Racconti dal XX secolo: von Cramm, senza macchia e senza paura - Pagina 3 di 3

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Racconti dal XX secolo: von Cramm, senza macchia e senza paura

Fu uno dei grandi a non vincere mai la corona sul Centre Court, ma nel 1937 divenne immortale proprio su quel campo. Oltre la semplice conquista di un trofeo, lasciando una ineguagliata testimonianza di sportività, onore, altruismo e coraggio

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La sua ascesa seguì una proporzione quasi geometrica. Nel 1929 partecipa al primo torneo internazionale della sua carriera, alla fine dell’estate 1931 è già numero uno del suo paese con all’attivo gli ottavi di finale raggiunti al Roland Garros e a Wimbledon. Le prime corone, sia in singolo che in doppio, le conquistò ai campionati greci di Atene. Gli ci volle tutto il coraggio della stirpe sua per informare il barone Burghard che abbandonava gli studi, ma ce la fece e l’avventura ebbe inizio. Nel 1932 entra finalmente nella squadra di Davis, e la stagione è subito sensazionale. Prenn e Von Cramm guidano i compagni ad una serie di vittorie che culmina nella semifinale contro la Gran Bretagna, come accaduto nel 1929. Ma ora era ben diverso perché i britannici affiancavano all’affidabile Austin il giovane Fred Perry, nell’attimo esatto in cui stava per trasformarsi nel dominatore del tennis. Si gioca sulla terra battuta del Rot-Weiss dall’otto al dieci luglio, una nazione intera è sugli spalti, ancora ignara che alle elezioni del novembre successivo i nazisti sarebbero emersi come il primo partito di Germania. La ragione umana si era addormentata, i mostri cominciavano ad uscire.

Quell’estate sulla terra di Berlino non c’è domani. Daniel Prenn batte Austin in quattro, Perry massacra von Cramm lasciandogli sei giochi in tre set. Quando gli inglesi vincono il doppio gli spalti e la città intera ammutoliscono. Tutti attendono il colpo di grazia ma nella terza giornata il miracolo si compie e l’eroe è ancora lo sgraziato ma tenace Prenn. Gottfried diventa grande e fa la sua parte, perde il primo set con Austin poi i suoi amplissimi colpi iniziano ad alzare nuvolette negli angoli e per l’altro è la fine. Appena il tempo di sedersi nel box della squadra e l’incontro decisivo comincia. Il sudore si gela immediatamente addosso al corpo del barone. Perry intasca facile i primi due set e sembra padrone del match ma Prenn è ancora lì con la testa e ogni fibra del suo corpo. Vince il terzo 6-3, il quarto con un irreale 6-0 e paga lo sforzo al quinto quando si trova sotto 2-5, 30-40. Match point Gran Bretagna. Ed ecco che accade uno di quei prodigi che renderanno sempre unico questo sport, capace di portare alla follia. Cronisti del tempo riportano semplicemente che Prenn smise di sbagliare, rimontò, vinse cinque giochi di fila per il 7-5 finale e venne portato in trionfo. Il 5-0 ad una derelitta Italia e la sconfitta onorevole nella finale degli sfidanti contro gli Usa di Vines nulla tolse né aggiunse alla grande impresa.

La Coppa Davis costituiva all’epoca il luogo d’elezione del tennis, e von Cramm lo frequentò con ineguagliata grazia e sportività. Usava scusarsi dopo un raro fallo di piede, non contestò mai una decisione né lasciò trasparire disappunto dal perfetto contegno che lo contraddistingueva. L’onore innanzitutto. Questo insegnò ad un ventenne Don Budge prima di batterlo sul Centre Court nella semifinale del 1935 e di questo diede prova indelebile poche settimane dopo.

Wimbledon, finale interzone fra Stati Uniti e Germania, in palio la sfida ai detentori inglesi. Il punteggio è in parità quando si gioca il doppio, con la coppia statunitense Allyson/Van Ryn nettamente favorita. Ma quel giorno il barone è in stato di grazia. A detta degli avversari disputa “il miglior doppio di sempre giocato da un uomo solo” e guida sicuro il suo debole compagno Kai Lund a una messe di match point nel set finale. Quando Lund affossa in rete il quinto, il più facile, e sfascia la racchetta per terra, lui non fa una piega e lo rincuora. Poi accade il fatto. Nello scambio seguente i tedeschi sono a rete, fronteggiano un passante centrale, von Cramm in allungo sembra non arrivarci ma il compagno chiude la volée. Il giudice arbitro ha appena finito di chiamare il sesto match point Germania ma nota la mano alzata del barone, che gli sussurra poche parole. La pallina ha toccato impercettibilmente la punta della sua racchetta prima di essere impattata da Lund, il punto è degli avversari. In un silenzio attonito la coppia USA rimonta e vince. Negli spogliatoi Gottfried è nell’occhio del ciclone mentre si riveste con calma. Poi si alza, fissa il Kleinschroth furioso e con tono dolce ma che non ammette repliche gli dice: “Quando scelsi il tennis lo feci perché era un gioco da gentiluomini, e questo è il modo in cui l’ho vissuto fin dalla prima volta che ho impugnato una racchetta. Pensi che avrei mai potuto dormire sapendo di aver commesso un fallo senza dire nulla? Mai! Non credo di aver umiliato il popolo Tedesco. Al contrario, sono convinto di averlo onorato”.

Con il compagno di Davis Henner Henkel

Con il compagno di Davis Henner Henkel

Ma gli alti gerarchi del Reich non erano d’accordo, i veri guai erano già cominciati. L’aria tedesca si era fatta irrespirabile e Gottfried non mancava occasione per criticare apertamente la politica del governo. In un polveroso cassetto il dossier che lo riguardava aumentò di volume. Il partito lo voleva a tutti i costi. Alto, biondo, bellissimo, con occhi “verdi come laghi di montagna” come disse Barbara Hutton, la miliardaria americana che fu la sua seconda moglie, era un soggetto perfetto per la potentissima macchina della propaganda nazista, la quale anche attraverso lo sport cercava di veicolare le proprie abiette teorie razziali. Il film “Olympia” di Leni Riefensthal, sui Giochi berlinesi del 1936, ne è un perfetto esempio. La giovane regista riprende gli atleti tedeschi sempre dal basso, arrivando anche a scavare buche dove posizionare la cinepresa. Figure scolpite  e possenti si stagliano contro il cielo come eroi greci. Gottfried non si piegò mai a queste logiche ma Hermann  Göring non era tipo da rassegnarsi facilmente. Un giorno, come estremo tentativo, lo convoca nel suo ufficio al palazzo della cancelleria di Berlino. Dopo brevi formalità di rito il maresciallo estrae teatralmente dal cassetto un fascio di documenti e lo fa in mille pezzi, sparpagliandoli poi sul pavimento di marmo. Erano le numerose ipoteche sui terreni dei von Cramm date come garanzia dalla famiglia alle banche.
“Ora sei un uomo libero” gli disse.
“Ecco un’altra ottima ragione per rimanerlo” si limitò a replicare il barone.

Al di fuori del tennis il suo mondo si stava sgretolando. Amici e compagni, intellettuali e artisti scomparivano senza lasciare traccia, i più fortunati e previdenti emigrarono, per gli altri fu l’inferno in terra. Le pastoie della svastica si stringevano ogni giorno di più. L’incendio del Reichstag nel febbraio 1933 fu una farsa ma diede a Hitler i pieni poteri e da quel momento, di fatto, la repubblica di Weimar cessò di esistere. Sanguinosamente, anche l’opposizione interna venne messa a tacere. Nella notte fra il 29 e il 30 giugno 1934 i “Lunghi Coltelli” del furher decimarono le SA di Ernst Röhm, il compagno della prima ora con fama acclarata di sadico omosessuale, che contando ormai quasi tre milioni di aderenti minacciavano il suo potere personale. Ora nulla più ostacolava il folle sogno. In quella cieca tempesta Gottfried navigò sempre serbando immacolata la sua tenuta e la sua anima. Trionfò sulla terra di Parigi nel 1934 e nel 1936, sconfiggendo in finale due campioni come l’australiano Jack Crawford, tre quarti di slam l’anno precedente, e soprattutto il solito maledetto Fred Perry, domato ma in realtà dominato in cinque set, due dei quali chiusi dal barone con perentori 6-0.

Giunse infine al primo posto mondiale nel 1937, solo per cadere immediatamente dopo. Quell’incontro famoso e folgorante, divino e drammatico perso il 20 luglio contro Don Budge per 8-6 al quinto dopo aver condotto due set a zero diede ad entrambi l’immortalità ma fu la fine di tutto. Molti e migliori ne hanno descritto lo svolgersi. La breve telefonata di Hitler poco prima dell’inizio, Don che lo attende imbarazzato nel buio corridoio, Tilden in tribuna a tifare Germania. E il fatidico set finale, ceduto da un vantaggio di 4-1. Lo tradì il servizio, il colpo più sicuro.
Il barone lassù non si offenderà se a noi, per puro amor di fiaba, piace pensare che lui abbia perso volontariamente quel match, sacrificandosi in un ultimo sgarbo al regime disumano che insolentiva la terra dei suoi avi. Lo attendevano la prigione, la pubblica gogna e anni di ostracismo ipocrita.

Ma non gli importava più ormai.

Perché tutti sul campo avevano visto, come scrisse John Olliff,  che “Gottfried esprimeva il tennis più brillante che si potesse immaginare. Riusciva ad elevarsi ad un livello che si potrebbe definire perfetto. A tratti faceva apparire Budge come uno arrivato dalle qualificazioni”. Quel 20 luglio 1937 giocò così.

E per farci ulteriormente perdonare l’impertinenza, come commiato finale, facciamo nostre anche le sincere parole con le quali il suo amico statunitense si rivolse al pubblico dell’All England Tennis and Croquet Club dopo averlo battuto nella finale del 1937. “Apprezzo molto la possibilità che mi date di rendere omaggio ad un gentiluomo di grande cuore. Quando verrà il mio turno spero di riuscire a perdere con almeno la metà della cavalleria e della grazia, e con un briciolo della sportività, mostrate dal barone Gottfried von Cramm ieri pomeriggio”.

Di più non ne servono, né lui ne vorrebbe.

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