Protagoniste degli ultimi AO. Nel bene e, a volte, nel male - Pagina 2 di 3

Al femminile

Protagoniste degli ultimi AO. Nel bene e, a volte, nel male

Gli ultimi Australian Open hanno offerto molte storie differenti: tre statunitensi in semifinale, il ritorno di giocatrici che sembravano perse per il tennis, le difficoltà di quasi tutte le top ten. E altro ancora

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Ashleigh Barty
Negli ultimi Australian Open non c’è stato solo il ritorno di Mirjana Lucic. Altre giocatrici sono state protagoniste, dopo aver passato stagioni difficili, o addirittura dopo avere abbandonato il tennis.

Ashleigh Barty ha in parte seguito il percorso di ascesa e crisi che dagli anglosassoni viene definito come “burn-out”. La storia del tennis ne ricorda più di uno; vicende di giocatrici che sembrano avere davanti a sé una carriera luminosa, e invece si bruciano precocemente: l’eccesso di aspettative porta a non reggere la pressione, e a ritirarsi molto presto.
È accaduto ad Andrea Jaeger nel passato, o a Rebecca Marino più di recente. Altre tenniste si sono ritirate, ma hanno poi provato a rientrare; a volte con esiti sfortunati (come per Nicole Vaidisova) altre volte con più successo (come per Jennifer Capriati e Timea Bacsinszky).

Barty si era messa in luce nel 2011 vincendo ad appena 15 anni Wimbledon junior e poi nel 2013 tra le adulte arrivando tre volte in una finale Slam di doppio in coppia con Casey Dellacqua. Non altissima (1,66) ma con un bel servizio e un gran dritto, aveva mostrato di non essere una qualunque: in campo dava la sensazione di possedere una estrema facilità nel compiere tutti i gesti; non solo nel colpire, ma anche nel coordinarsi e “trovare” la palla. In sostanza: un superiore talento fisico-tecnico.

Eppure nel 2014 aveva spiazzato tutti dichiarando che si sarebbe fermata a tempo indeterminato, per mancanza di motivazioni e piacere nel gioco. L’anno successivo era passata al cricket, spiegando che lo apprezzava perché in uno sport di squadra si possono condividere con le compagne i momenti difficili e provare a superarli insieme.
Il ritorno al tennis risale alla metà del 2016, e grazie a una wild card agli Australian Open 2017 ha preso parte al suo primo Slam post-rientro, arrivando subito fino al terzo turno. La strada per confermare le grandi aspettative è ancora lunga, ma i primi passi sembrano incoraggianti.

Sorana Cirstea
Le ultime stagioni di Sorana Cirstea sono state una lotta contro i problemi fisici che le hanno impedito di giocare con la necessaria continuità. All’inizio del 2014 comincia ad affliggerla un problema alla spalla; Sorana prova a fermarsi, poi a cambiare racchetta, ma in sostanza non può né competere né allenarsi regolarmente. Un lungo periodo di sconfitte la fa scendere dal numero 22 del mondo a oltre il centesimo posto.
Nel febbraio 2015 si deve fermare ancora per due mesi, poi riprende a fatica, ma continua a perdere; la classifica langue, ed è costretta al limbo delle qualificazioni per accedere agli Slam: la condizione è sempre approssimativa e per tre volte consecutive fallisce l’accesso al tabellone principale dei Major.

Nell’ottobre 2015 si frattura l’alluce del piede sinistro e deve fermarsi di nuovo: alla fine dell’anno è scesa addirittura al 244mo posto, una posizione inconcepibile per una tennista del suo talento, che non le permette nemmeno più di prendere parte alle qualificazioni Slam. Nel 2016 è costretta a ripartire dai tornei ITF: vince tanti match, e progressivamente recupera classifica e condizione. Ma occorrono mesi nei tornei di retroguardia prima di poter rientrare con un minimo di stabilità nel circuito maggiore e chiudere l’anno ottantunesima.

Il quarto turno raggiunto agli Australian Open 2017 è stato il risultato di un faticoso percorso di ricostruzione, che si spera non sia complicato dal ritiro della scorsa settimana nel torneo di Taipei per problemi al polso. Ho seguito Sorana nei match di Melbourne e a me è sembrato che avesse ancora margini di miglioramento rispetto al suo periodo migliore (finale a Toronto del 2013) quando la palla viaggiava con maggiore incisività. Vedremo cosa saprà fare se la salute l’assiste.

Mona Barthel
Da quando si è ritirata Li Na, considero quello di Mona Barthel come uno dei più eleganti, se non il più elegante, rovescio bimane del circuito femminile. Estremamente fluido, colpito senza sforzo e con precisione e naturalezza assolute, tanto da produrre un suono così pulito che solo dal vivo si può apprezzare in pieno.

Come Sorana Cirstea, anche Barthel ha sofferto di gravi problemi fisici che le hanno compromesso la stagione scorsa. Dopo aver terminato il 2015 con la finale a Linz e il 44mo posto nel ranking, comincia il 2016 in sordina: sente di avere qualche malessere, ma si fa forza e intraprende la trasferta australiana. Di ritorno dal primo Slam la situazione peggiora drasticamente: fatica ad allenarsi, ed è sempre stanca. Si sottopone a esami di controllo, ma i medici non riescono a capire che cosa abbia veramente.

Senza una reale spiegazione, si trova a passare nel giro di qualche settimana dall’avere la condizione fisica di un’atleta professionista a quella di chi non ha la forza per camminare per una decina di metri senza avere le vertigini e doversi fermare a riprendere fiato.
Alla ricerca di una diagnosi che spieghi di cosa soffre, Mona va in giro per la Germania; arriva a rivolgersi anche a un ospedale di Amburgo con esperti di malattie tropicali, ma senza che si riesca a individuare il problema. La esaminano “dalla testa ai piedi”, come ha raccontato, ma non se ne viene a capo. A un certo punto a causa di una diagnosi errata corre il rischio di dover subire anche un’operazione inutile, sospesa all’ultimo momento.

Anche se non ha febbre, le cose peggiorano ulteriormente, e si riduce a dover passare sette settimane a letto. Ormai la prima preoccupazione non è più tornare a giocare a tennis, ma semplicemente guarire, essere di nuovo una persona sana. Non si riesce a identificare con precisione la sua malattia, ma i medici concludono che dovrebbe essere qualcosa di virale, con una infiammazione diffusa ai muscoli. E finalmente Mona comincia progressivamente a riprendersi; nel frattempo sono passati i primi quattro mesi dell’anno.

Solo in maggio può ricominciare cautamente ad allenarsi, ma recuperare da una situazione del genere non è facile, né rapido. Quando torna a competere le sconfitte si susseguono. Dopo tutto quello che ha passato, si capisce perché alla fine del 2016 il suo ranking fosse crollato al numero 183. La posizione la obbliga dopo molti anni a dover giocare la qualificazioni per entrare nei tornei WTA del 2017: Auckland, Sydney e anche gli ultimi Australian Open.

Barthel però a Melbourne dà chiari segni di ripresa: vince due set a zero tutti e tre i match di qualificazione, e arriva sino al quarto turno del tabellone principale, fermata 6-3, 7-5 da Venus Williams. Nell’intervista a bordo campo al termine del terzo turno, vinto contro Ashleigh Barty, dice di sentirsi un po’ stanca per le tante partite giocate nell’ultima settimana, ma estremamente felice di essere tornata a competere in un grande palcoscenico. Qualche giorno fa ha raccontato la cosa che l’ha colpita di più di quella sera: non solo giocare, e vincere, nella Rod Laver Arena, ma alzare gli occhi a fine match e incrociare lo sguardo con la leggenda del tennis a cui era intitolato lo stadio.

a pagina 3: le mancate conferme delle Top 10

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