Racconti dal XX secolo: Big Bill Tilden, il più grande dei campioni, il più solo degli uomini - Pagina 2 di 3

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Racconti dal XX secolo: Big Bill Tilden, il più grande dei campioni, il più solo degli uomini

William Tatem Tilden è passato alla storia come il più grande campione di sempre. Insieme a Babe Ruth, Red Grange, Jack Dempsey e Bobby Jones fu un protagonista assoluto del decennio che corre fra il 1920 e il 1930, quella che molti definirono l’età d’oro dello sport. Ma la gloria celava una profonda infelicità. Ecco quel che accadde

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Al termine del conflitto Tilden riesce a raggiungere la finale nazionale nel 1918 e nel 1919, perdendo netto da Robert Lindley Murray e dal rivale di una vita William Johnston, un grandissimo campione che come Mc Loughlin proveniva dai campi californiani in cemento. Little Bill, come verrà chiamato, era allora l’idolo del pubblico USA. Piccolino ma dotato di un gioco completo, faceva sconquassi con il dritto più potente dell’epoca, scagliato nei remoti angoli del campo e carico di spin grazie ad una presa western estrema. Il 3 settembre 1918 Tilden viene massacrato da questo fondamentale, Johnston attacca senza pietà il suo lato sinistro per poi chiudere dalla parte opposta e non gli lascia scampo. I cronisti dell’epoca riportano che Big Bill riuscì a colpire non più di una trentina di dritti in tutto l’incontro. Sarà l’ultima sconfitta del grande campione, che nei successivi sei anni non perderà più un incontro importante. Ma la botta è forte, Tilden è il principale critico di sé stesso, il suo obiettivo è la vetta e lucidamente capisce di non avere futuro senza un rovescio adeguato, quindi studia un piano luciferino per completare finalmente il suo gioco. Al tempo i campi coperti erano una rarità, uno di questi si trovava a Providence e apparteneva al milionario Jed Jones. Bill ottiene un impiego di facciata come venditore di assicurazioni ma in realtà si allena tutto il giorno con il figlio di Jones, Arnold, un teen ager che sarà il primo di una lunga lista di sfortunati protetti.
Tilden chiede al partner di giocargli sempre e solo sul rovescio, cambia presa e nel poco tempo trascorso
fuori dal campo corre e spacca legna impugnando l’ascia solo con la destra allo scopo di rinforzare braccio e polso. George Lott, un suo nemico giurato, ha scritto che “se il giovane Jones avesse avuto un dollaro per ogni palla colpita quell’inverno sarebbe diventato più ricco del padre”. Per qualche settimana le pareti ribattono i rovesci di Big Bill, che non riesce a centrare il campo. Ma la goccia buca la roccia e dopo otto mesi di duro condizionamento la metamorfosi è cosa fatta.
Adesso è in grado di colpire duro da entrambi i lati e questa è la chiave di volta.

Un rovescio costruito spaccando legna

Un rovescio costruito spaccando legna

Il giornalista Frank Deford considera quello storico campo di Providence, ancora visibile oggi, come “la Valley Forge del tennis statunitense”, richiamando alla memoria il luogo dove l’esercito di George Washingtion mise i quartieri invernali fra il 1777 e il 1778 preparandosi allo scontro per l’indipendenza contro l’impero britannico. Nella tarda primavera del 1920 Tilden è pronto per inaugurare il suo regno ma nessuno immagina ancora quel che sta per accadere mentre attraversa l’Atlantico alla caccia del sacro graal del tennis, la corona di Wimbledon. Come accadde per il celebre antenato, Bill entra nel torneo da sconosciuto e ne esce Re. Il pubblico di Londra è immediatamente conquistato da questo Yankee che in campo mostra la sportmanship di un vero inglese e non accetta mai punto se non ritiene di averlo meritato. Tilden cercò tutta la vita di eccellere come attore, dissipò almeno due patrimoni, quello di famiglia e i guadagni immensi derivati dal tennis finanziando spettacoli teatrali e film che lo vedessero protagonista ma senza esito alcuno se non quello di essere messo alla berlina per lo scarso talento. Ma sulla ribalta di un campo verde, con migliaia di spettatori che avevano occhi solo per lui, era capace di recitare come i più grandi. Sorvola con autorità il torneo all-comers e in finale sgretola il detentore Gerald Patterson, nipote della celebre soprano Nellie Melba. L’australiano possedeva solo dritto e servizio e Bill lo sorprende giocando costantemente sul suo colpo forte. Patterson inizialmente sembra avere la meglio, vince il primo set ma al cambio campo seguente Tilden strizza l’occhio in tribuna verso l’amica attrice Peggy Wood, una delle poche persone che gli restò vicino fino alla fine. “Don’t worry, it’s all under control” le sussurra unendo pollice e indice. Solo ora comincia a martellare il rovescio avversario e in poco più di un’ora tutto è finito. Il punteggio finale di 2-6 6-2 6-3 6-4 gli consegna il titolo ufficioso di campione del mondo ma in patria non danno peso alla cosa, Johnston è ancora il favorito della critica quando a fine agosto si aprono i campionati statunitensi. I due contendenti marciano sicuri verso la finale e il sei settembre, un lunedì, dopo un rinvio per pioggia entrano in campo. Tilden indossa un cappotto bianco sopra la tenuta dello stesso candido colore, imbraccia sei racchette. Johnston ne ha solo due e le maniche della camicia rimboccate.

Quel che seguì venne descritto come il più grande incontro mai disputato negli Stati Uniti. Quel giorno i due diventano per sempre Big Bill e Little Bill.
Il californiano comprende subito che qualcosa è cambiato, il primo set per lui è un pugno in piena faccia. Adesso la tattica vincente dell’anno prima non funziona più, dall’angolo sinistro Tilden risponde alla sua pressione con sibilanti rovesci a tutto braccio che lo lasciano disarmato e impotente e mette a referto uno schiacciante 6-1. Ma Little Bill a dispetto di un nomignolo che per ovvie ragioni non amò mai, era un combattente della più bell’acqua e d’improvviso trova la chiave per mettere in difficoltà il grande uomo oltre il net. Comincia a giocare dei lob perfetti ogni volta che viene attaccato mettendo a nudo la sola vera debolezza di Tilden, lo smash. Il secondo set è suo con lo stesso punteggio e tutto ricomincia daccapo. I due prendono a giocare con ineguagliata maestria, ogni punto è un vincente e gli errori scompaiono sotto gli occhi di un pubblico alle soglie del delirio. È una lotta a coltello e i duellanti si spartiscono terzo e quarto con dei combattuti 7-5. Allo scoccare della seconda ora di gioco nulla è ancora deciso quando un monomotore JN Curtiss pilotato dal luogotenente di marina James Grier sorvola il centrale per prendere qualche foto dall’alto dell’evento. Il pubblico alza lo sguardo con curiosità, i giocatori con fastidio mentre l’aereo sorvola un paio di volte l’arena dello scontro. Al terzo passaggio il motore batte gli ultimi colpi e tace d’improvviso mentre Grier cerca disperatamente di controllare l’apparecchio. Migliaia di occhi angosciati lo vedono perdere quota, per un attimo sembra che debba colpire in pieno il campo ma all’ultimo secondo il velivolo sorvola le tribune di un soffio. I due Bill sentono la terra tremare sotto i piedi al momento dello schianto a poche decine di metri dallo stadio, che la paura svuota per metà. Dopo qualche minuto però tutti sono di nuovo al loro posto mentre il giudice arbitro chiede ai finalisti se intendono continuare.
“Can you go on mr. Johnston?”.
“Yes”.
“How ‘bout you, Bill?”.
“Right” replica Tilden.
La singolar tenzone giunge quindi al momento decisivo e qui la differenza fisica viene a galla. Molti criticavano Big Bill per la sua abitudine di consumare il suo eterno menù, una o due bistecche, patate al forno e gelato, poco prima di ogni match. A chi gliene chiedeva il motivo lui rispondeva che preferiva fare fatica all’inizio ma avere un serbatoio pieno di energie nei momenti decisivi.
E così andò. Johnston non ne ha più per replicare al bombardamento dell’avversario e cede la sua corona con un netto 6-3. “Mi vendicherò l’anno prossimo” dichiara alla stampa ma il piatto che va gustato freddo non arriverà mai. Big Bill vince altre sei corone nazionali, quattro delle quali contro lo stesso avversario. Nel 1922, in quello che fu definito “il match degli dei greci”, si complimentò con l’avversario per poi accasciarsi negli spogliatoi, la testa fra le mani, mormorando “I can’t. I can’t beat this damned man”.

Il nuovo sovrano del tennis conferma lo scettro di Wimbledon l’anno seguente vincendo la finale contro il sudafricano Norton dopo tre settimane di letto a seguito di un’operazione. Regna sul gioco vivendo come un principe indiano, con la sua corte al seguito nei migliori alberghi e viaggiando ininterrottamente al volante della sua Marmon rossa ovunque ci fosse un campo o un torneo. Quando anni dopo passò professionista il grande Don Budge, che non riusciva a spiegarsi dove Bill trovasse la forza per essere ancora così competitivo alla soglia dei cinquant’anni, gli chiese cosa avrebbe fatto una volta smesso.
“…mmmh Don, i think i kill myself” rispose lui.

Segue a pagina 3: l’incontro con von Cramm e la discesa all’inferno

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