Ridateci le ragazze (Azzolini). Schiavone: "Ultimi match poi volo in America" (Azzolini)

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Ridateci le ragazze (Azzolini). Schiavone: “Ultimi match poi volo in America” (Azzolini)

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Ridateci le ragazze (Daniele Azzolini, Avvenire)

Ora dicono che il tennis italiano al femminile è finito. Hanno atteso che Sara Errani e Francesca Schiavone accompagnassero la squadra di Fed Cup nell’ultimo viaggio, e sono lì a versare lacrime, per vedere l’effetto che fa. Nessuno, a quanto pare. L’Italia del «te l’avevo detto io» stavolta, aveva semplicemente dimenticato di dirlo. Giusto qualche sparuta Cassandra, subito tacciata di opportunismo antipatriottico. Ed erano tempi lontani, quando la squadra delle meraviglie, quattro Coppe in cinque finali, aveva cominciato a mostrare i primi segni di un invecchiamento nemmeno tanto precoce. Ora, la sconfitta con la Slovacchia conta fino a un certo punto, e tutti sapevano che prima o poi sarebbe arrivata. In campo sono andate una Errani stanca e mezza infortunata e una Schiavone che ha annunciato il ritiro entro la fine di questa stagione. RobertaVinci ha declinato l’invito, ma anche lei è al giro d’onore; Flavia Pennetta aspetta un figlio. Fine di una squadra. Camila Giorgi ha rotto con la federazione e Karin Knapp ha così tanti problemi fisici che la metà basterebbe. Fine di un ciclo. Le ragazze più giovani stanno cercando di crescere, ma sono in ritardo, molto in ritardo. E anche la fine di una speranza? Aspettiam. La nuova capitana di Fed Cup, Tathiana Garbin, ne ha raccolte due per strada, Jasmine Paolini e Martina Trevisan e le ha provate in doppio, ma a risultato già favorevole alla Slovacchia. Molte altre da provare non ce ne sono, ma qualcuna sì. E da crescere, seppure al momento nei drcuiti minori. Garbin ha dichiarato che fra cinque anni avremo di nuovo una squadra per vincere. Difficile capire da dove tragga tanto entusiasmo, ma è un bene che almeno lei ce l’abbia. In realtà, le cose potrebbero andare diversamente, perché il materiale a disposizione non è molto e fra di esso non sembra abbondare il talento, e nemmeno i muscoli che servirebbero. Ma non è detta. Intanto c’è una buona notizia, giunta dal sorteggio, si tratta del match per evitare una seconda caduta, dopo quella dalla serie A alla serie B (l’anno scorso) della Coppa. Finire in C davvero non darebbe slancio al movimento, ma si cercherà di evitarlo battendo Taipei, la più facile fra le possibili avversarie nell’urna. Facile? Si, lo è, ma per battere Taipei potrebbero non bastare le ragazze sulle quali la capitana punta per rinverdirei fasti del nostro tennis femminile. Sono ancora prive di esperienza, e non sono nemmeno troppo ragazzine. La Paolini ha 20 anni (213, in classifica), la Trevisan 23 (230). La prima diciottenne della lista si chiama Federica Bilardo, ed è numero 822. Servirà attingere ancora dal reparto “Campionesse a Lunga Conservazione”. Una vittoria nasce dai giocatori; dallo staff con cui lavorano. E solo da essi. Una vittoria non è del circolo, della federazione, del Coni, e nemmeno dell’Italia. Può far piacere a ognuna delle parti appena nominate, ma è un altro discorso. E lo stesso vale per una sconfitta, anche per quelle in Fed Cup. E il contesto in cui vittorie e sconfitte prendono forma, semmai, ad avere più elementi determinanti o più mani compromettenti. Ora, in Italia, le federazioni fanno molte cose, e non hanno mai rinunciato a ritenere il professionismo un terreno su cui esercitare la loro sovranità. Giusto o sbagliato che sia – vi sono ingenui, a questo mondo, che ritengono più utile portare i piccoli allo sport, sottoscrivere accordi con il territorio e con le strutture scolastiche, e più in generale non rartecipare al benessere di una nazione e contribuire alla Sanità nazionale – se la scelta è quella di occuparsi di sport professionistico, la stessa struttura federale dovrebbe adeguarsi alla bisogna, scegliere grandi professionisti, elaborare con loro le opportune strategie, affidarsi a manager che sappiano colloquiare con gli attuali giocatori-azienda e produrre risultati nei vari campi d’intervento. Ma questo non avviene, e non è avvenuto (per il domani c’è sempre speranza). Nel tennis, i migliori tecnici italiani lavorano all’estero, tranne pochissimi; mentre altri, magari altrettanto bravi che hanno scelto l’Italia, non hanno materiale umano a disposizione per crescere ai livelli che il profssionismo impone. La stessa Francesca Schiavone si trasferirà in America a insegnare tennis. Da noi non ha trovato quello che cercava ed è un peccato. La nostra squadra delle meraviglie e’ cresciuta all’estero, quasi tutta. Ma nei confronti della maglia azzurra ha avuto un amore sconfinato. La prima Fed Cup l’ha vinta nel 2006, a seguire sono giunte tre vittorie e una finale, cinque finali Slam e due trofei. Le bambine che si sono innamorate del tennis grazie ai loro successi, a far data dal 2006, dovrebbero avere oggi dai 15 ai 18 anni. Ma sono poche, troppo poche. Le presenze sui campi sono aumentate (dicono), ma non c’è stato l’assalto al tennis, le bambine non hanno tirato i loro padri per la giacca. Forse, Flavia e Roberta, Sara e Francesca potevano diventare il veicolo di grandi campagne di comunicazione, forse occorreva creare grandi opportunità per ognuna di loro, in modo che in ogni tivù venisse replicato il bel messaggio di cui sono portatrici. Forse servivano accordi per indurle a diventare le testimonial del nostro sport. Forse potrebhero ancora esserlo se si dà loro il modo di farlo. Forse

 

Schiavone: “Ultimi match poi volo in America” (Daniele Azzolini, Avvenire)

Francesca Schiavone lascia l’Italia. Non subito. Non definitivamente. Ma fra un po’ se ne andrà negli Stati Uniti, a Miami, dove ha una casa. E insegnerà ai ragazzi americani. Accadrà il giorno dopo l’addio al tennis giocato, fissato per la fine di questa stagione, più o meno. I talenti italiani se ne vanno, non solo dalle università. Anche dal tennis. Perché l’America, Francesca? «È un contesto che mi affascina. Cerco un posto abituato a dare meriti a chi ne ha, in cui le capacità vengano riconosciute, dove non vi sia volontà di distruggere ma di apprezzare. Provate a considerarla una sfida, e neanche facile, temo». Sempre sfide, non smetterà mai vero? «Mai. Ho ancora voglia di investire su me stessa, di misurarmi con quello che so fare. Sentirmi inappagata fa parte del mio bagaglio. Gioco bene e penso che posso fare meglio. Vinco e mi dico, fallo ancora. È uno stimolo forte, spero non mi abbandoni mai». Che cosa porterà con sé in America? «La mia Italia. La mia creatività». Difficile da insegnare, la creatività. «I ragazzi americani hanno basi solide, ma non sanno spingersi oltre. Io posso aiutarli, penso di poter diventare una buona insegnante, lo faccio con piacere e disinvoltura. L’America può darmi le risposte che cerco». E l’Italia no? «Ma io all’Italia non rinuncio. La amo troppo. E tomerò di continuo. Farò cose anche qui, se qualcuno me le proporrà». Nel tennis di oggi, così caratterizzato dalla supremazia muscolare, lei ha dato un volto d’altri tempi: la qualità nella costruzione di un match e la gioia del gioco… «Mi capita di dare qualche consiglio alle più giovani. Ci sono cose che si possono insegnare: costruire un match è una di queste, saper scegliere il momento di variare il gioco, lo schema con cui si è cominciata una partita. L’esempio è banale, ma ci sta… Se non sai metterti in discussione, non puoi cogliere il momento utile per cambiare tattica di gioco. La gioia invece fa parte delle motivazioni che uno o ce l’ha dentro, o davvero non si possono costruire. Difficile insegnarle, impossibile imporle. Però, è vero, mi sono divertita da matti a giocare a tennis. Con tutta me stessa». Che cosa rappresenta, per lei, quest’ultima stagione. Un giro d’onore? O ha ancora qualche voglia di vittoria? «Nessun giro d’onore, sarebbe sciocco. Io a vincere qualcosa non ho ancora rinunciato. So da me che trentasei anni non sono pochi, ma mi alleno sempre con grandi stimoli, e non sono del tutto convinta che, se si dovesse presentare una di quelle settimane in cui tennis e stato fisico vanno di pari passo, io non possa togliermi ancora delle soddisfazioni. In ogni caso, ci proverò fino all’ultimo».

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