Racconti dal XX secolo: Big Bill Tilden, il più grande dei campioni, il più solo degli uomini - Pagina 3 di 3

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Racconti dal XX secolo: Big Bill Tilden, il più grande dei campioni, il più solo degli uomini

William Tatem Tilden è passato alla storia come il più grande campione di sempre. Insieme a Babe Ruth, Red Grange, Jack Dempsey e Bobby Jones fu un protagonista assoluto del decennio che corre fra il 1920 e il 1930, quella che molti definirono l’età d’oro dello sport. Ma la gloria celava una profonda infelicità. Ecco quel che accadde

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Ma per poco l’intera favola non finì quasi prima di cominciare.
Sabato 7 ottobre 1922 Tilden è nella sconosciuta cittadina di Bridgetown, New Jersey. Nel corso di un doppio d’allenamento senza nessuna importanza, tentando di ribattere uno smash angolato, Bill si ferisce il dito medio della mano destra contro la recinzione di metallo. Il taglio è invisibile, non dà fastidio e lui riprende a giocare. Il suo fisico era vulnerabile allo staffilococco aureo e in altre occasioni aveva sofferto complicazioni dovute a questo. Con l’avvento della penicillina i rischi dovuti al germe vennero debellati ma al tempo si trattava di un pericolo molto serio, che solo poco prima aveva causato la morte del senatore Edwin Ware, il quale presumibilmente aveva potuto contare sulle migliori cure disponibili. L’infezione si fa strada nel delicato organismo di Big Bill che solo il venerdì seguente comincia ad avvertire qualche dolore. Il 18 ottobre compare una febbre altissima, il dito è gonfio e nero mentre la zia e la cugina, le care auntie e twin, lo trasportano in ospedale.

La diagnosi del dottor William Swartley è da brividi. Cancrena.
L’amputazione del dito lo salverebbe di certo ma sarebbe la fine e allora lui chiede al dottore di fare il possibile per evitarla. Rischia di morire ma non ha dubbi, la sua vita è il tennis.
Il dito ha raggiunto le dimensioni di una mela quando il chirurgo lo incide per la prima volta col bisturi. Saranno necessarie tre operazioni, al termine delle quali Swartley riesce a salvare solo due delle tre falangi. Incredibilmente Bill va oltre l’ostacolo, adatta il suo gioco, comincia ad utilizzare manici più piccoli e riduce le discese a rete, perché la volée era il fondamentale che più risentiva del danno.

All’avvio della stagione 1923 nessuno crede in lui ma il suo dominio non risente di quanto è successo. Riprende a vincere senza soluzione di continuità, paradossalmente il gioco da fondocampo migliora ancora e gli è sufficiente per dominare senza problema alcuno. Tale e tanta era la sua superiorità rispetto al mondo dei giocatori normali.
Fu quella menomazione a legarlo ad un giovane Gottfried von Cramm nel 1928. Tilden si trovava ospite nel castello di Bruggen, la residenza di famiglia del barone che vantava, a suo dire, il campo da tennis più bello del mondo, affacciato sulle dolci vallate della Bassa Sassonia. Mentre osservava giocare il diciannovenne Gottfried rimase sconvolto nel notare che anche la mano destra del giovane tedesco era priva di una falange. Quando gliene chiese conto apprese che era stato il morso di un cavallo a provocare il danno anni prima.
Fu l’inizio di un’amicizia duratura, Bill consigliò von Cramm, gli migliorò il debole rovescio e arrivò persino ad allenare la squadra tedesca di Davis nel 1937. C’era lui in tribuna a Wimbledon nel leggendario match in cui Don Budge risalì da due set sotto portando gli Stati Uniti in finale. Quando nel corso del quinto set von Cramm andò in vantaggio 4-1 e Tilden si alzò con un sorriso alzando il pollice in segno di vittoria. Gli americani presenti fra il pubblico si infuriarono e Ed Sulluivan, futura star della televisione statunitense che per primo ospitò i Beatles nel programma che portava il suo nome, venne trattenuto a forza mentre urlava “Why you, son of a bitch!”.

Richards, Tilden e Johnston, imbattibili Davis

Richards, Tilden e Johnston, imbattibili Davis

Come accadde per Carlo V sul suo regno sembrava non tramontare mai il sole. “Tilden is tennis” titolavano i giornali, con il ben noto gusto degli anglosassoni per le allitterazioni. Alla testa del team USA conquista e difende per sette volte consecutive la Davis, un record tuttora ineguagliato, mentre nei campionati statunitensi nessuno è in grado di stargli alla pari fino a quando la lacerazione di un menisco nel 1926 gli costa la prima sconfitta di rilievo che interrompe il suo regno a Forest Hills. È la prima foglia d’autunno, Bill ha compiuto 33 anni da qualche mese e il suo fisico scricchiola dopo un quarto di secolo vissuto con la racchetta in mano fra pomeriggi sul campo e nottate al tavolo da bridge, altro gioco nel quale era maestro. Anche se a volte la sua volontà di potenza lo portava a strafare con le dichiarazioni. Nel corso di una traversata durata due settimane verso l’Europa con la squadra di Davis perse “una somma considerevole” giocando ogni sera in coppia con la star di Hollywood Pola Negri contro il caro nemico George Lott e una contessa polacca. Viveva e spendeva a piene mani, prese a firmare solo con il cognome, “Tilden”, e quando qualcuno gliene chiese il motivo, racconta Gianni Clerici in “500 anni di Tennis”, rispose semplicemente “Forse che la Garbo firma diverso?”.

Ma nessuno ama i tiranni e la vita tanto eccessiva di un carattere così autocratico avevano guadagnato a Big Bill una folta schiera di nemici, soprattutto fuori dal campo. Il più pericoloso di tutti era Julian Myrick, l’onnipotente capo della federazione statunitense che odiava profondamente lo stile Tilden, un sentimento esacerbato dalla consapevolezza che punirlo nei suoi anni di dominio avrebbe portato ad una rivoluzione. Nel 1928, prendendo a pretesto alcuni articoli dati alle stampe prima del tempo pattuito, la federazione riuscì finalmente a squalificarlo alla vigilia della finale di Davis a Parigi contro la Francia. Si racconta che furono gli stessi moschettieri, capeggiati da Lacoste e Cochet, a premere presso il proprio governo affinché l’ambasciatore statunitense Myron Herryck facesse rientrare la cosa. Tilden aveva trentacinque anni e un ginocchio fuori uso ma era un fiero patriota e teneva tantissimo alla Coppa. Venne tenuto sulla corda a lungo e seppe di poter giocare solo all’ultimo momento. Nonostante questo nel primo singolare sconfisse per 6-3 al quinto il ventiquattrenne Lacoste, che gli era succeduto come numero uno del mondo e lo aveva già battuto sonoramente. Chi assistette raccontò ammirato la mostruosa esibizione dell’intero arsenale di un superbo campione. Big Bill partì lento perdendo netto il primo set ma da quel momento in poi esibì una serie di chop, volée e perfetti lob alternati a fucilate negli angoli. Ogni singolo colpo era piazzato nel momento giusto, al posto giusto. Quando Tilden chiuse l’ultimo punto Lacoste gli strinse la mano chinandosi lievemente, mentre un infinito “Beeeeeel” usciva dalle gole del pubblico che era balzato in piedi.
Il vecchio leone ruggì un’ultima volta nel 1930 a Wimbledon.
Era ancora campione del mondo a 37 anni ma Fedro aveva già anticipato quel che accade ai potenti prossimi alla fine.

Chi perde il suo potere, anche il più vile
si prende gioco della sua rovina.

Tradito dalle forze e dall’età
il leone covava la sua fine.
A vendicarsi d’un’antica offesa
venne il cinghiale dal fulmineo dente;
poi venne il toro, e le sue corna ostili
scavarono in quel corpo di nemico;
l’asino vide i colpi non puniti
e gli sferrò il suo calcio nella fronte.
Il leone spirò. Ma prima disse:
«Amaro fu l’assalto di quei forti.
Ma dopo il tuo, viltà della natura,
mi sembra di morire anche due volte»
(Fedro, favole I, 21)

Tilden passa professionista alla fine di quell’anno, lui che aveva spesso dichiarato che fra loro e un amatore correva la stessa differenza che passa fra una puttana e una signora.
Il bisogno continuo di denaro per alimentare il mito di sé stesso lo obbligò a quella scelta ma in lui il tennis coincideva realmente con la vita, forse perché una vera vita non la ebbe mai. Amò veramente il gioco più di ogni altro e praticamente fino alla morte rimase fra i tre più forti del mondo sulla distanza di un set. A quarant’anni suonati, il 16 gennaio 1934, massacrò davanti a 16.000 persone stipate nel Garden un altro vero immortale del tennis, il ventiduenne californiano Ellsworth Vines, che Jack Kramer giudicherà poi uno dei tre migliori di sempre.

Gli ultimi anni furono una vera discesa all’inferno, tormentata dai debiti e percorsa col solo conforto di alcuni veri amici come l’ex allievo Vinnie Richards e Charlie Chaplin, sul campo del quale un Tilden sessantenne giocò il suo ultimo tennis, e che non lo abbandonarono mai. Inoltre, senza più il freno dell’adrenalina e la soddisfazione della vittoria, lontano dalle luci, la sua omosessualità divenne più evidente nella camminata, nella gestualità delle mani e nella postura del corpo. Disperato, senza più il paracadute della notorietà, privo di mezzi, costretto ad insegnare tennis per pochi dollari incappò fra il 1946 e il 1948 in due arresti a Los Angeles che gli costarono diciotto mesi di carcere e l’onore. Entrambe le volte fu colto in atteggiamenti equivoci con minorenni, un reato orribile allora come oggi. Questo non è opinabile ma va detto, se non altro per amor di completezza, che allo scoppio dello scandalo nessuno dei numerosissimi allievi dei quali sempre si circondava lo accusò di nulla. Sarebbe stato facile sparargli addosso in quel momento ma tutti dichiararono che Tilden era sempre stato corretto con loro. Come logica conseguenza, e con pochissime eccezioni, divenne una sorta di appestato, che sostava davanti a sconosciuti circoli di periferia chiedendo umilmente se servisse un quarto per il doppio.
Una volta tanto la morte fu pietosa nel coglierlo d’improvviso, per infarto, la sera del 5 giugno 1953 a Los Angeles. Amici lo attendevano per cena e lui non era mai in ritardo. Quando entrarono nella modesta stanza che occupava al 2025 di North Argyle Avenue la sua figura elegante era riversa sul letto, vestita di tutto punto, scarpe comprese. In tasca poco più di 140 dollari, ogni suo avere.
Sul pavimento era pronta la borsa contenente le sue racchette, il giorno dopo sarebbe dovuto partire alla volta di Cleveland per l’ennesimo torneo.

Perché il grande Bill era felice solo su un campo da tennis.

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