Everyday America: il tennis è ancora uno sport per ricchi (e bianchi)

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Everyday America: il tennis è ancora uno sport per ricchi (e bianchi)

Lo sport è spesso uno di quei campi dove è più semplice aggirare le differenze sociali, economiche ed etniche. Il tennis, però, resta quello che riflette più da vicino le disuguaglianze che affliggono la società americana e che hanno portato alla nascita di movimenti come Black Lives Matter

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Che qualcosa fosse cambiato in questi tre anni di assenza a Los Angeles, mi era stato evidente dai primi giorni dal mio arrivo. Il tragitto verso l’ufficio era spesso interrotto da centinaia di persone; manifestanti, che protestavano come si fa qui negli Stati Uniti: tutti con un cartello in mano sparsi per il perimetro di un isolato. I cartelli dicevano ognuno qualcosa di diverso e il messaggio della protesta riuscivo a comprenderlo giusto dalle t-shirt, tutte uguali e tutte con la scritta: Black Lives Matter. Da giugno infatti il movimento Black Lives Matter di Los Angeles aveva iniziato a fare più rumore, a manifestare quasi quotidianamente, da Downtown a Santa Monica. Di ritorno in università, anche nel campus era facile scorgere studenti con la t-shirt del movimento.

Gli Stati Uniti amano definirsi un melting pot, un crogiolo di culture, etnie e storie. Sono del resto la nazione di immigrati per eccellenza. Più che in Australia, più che in Argentina, l’emigrazione verso gli USA non si è mai fermata. Spesso doloroso e accompagnato da sangue e lotte, il processo di inclusione delle varie minoranze è stato lungo. E di questo travaglio gli Stati Uniti ne portano il segno. Lo portano in particolar modo gli afro-americani, schiavizzati fino ad un secolo e mezzo fa, segregati fino a cinquant’anni fa, guardati con sospetto fino ad oggi. L’elezione di Obama ha rappresentato uno storico passo in avanti, ma paradossalmente è proprio sotto la sua presidenza che è tornato prepotente il tema del razzismo. Conflitti fra polizia e cittadini, una serie di omicidi ingiustificati verso giovani maschi afro-americani e il problema, spesso affrontato di malavoglia e considerato superato, è venuto a galla. I protestanti di Black Lives Matter lamentano di una società fondata sul “razzismo sistematico” che preclude, quasi inconsciamente, agli afro-americani di avere le stesse possibilità della maggioranza caucasica. Il tema è troppo grande probabilmente per essere analizzato a pieno in un articolo, tantomeno su di un quotidiano sportivo. Richiederebbe una enorme mole di dati, supportata da decine di migliaia di esperienze di vita. Mi sono interessato dunque a vedere se, per lo meno nel piccolo del mondo del tennis, esistessero delle basi per sostenere che fosse più difficile per gli afro-americani emergere. In fondo lo sport è spesso stato il primo palcoscenico a fornire un’apparenza di parità di opportunità e risultati tra le varie etnie.

Mi sono subito tornate in mente le parole di Richard Williams, padre di Serena e Venus. “Non credo che Serena e Venus verranno mai davvero accettate nel mondo del tennis. Questo è uno sport fatto di pregiudizi”. Il signor Williams diceva nella stessa intervista, però, di odiare “l’uomo bianco” perché è lo stesso uomo bianco ad odiare lui. Tale odio nasce, per Williams padre, da una storia personale fatta di discriminazioni e violenti episodi di razzismo nei confronti della sua comunità in Louisiana. Le difficoltà delle figlie nel crescere circondate dalle gang di Compton, insieme a diversi episodi di razzismo, tra tutti quello tristemente famoso avvenuto quindici anni fa ad Indian Wells, hanno contribuito a solidificare l’opinione di Williams di vivere in uno Stato razzista. La situazione non è probabilmente estrema come la dipinge Williams, eppure un problema c’è. Ne è convinta almeno Claudia Rankine, poeta afro-americana vincitrice di numerosi premi internazionali di poesia ed autrice lo scorso anno di Citizen, un libro da cui è stato estratto un articolo, molto popolare e discusso, su Serena Williams pubblicato dal New York Times. Rankine fa riferimento alla difficoltà per un’eccellenza afro-americana di essere tenuta sugli stessi standard di una caucasica: “C’è la certezza, tra alcuni afro-americani, che per sconfiggere il razzismo debbano lavorare più duramente, essere più intelligenti, essere migliori. Solo dopo aver dato il 150% di un americano bianco, si può riconoscere l’eccellenza nera. Ma, ovviamente, una volta riconosciuta, l’eccellenza nera deve comportarsi sempre con grazia e remissione difronte a qualsiasi attacco o epiteto razzista. L’eccellenza nera non deve essere emotiva”. Il riferimento è chiaramente all’immaginario comune di una Serena sempre arrabbiata, scontrosa, a tratti antipatica, quasi “mascolina” per via anche della sua struttura fisica. Un’immagine che sarebbe probabilmente mitigata, diversa, se Serena non fosse afro-americana.

Che i successi di Serena fungano da incentivo per giovani atlete afro-americane che si avvicinino al tennis è indubbio. Tuttavia, le continue pressioni e le critiche e i giudizi sprezzanti sull’aspetto fisico troppo poco conforme all’immaginario femminile della società americana e sull’atteggiamento troppo sicuro di sé per una donna, possono invece essere dei deterrenti, finendo per spaventare le più giovani e convincendole a non esporsi al rischio di subire costanti processi.

SEGUE A PAGINA 2: USTA E DISUGUAGLIANZA

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