Lenta agonia del tennis indoor in gonnella

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Lenta agonia del tennis indoor in gonnella

La nostalgica consapevolezza si fa strada ogni anno più intensa, quando la cara, vecchia stagione indoor europea inizia. Sempre più povero e gregario, il sottotetto europeo batte una mesta ritirata sotto gli incessanti colpi della “moneta del popolo”

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180 secondi con il Direttore: i veri talenti non sono i nostri

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Apprendiamo che il sogno nel cassetto di Karolina Pliskova non era necessariamente quello di prender parte al Generali Open di Linz. Diciamo che la gemella destrimane della casata ceca aveva sì prenotato l’hotel in Alta Austria, ma solo nell’evenienza in cui le cose, in Estremo Oriente, si fossero messe male. Vidimato la scorsa settimana a Pechino il passaporto che la condurrà a Singapore, la trampoliera di Louny, autrice della migliore stagione della carriera, ha deciso che la degustazione di semmelknodel e faschierte laibchen avrebbe potuto attendere ancora per qualche tempo. All’Intersport Arena in Ziegelistraße non sono rimasti sprovvisti di ammalianti starlette, tuttavia, poiché Garbiñe Muguruza, campionessa slam in piena crisi d’identità, ha approfittato della fuga della collega top ten per accaparrarsi lo slot in tabellone rimasto orfano, salvando il prestigio dell’evento e asciugando le lacrime degli intristiti organizzatori. La nativa di Caracas, ci permettiamo di sospettare, non ha optato per la visita nella terra di Hermann Bahr in ragione di un nostalgico attaccamento al modello dell’autunnale tennis sottotetto europeo. Dissipato in maniera preoccupante il bagaglio di punti ammassato nella primavera parigina, la bella Garbiñe s’è inopinatamente trovata con l’acqua alla gola, e nonostante la festa andata in scena sullo Chatrier lo scorso quattro di giugno, i conti per le Finals non tornavano.

Saranno le prime foglie che cadono davanti all’ultima finestra aperta della stagione; saranno le giornate sempre più corte che ineluttabilmente ci privano dell’estate e avvicinano sempre più lo stagionale crepuscolo del nostro sport preferito; sarà quel che sarà, ma tutti gli anni, e ogni anno sempre più acuto, sentiamo l’inconfessabile desiderio di portare il calendario indietro di tre lustri, quando i metaforici ritratti delle giocatrici professioniste ancora non comparivano sulle banconote da 100 dollari e nei palazzetti della Mitteleuropa i tornei si giocavano e vincevano per il prestigio che quei luoghi un po’ démodé emanavano.

Chissà se Stacey Allastar saprebbe collocare Fildesrtad sulla cartina geografica. Chissà se il discusso e diabolico ex CEO del tennis al femminile s’è mai seduta sulle vetuste ma irresistibili tribune dell’Hallenstadion di Zurigo. Francamente non ricordiamo, ma nel dubbio, dubitiamo. Il rischio che si corre è quello di far la figura delle vecchie zie, sedute in un angolo a dire quanto sia brutto questo, quanto sia brutto quello, quanto sia brutto tutto. È che il mondo cambia in fretta, forse troppo, ma non poteva certo essere uno sport così pervicacemente legato alla pecunia come il tennis a ribellarsi alla soggezione economica nei confronti del Renminbi in atto nel complesso periodo storico che stiamo vivendo. Il colonialismo dei nuovi padroni del mercato globale ha trovato nella Allaster un fido alleato ciecamente mosso dall’unica bocca della verità di cui si fidi, l’estratto conto della banca, e il concorrente venuto da lontano a predicare il seducente verbo del soft power ha dovuto sudare ben poco per spazzare via dalla mappa del pianeta tennistico Zurigo, subito prima di costringere Mosca in un abito molto più spartano rispetto a quello lussuoso e fors’anche un pizzico arrogante che l’agghindava fino a qualche tempo fa.

E andrebbe tutto bene, ci mancherebbe. A parte gli orari un poco ostili, forse. È che il tennis non sembra andare d’accordo con l’alba, ma è probabile che si tratti solo di abitudine, e con il tempo si digerisce tutto. Ma si digerisce tutto per davvero? Quegli impianti futuristici, enormi e semivuoti. Quell’atarassia onnipresente e anche un po’ inquietante che tutto avviluppa in un grigio film lungo un mese. Shenzhen, Tjanin e Chengdu, ché poi nessuno ha ancora imparato a pronunciare Chengdu, ma capiamo non sia la cosa più importante da assimilare. Ed è vero, i grandi sermoni che inneggiano alla tradizione come estrema panacea di ogni possibile male sono quasi sempre declamati a sproposito, ma la tentazione di rifugiarvisi quando l’argomento ha in oggetto una pallina di feltro è forte. Perché Mastro Don Gesualdo, quando il tennis era ancora un sollazzo per fantasiosi pionieri, poteva notoriamente contare su risorse finanziarie inimmaginabili e godere del lusso di grandi magioni costruite faticando una vita, ma la palazzina della nobile dinastia dei Trao, ancorché rabberciata e decaduta, aveva tutt’altro fascino. Non so se ci siamo capiti.

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