Davis ’76: “Fu un’impresa, ma l’Italia non lo capì” (Crivelli). L’orologio della Coppa Davis (Azzolini). Una vittoria costruita 10 anni prima a Formia (Bertolucci)

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Davis ’76: “Fu un’impresa, ma l’Italia non lo capì” (Crivelli). L’orologio della Coppa Davis (Azzolini). Una vittoria costruita 10 anni prima a Formia (Bertolucci)

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Davis ’76: “Fu un’impresa, ma l’Italia non lo capì” (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Dopo quarant’anni dopo è ancora uno dei successi più luminosi della storia sportiva azzurra. Ripensandoci, il lustro perenne dell’unica nostra vittoria in Coppa Davis, rende ancora più grande l’impresa di Nicola Pietrangeli, il capitano, e dei suoi quattro formidabili ragazzi: Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli. Perché quella trasferta in un paese che stava vivendo l’epoca drammatica di una feroce dittatura spaccò sul serio l’Italia della politica e rischiò di privarci di una gioia senza tempo.

Pietrangeli, cosa successe dal momento in cui si seppe che la finale era contro il Cile?

Un gran caos, e ognuno pensava di possedere la verità. Panatta, Bertolucci e Zugarelli erano all’estero, così i primi a metterci la faccia fummo io e Barazzutti. Dissi subito che l’eventuale decisione di non giocare sarebbe stata stupida e scellerata, che la politica non poteva fermare lo sport e che trent’anni dopo nessuno si sarebbe più ricordato del Cile e di Pinochet, ma solo della vittoria. E lasciare che sulla Coppa ci fosse il nome di un’altra squadra perché ci eravamo rifiutati di andare là era da irresponsabili. Per questo, se il successo sul campo è stato solo dei ragazzi, io ritengo di non dover dividere con nessuno il merito di aver ottenuto che giocassimo.

Si rischiò davvero di non andare a Santiago?

Le dico soltanto che Galgani, che qualche settimana dopo sarebbe diventato presidente della federazione, continuò a sostenere che se fosse già stato in carica avremmo rinunciato al viaggio. Poi ha passato tutta la carriera a vantarsi di essere stato, tra l’altro, il presidente della Davis.

Alla fine, pesò sulla scelta di giocare anche la considerazione che si trattava di un’occasione irripetibile, visto che l’Italia era nettamente favorita?

Avremmo condotto la battaglia anche di fronte a un pronostico chiuso, perché era una questione di principio. Poi è vero che eravamo molto più forti, ma in ogni caso non l’hai vinta fin quando non l’hai giocata. E, malgrado tutto, non sono mai riuscito a superare l’amarezza di quei giorni. Quello che successe fu una vergogna. Vincemmo la Davis e fummo costretti a tornare di nascosto, senza poter condividere quella gioia. Sportivamente, è stata una delle pagine più belle della nostra storia, ma come paese l’Italia fece una figura pessima.

Però, come lei aveva previsto, ora le polemiche non ci sono più e resta solamente il ricordo di una delle più esaltanti vittorie dello sport azzurro.

Appunto. Oggi si dà solo merito a una generazione fenomenale, che rese il tennis uno sport popolarissimo in tutta Italia. E qualcuno voleva impedirlo. Pazzesco. Quanto a me, le accuse che allora mi sono piovute addosso le lascio scivolare via: pochi sanno, ad esempio, che insieme al Partito Socialista, partecipai ad una manifestazione contro il boicottaggio americano dell’Olimpiade di Mosca. Perché a me dà fastidio che si intrometta la politica, di ogni colore.

Perché quella generazione-Davis e ancora irripetibile?

Perché puoi costruire buoni giocatori, ma il campione è figlio di una botta di fortuna. E nient’altro. Pensiamo agli Stati Uniti e all’Australia, che hanno dominato per decenni: da quella prospettiva, sono messi peggio di noi.

Qual è stata la dote più importante del Pietrangeli capitano?

In campo, saper aprire le bottigliette d’acqua e porgere l’asciugamano dalla parte giusta. Perché un capitano deve fare solo quello: se hai Messi, è inutile dirgli come deve giocare. Fuori dal campo è diverso: devi sapere gestire ragazzi che a un certo punto si credono dio. In Cile dissi loro che avrei parlato solo io: e ho tolto loro ogni responsabilità, isolandoli da una situazione difficile.

A quando la prossima Davis italiana?

Ahimé, mi sa che è un sogno proibito.

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L’orologio della Coppa Davis (Daniele Azzolini, L’Avvenire)

La Coppa fu celebrata con un orologio. Svizzero, di gran marca. Almeno, queste erano le richieste della squadra. Quando chiesero agli azzurri che cosa desiderassero per ricordare, e festeggiare l’impresa, vi fu addirittura una riunione. Alla fine, la decisione venne presa all’unanimità, e fu mandato avanti Adriano Panatta a trattare… Un orologio d’oro, con una scritta e la data della vittoria. 19 dicembre 1976. L’oro in questione non era il frutto di avidità né di una troppo alta considerazione di se stessi, che non erano certo i tratti di quei ragazzi nati da famiglie piccolo-borghesi. Adriano figlio del custode del Tennis Club Parioli, Corrado Barazzutti di un poliziotto, Paolo Bertolucci di un maestro di tennis, Tonino Zugarelli di un operaio che gli aveva insegnato ad accomodare e costruire, cosa che Tonino non ha mai smesso di fare, con quelle sue mani veloci ma prive del pollice destro, lasciato in un qualche lavoro svolto forse un po’ troppo di fretta. L’unico tennista che abbia impugnato la racchetta con quattro dita, e basterebbe questo a dire di che pasta erano fatti. Chissà se qualcuno di loro l’ha conservato, quell’orologio della Coppa Davis 1976, o se la polvere ha finito per occultarlo, come molti degli accadimenti di quei giorni di quarant’anni fa. Quella Coppa la vinse una squadra, una squadra vera, nata con l’idea che la Davis fosse se non tutto, certamente molto, una parte irrinunciabile della loro vita, da condividere con chi li aveva cresciuti fino a farli diventare tennisti veri, e sicuramente anche uomini. E da condividere con l’Italia, se solo qualcuno avesse ragionato in termini strettamente sportivi. Era come un Mondiale vinto nel calcio, e ancora oggi è l’unica vittoria che ha messo l’Italia del tennis davanti a tutti, in uno sport che non ci ha mai concesso dei numeri uno. Ma i Settanta furono anni diversi, se non altro per il fatto che le tante esigenze che si palesavano e si mischiavano fra loro – da un lato la voglia di cambiamento e dall’altro la preoccupazione di chi si chiedeva dove saremmo mai andati a finire – erano pensieri e dibattito quotidiano. Non erano imposte dall’alto, dal mercato, dalla tecnologia, dalla televisione. C’era la libertà di decidere come essere e dove andare, ed era bellissimo sentirsela addosso. Così, alla fine, se riviste con gli occhi degli azzurri, le molte polemiche che portarono l’Italia a un passo dalla rinuncia a giocare quella finale in Cile, a Santiago, sotto gli occhi stessi di Pinochet, dittatore sanguinario, non è difficile comprendere come apparissero fuori luogo. Erano atleti, volevano giocare e vincere e pensavano, con sincerità, che su quella Coppa d’argento il nome da incidere fosse Italia, e non Cile. Insomma, che fosse «più giusto», anche a futura memoria. Eppure aveva senso anche quel «Non si giocano volée con il boia Pinochet» che rese così difficile decidere il da farsi e portò l’Italia a un passo dal «no». Serviva una soluzione politica, come sempre quando le storie si attorcigliano e si rischia il peggio. Lo sbigottimento non è difficile trasformarlo in rabbia, e la rabbia in atti e parole pericolosi. Così stava avvenendo, fra un assalto alla sede della federtennis e telefonate minacciose a Pietrangeli, il capitano, che si spese in cento dibattiti televisivi in difesa del punto di vista «degli sportivi». Adriano Panatta era da settimane negli Stati Uniti, Barazzutti e Zugarelli in Argentina. Furono sfiorati dalla violenza del dibattito, ma non coinvolti. Adriano capì la mala parata quando Bambino, il suo factotum e guarda spalle a Firenze, l’avvisò che in città c’era chi gli avrebbe messo volentieri le mani addosso. Stava partendo, «ok», rispose a Bambino, «avvisali che sarà per un’altra volta, quando torno». L’aspetto curioso, alla fine, fu che quando la decisione politica prese forma, fra mille dibattiti, accuse, cortei, la soluzione fu l’esatta fotocopia del «pensiero sportivo». Fu Corvalan, il capo del partito comunista cileno a inviare una lettera a Berlinguer chiedendogli perché mai il Pci si stesse opponendo. Inviate qui i vostri atleti e i vostri giornalisti, fate in modo che vedano, che scrivano, e che vincano, fu il tono della missiva. Berlinguer capì; Andreotti non chiedeva di meglio, visti anche i contratti in atto fra i due Paesi, quelli sul rame in particolare; e l’Italia partì per il Cile. O meglio, Pietrangeli parti per il Cile. Sotto scorta. Dai voli nazionali, ché in quelli internazionali si temeva vi fossero contestatori. Gli altri si dettero appuntamento a Santiago. E vinsero, com’era normale che fosse. Era la più bella squadra che si potesse immaginare in uno sport che vive di individualismo, e il Cile di Fillol e di Cornejo non era all’altezza. Tre a zero in due giornate, la Coppa alzata dalle magliette rosse di Adriano e Paolo, gli altri intorno a festeggiare, poi in spalla, Belardinelli su tutti, padre tennistico e forse anche di più dei ragazzi. Pinochet non si fece vedere, i giornalisti non scrissero nulla di diverso dalle cronache sportive, e il regime sparpagliò intorno allo stadio un bel po’ di comparse pronte a recitare la parte dei cileni felici nel caso qualcuno avesse voluto sentire la «voce del popolo». Ma a distanza di 40 anni, c’è scritto Italia sulla Coppa. Il tennis entrò nelle case degli italiani, Panatta ne fu il portabandiera, i nuovi borghesi invasero i campi. Racchetta e crescita sociale. Arrivò anche l’orologio, ma non d’oro. Di acciaio. E non di gran marca. «Esagerati, non ci sono soldi da spendere», fu la risposta che ricevettero gli azzurri.

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Una vittoria costruita 10 anni prima a Formia (Paolo Bertolucci, La Gazzetta dello Sport)

Il trionfo di Santiago del 1976 fu il coronamento di un sogno nato dieci anni prima a Formia. Sotto la guida di Mario Belardinelli giocavamo per puro divertimento. Giravamo con pochi spiccioli in tasca ma con tanto entusiasmo e il desiderio di poter indossare la maglia azzurra. Lavoravamo duro, salendo un gradino alla volta. Poi, quasi senza renderci conto, diventammo una vera squadra, equilibrata nei due singolaristi, con un doppio capace di esaltarsi negli scontri più difficili e di uno specialista dei campi rapidi. La svolta fu la sconfitta in Sudafrica, lì capimmo che in pochi anni avremmo potuto puntare al bersaglio grosso. L’occasione si presentò nel ’76 ma per coronare il sogno dovemmo vincere due partite. Quella politica in Italia con il decisivo apporto di Pietrangeli e quella sportiva in Cile con i preziosi suggerimenti di Belardinelli. Alla fine centrammo l’obbiettivo, toccando il cielo con un dito. Ci aspettavamo una diversa accoglienza, al rientro in Italia, ma le polemiche politiche, non ancora sopite, ci costrinsero a un ritorno in sordina, senza riflettori e con pochi amici all’aeroporto. Niente e nessuno comunque ci potrà mai togliere quella gioia e quel titolo e ancora oggi il ricordo di quel giro di campo con la coppa mi procura il più bello dei ricordi.

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