a vent’anni.

Un passo indietro. Caltanissetta, grazioso comune siciliano che fu prima degli Arabi e poi dei Normanni e che oggi può vantare sessantamila e più abitanti e una tradizione tennistica cittadina di buon livello, potremmo ricordarla un giorno, che si spera essere non troppo lontano, come il punto di svolta nella carriera proprio dell’alessandrino dai modi gentili. Giugno inoltrato, l’aria che accarezza l’isola più estesa del Mediterraneo ha una temperatura gradevole e sui campi rossi del Tennis Club Villa Amadeo si disputa l’edizione numero diciotto dell’ormai consueta manifestazione nissena. Donati, sovvertendo quei pronostici che sembrano essere fatti apposta per essere disattesi, al culmine di una settimana quasi perfetta ha sfiorato il bersaglio grosso, sconfitto solo in finale e con più di un rimpianto – sei per la precisione, uno per ciascun match point andato in fumo – da una vecchia volpe dei playground argillosi come Lorenzi. Che sta al Challenger Tour come gli inferociti tori di San Fermin stanno al color rosso scarlatto.

E sarà anche presto per dire se dal catino della NextGen sia fuoriuscito un nuovo campioncino, tuttavia è innegabile che il tennis lucido, ordinato e lineare esibito a più riprese da Donati abbia lasciato un segnale indelebile sui taccuini degli scout della nostra penisola. Rotto il ghiaccio, se non con la prima vittoria – quella verrà, ne siamo certi – almeno con la remora tutta giovanile di poter competere ai livelli più alti, la seconda parte del 2016 è proseguita sulla stessa benaugurate falsariga. Anche a Milano, infatti, qualche tempo dopo e molti chilometri più a nord, l’operato di Donati non è passato sotto traccia grazie al quarto di finale raggiunto nella città della moda; un torneo poi messo in carniere dal nostro Marco Cecchinato, sempre a proposito di buoni auspici. Stesso risultato poi agguantato a Cortina e Fano, a riprova di una continuità nelle prestazioni che tanto profuma di sopraggiunta maturità. Se possibile ancora meglio, ed è storia recente, Matteo lo ha saputo fare a Manerbio, dove solo un redivivo e ispirato Leo Mayer ne ha stoppato la corsa verso la finale, al termine di una lotta fatta di tre set estenuanti e, ancora una volta, di un match point non capitalizzato.

Sotto l’albero di Natale che verrà, per Donati – una volta metabolizzata qualche dolorosa ma forgiante sconfitta – un ventaglio di radicate certezze, nuove frecce pronte per essere scoccate alla ripresa dei giochi. Nel prosieguo di una carriera che, qualora supportata da abnegazione e, perché no, un pizzico di buona sorte, ha tutti i tasselli al posto giusto per divenire lucente. Intanto perché il ranking mondiale si è di nuovo stabilizzato nei dintorni della duecentesima piazza (attualmente 213) e l’accesso nei tabelloni principali è decisamente un esercizio meno improbo. Non da meno, poi, la consapevolezza di poter innalzare l’asticella del proprio tennis sui livelli di avversari ben più navigati, sia in termini di colpi che di linguaggio del corpo. Penetranti e sempre in spinta i primi, positivo e rassicurante il secondo.

A proposito di colpi. Proprio bello quel rovescio, marchio di fabbrica di casa Donati. Portato accostando le due mani sull’attrezzo come l’insegnamento contemporaneo sembra oggi prediligere, in una profusione di gesti sempre uguali e così lontani dal classicismo di un tennis che fu, ma non per questo necessariamente spogliati da un’intrinseca eleganza. Al punto da ricordare da vicino, per stile e costrutto insieme, quel formidabile ricciolone indipendentista dai canini pronunciati e dal sushi facile, che proprio sul lato sinistro del corpo, tra un improperio assai poco british e l’altro, riesce a dare forma nelle tre dimensioni a qualunque cosa gli passi per la testa. E se l’austera Judy Murray, mamma severa che tutto vede, avesse di che storcere il naso udendo ciò, le consigliamo vivamente di fare attenzione a come questo ragazzino dalla faccia pulita e i capelli demodé sia già in grado di condurre le operazioni sulla diagonale rovescia. Ad una velocità di crociera che probabilmente non manderebbe fuori giri il più famoso dei suoi figli ma un cospicuo numero di colleghi meno dotati.

Se son rose, recita l’antico adagio, fioriranno. Magari giusto in tempo per dare un seguito fortunato alla generazione di Fognini e di Seppi. Nella speranza che ciò possa avvenire senza quel fardello chiamato follia caratterizzante il primo, Fabio, e più talentuoso azzurro che si sia visto alle nostre latitudini dai tempi di Panatta e, al contempo, con la ragionieristica capacità di far di conto dell’atesino.

Gli esordi. Donati e il tennis è una bella storia d’amore che viene da lontano. Nato nel febbraio del 1995 quando gli amici-nemici Agassi e Sampras facevano a sportellate in cima al mondo e a dettare legge erano gli stessi yankee oggi relegati a ingrigite comparse, Matteo si affaccia per la prima volta su un campo da gioco alla tenera età di cinque anni. Merito di mamma Marina e di Marco, il fratello maggiore, che per primo in famiglia ha pensato bene di imbracciare una racchetta. Tutto molto più semplice nella vita se baciati dal talento, al punto che i primi risultati di rilievo non si fanno attendere a lungo. Già, perché quando le primavere ancora non arrivano alla decina, a Pula in Croazia, il piccolo Donati centra il successo nello Smrikva Bowl, uno dei più prestigiosi tornei giovanili del Vecchio continente. La Federazione non può certo esimersi dal tenerlo d’occhio e l’invito ad allenarsi al Centro Tecnico di Tirrenia non è che la naturale conseguenza. È questo l’inizio di un fortunato sodalizio che prima porta l’alessandrino sul podio della Junior Davis Cup insieme alle altre stelline azzurre Stefano Napolitano e Gianluigi Quinzi e poi al trionfo, questa volta con Filippo Baldi e Antonio Massara, della Coppa Valerio-De Galea. Una competizione internazionale a squadre di assoluto prestigio. Il commiato dal mondo dei piccoli, per il piemontese nel frattempo trapiantatosi a Bra, avviene in grande stile. Con Pietro Licciardi disputa infatti la finale del torneo di doppio a Wimbledon e, in proprio, trionfa a Salsomaggiore Terme e Cap d’Ail. Il top a livello giovanile.

Ah, come gioca Donati!” esclamerebbe con enfasi Maurizio Mosca se solo non fosse passato anzitempo a miglior vita. Ma è ormai giunto il tempo del professionismo.

Cinque Futures a cavallo tra il 2013 e il 2014 cristallizzano la classifica ATP intorno alla trecentesima posizione, tanto da indurre Capitan Barazzutti a volerlo con sé nell’appuntamento di Davis che vede gli italiani sfidare a Napoli la Gran Bretagna. La strada è ormai tracciata e le prime volte proseguono senza soluzione di continuità anche nel corso del 2015. Sempre a Napoli, forse un segno del destino, è finale nel Challenger campano dove a prevalere è però il più esperto iberico Muñoz de la Nava. Risalendo la penisola, Roma significa consacrazione. La crescita esponenziale del Donats è premiata con una wild card per il Mille della città eterna. Una generosità legittimata dall’entusiasmante vittoria ai danni del colombiano Giraldo, con il quale Matteo deve avere un conto aperto avendolo battuto di nuovo quest’anno proprio a Caltanissetta. Successo che gli vale la passerella in notturna sul centrale del Foro contro il ceco Berdych. Che per molti detrattori resta sempre l’impalpabile Perdych ma che fino a qualche settimana prima Donati poteva solo ammirare alla televisione, in quel suo incessante martellare da fondo come se non ci fosse un domani. A fine luglio, per il computer, Donati è il numero 159. Un best ranking niente male per un diciannovenne che non sia di casa a Manacor. Il resto è quasi tutta attualità. La stagione in corso si è aperta, lo si diceva poc’anzi, con qualche scricchiolio a polso e schiena ma alla prima opportunità favorevole l’allievo di Massimo Puci – Coach in passato al box del kazako Golubev – ha subito piazzato la zampata.

Con un fisico longilineo – centonovanta centimetri, asciutto – ed una presenza atletica ancora tutta da modellare, Donati è quello che oggi definiremmo un tipico contrattaccante da fondo. Giocatore dotato di due buonissimi fondamentali, con il rovescio quasi piatto che a nostro parere si fa preferire al più elaborato diritto, e di una mano piuttosto educata, il conterraneo dell’indimenticabile Roberto Lombardi fa della pressione sistematica il proprio credo tennistico. Abile nel cambio di ritmo e nel girare l’inerzia dello scambio dalla fase difensiva a quella offensiva, Matteo non disdegna l’approccio a rete dove mostra una buona confidenza nel gioco di volo. Donati, che i risultati di rilievo li ha conseguiti sulla terra battuta, sembra però avere maggiori margini di crescita sulle superfici rapide che meglio ne sposano la cifra stilistica, grazie ad un gioco anticipato e aggressivo fin dalla risposta e la capacità di rimanere con i piedi incollati alla riga di fondo. Intensità, dunque, pare essere la parola chiave. E angoli. Acuti, acutissimi, come quelli che Matteo – euclideo per l’occasione – riesce sovente ad esplorare per aprirsi il campo. Il servizio, fondamentale imprescindibile oggi per ambire a risultati di rilievo, in virtù di un meticoloso lavoro tecnico è già un colpo completo, fatto di proficue variazioni di velocità, traiettorie e rotazioni. Particolarmente interessante risulta l’uso ricorrente del kick, specialmente da sinistra dove si giocano i punti che scottano, in uno schema tattico in abbinamento al diritto di comprovata affidabilità.

Apparentemente timido e misurato fuori, aggressivo e felino in campo. E umile, che non guasta mai, nel rimboccarsi le maniche. Anche quando si tratta di abbandonare la racchetta per lavorare sul proprio fisico, come successo all’inizio di questo 2016, nell’intento di colmare una lacuna che, per sua stessa ammissione, ancora lo tiene lontano dal gotha del tennis.

Un po’ di amarcord. Mezzo secolo fa, la stessa città di Alessandria ha dato i natali ad un altro grande sportivo. Gianni Brera, la cui penna non ha ovviamente bisogno di presentazioni, quel fuoriclasse del folbar in bianco e nero era solito definirlo abatino perché – a suo dire – troppo mingherlino. Senza animus pugnandi, molle, rassegnato a non mettere mai la gamba nei tackle. Non importa che Gianni Rivera, proprio lui, fosse il primo storico pallone d’oro del nostro calcio, capace di incantare San Siro non ancora maggiorenne. Il risultato di una tra le querelle dialettiche più famose di sempre in ambito sportivo è che quell’etichetta così poco edificante, e che tanto deve averlo fatto arrabbiare, gli portò come risarcimento – in aggiunta al talento – una fortuna smisurata. Anche Donati, fatte le debite proporzioni e tutti gli scongiuri del caso, al pari del più illustre e inarrivabile concittadino non può certo esibire una prorompente fisicità. Ma se i bicipiti sono lontani dall’essere quelli oversize di Nadal e le gambe non emulano quelle robotiche di Ferrer, ecco che in quanto a geometrie, tocco di palla e sensibilità – senza intendere con ciò la sola capacità asettica di prodursi in ghirigori stilistici – potrà dire la sua in un mondo difficile come quello del tennis 2.0, tutto granatieri corri-e-tira e palline che sanguinano.

Pertanto, con buona pace degli incorreggibili Gioann del mondo, chissà che il tennis azzurro non possa aver trovato finalmente il suo Golden Boy. A quarantasei anni da Città del Messico, e dal piatto destro che riscrisse la storia del calcio, sarebbe bello rivedere un abatino – detto ciò con molto più affetto di quello dimostrato in passato dall’inventore stesso del neologismo – che diventa titano. Lapalissiano, ne avremmo bisogno come l’aria.

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