Nole dopo Djoko, l'aderenza e la corazza

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Nole dopo Djoko, l’aderenza e la corazza

La gioventù con il suo tocco magico, che rende invincibili, che rende Re Mida. E poi crescere, e non esserlo più. Diventare qualcos’altro. Sta accadendo anche a Novak Djokovic

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Bob Dylan nel 1967. Maradona in Messico. Michael Jordan con la lingua di fuori. Mac contro Borg. I Beatles in qualsiasi momento. Esiste nella vita una fase in cui tutto coincide. Come in uno strano pre-big bang quello che hai vissuto, sofferto, desiderato è appiccicato alla palla che stai per colpire. Una palla amica che ti ubbidirà fedelmente. Chiamerei quella fase “aderenza”. È una fase magica. Meravigliosa. È come vivere circondati da olio etra vergine di oliva. Tutto scorre, tutto torna, tutto è facile. Le palline colpiscono le linee, gli arbitri non vedono i gol di mano e urlando “yeee yeee yeee” si può cambiare il mondo.

Ma l’aderenza non dura per sempre. Così com’è arrivata se ne va senza salutarti, “like a rolling stone”. Credo che Nadal quando non sbagliava mai un dritto e bastonava Federer fosse in piena aderenza. Tutta la sua vita si concentrava in quel colpo. Non c’erano dolori, distrazioni, dubbi, niente. Tutte le migliaia di ore di allenamento e i sogni di un bambino si scaricavano in quel dritto mancino. Poi gli anni passano, l’aderenza si scolla di qualche centimetro e cominciano i problemi. Sei sempre tu ma c’è qualcosa di impercettibilmente diverso. La tua vita non è più totalmente in quel colpo. E qualche dritto comincia a uscire. E cominci a dubitare delle parole che canti dentro un microfono e se ti guardi intorno non sei più al San Paolo dove sessantamila urlano che “sei megghj i Pelé”. E capisci che qualcosa che assomiglia tanto alla gioventù è scappato. E non tornerà mai più. Quando il sole gira e l’ombra si allunga, non c’è più nulla da fare. Puoi ancora fare cose meravigliose ma sua signora l’aderenza non tornerà se non per qualche breve rimpatriata. Lo sa bene Mac, lo sa bene Borg, lo sa bene Bob e lo saprebbero anche i Beatles se non si fossero sciolti quando ancora ogni parola detta e ogni nota prodotta veniva da quel regime meraviglioso in cui la giovinezza di quattro ragazzi inglesi coincideva con quella di una generazione e forse di un’intera epoca.

A Djokovic l’aderenza è arrivata tardi. Ha dovuto aspettare che se ne andasse dagli altri due, ma così com’è arrivata, con una risposta sulla linea a New York, a Parigi se n’è andata. Potrà vincere ancora tantissimo (tutte le grandi risposte sono longeve) ma un centimetro di ombra è spuntato sotto le sue scarpe e per quanto possa correre veloce non c’è più nulla da fare. Ha toccato il sogno del ragazzo che è stato ed è diventato adulto. Il suo mondo intorno al campo di tennis si sta allargando intorno a lui. “Se sbaglio un rovescio non succede nulla, in fondo”. “Essere il numero uno non è una priorità, in fondo”. “Fuori da quel rettangolo c’è tanta roba, in fondo”. Fuori da quel rettangolo, Mister Djokovic, c’è una cosa che si chiama vita. Quando ti tocca, quasi sempre, diventi un uomo migliore e… un tennista peggiore. La corazza dell’invincibilità è il prezzo da pagare.

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