Niente scherzi, Jo. Goffin dovrà confermarsi, Pliskova potrà affermarsi

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Niente scherzi, Jo. Goffin dovrà confermarsi, Pliskova potrà affermarsi

Tsonga vince a Rotterdam e lascia intendere di star pensando alla fine della sua carriera. Goffin in top 10, difficile potrà rimanerci a lungo. Pliskova invece promette grandi cose

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“Sono alla fine. So che non mi manca ancora molto”. Ha risposto così Jo-Wilfried Tsonga a Rotterdam, a chi gli chiedeva in che punto della propria carriera si sentisse. Lo ha fatto con il sorriso che gli è tipico, quasi scherzandoci, come se non fosse nulla di troppo grave per lui: e il suo gioco è sembrato andare di pari passo, sereno, fluido, anche quando in semifinale ha incontrato Tomas Berdych con cui era in svantaggio 3-8 nei precedenti. Un break per set e via fino all’ultimo atto, senza concedere opportunità di replica; tranquillo, leggero, tanto da limitare anche la sua tipica esultanza da pugile a fine incontro (“A volta semplicemente non la faccio”). Ha anche cercato di tranquillizzare gli animi nelle conferenze stampa successive, in cui ha segnalato che sì, lo ha detto, ma “so che ci vorrà ancora un po’. Diciamo che sono nelle ultime fasi, mi manca ancora del tempo e spero il momento arriverà più tardi possibile”. E quando arriverà, il circuito perderà un personaggio estremamente positivo, sempre disponibile e solare: mai ombroso durante le interviste, mai nervoso durante i suoi match. Anche oggi durante la finale, dopo un inizio stentato e un po’ indolente, ha ripreso la sua verve consueta, nutrendosi dell’affetto e degli incitamenti che la folla di Rotterdam gli forniva, un po’ per simpatia, un po’ per genuino desiderio di avere un incontro combattuto. In un torneo che aveva già incassato il durissimo colpo dei ritiri di Wawrinka e Nadal (rapidissimi gli addetti ai lavori a cambiare i cartelloni pubblicitari da un giorno all’altro), l’ultimo atto rischiava di diventare un monologo belga, quando Goffin si trovava a disposizione una palla break in avvio di secondo parziale, dopo aver vinto il primo. Servizio e dritto hanno cavato Tsonga dalla fossa, facendogli riprendere via via fiducia e incisività nei colpi e nel body language, riportandolo a saltellare come quell’ex campione del ring a cui somiglia. Sempre vivo, sempre attivo, sempre giustamente destinatario della stima e dell’apprezzamento di colleghi e tifosi.

Ha passato il Natale a Dubai, guardacaso in compagnia di Goffin, insieme anche a Pierre-Hugues Herbert, semifinalista sconfitto dal belga. La sincera confidenza del franco-congolese è emersa dallo splendido gesto a fine gare, quando durante i saluti verso le tribune ha indicato lo stesso David, per poi rivolgergli un applauso bonario. Lui finalista in Australia nel 2008, inchinatosi al primo trionfo down under di Djokovic, ha limitato le celebrazioni al minimo, pur girandosi verso ciascun lato del campo con una maschera di serena soddisfazione. È il suo tredicesimo alloro, il secondo in un 500 dopo Tokyo 2009 (battè Yhouzhny): spiccano i Masters 1000 vinti in Canada con Federer tre anni fa e a Parigi Bercy nel 2008, per quanto non sia mai stato il suo palmarès a fargli guadagnare il valore che ha come persona. Una personalità piacevole, alla mano anche con la stampa, assolutamente necessaria a questo mondo. Del tutto in contrasto con la timidezza di David Goffin: in una settimana in cui era riuscito a interrompere la maledizione di Rotterdam (era 0-3 in carriera, con un sonoro 0-6 0-6 inflittogli dal pensionato Nieminen nella sua prima partecipazione), l’incantesimo di Dimitrov (mai battuto nei precedenti tre incontri) e a sgretolare il muro della top 10, il belga ha fallito la missione più importante. Resta infatti aperta la striscia negativa in finale, che va avanti da ormai tre anni (sei perse consecutive, l’ultima vinta è stata Metz nel 2014, per il suo secondo titolo), così come ancora vuoto il sacco degli ATP 500 (0-39); il belga, prossimo avversario dell’Italia in Davis ad aprile (“Ci sarò”, ha perentoriamente risposto durante la settimana), potrà comunque ricordarsi di questi sette giorni disputati su ottimi livelli. Pericolosissimo con il rovescio, insidioso in risposta dove ha messo in mostra tempi di reazione impressionanti, Goffin potrebbe candidarsi a mina vagante nei prossimi tornei che contano, ma dovrà dimostrare di essere pronto anche mentalmente: “È solo un numero” ha affermato quando interrogato sull’ingresso nel gotha del ranking, ma i cali di tensione come quello in cui è incappato dopo aver vinto il primo set in finale non sono all’altezza, di quel numero. Un conto è arrivare in top 10, un altro e restarci.

Sicuramente candidata a restarci è Karolina Pliskova: la tatuata ceca si è rivelata più forte anche del maltempo che ha falcidiato il torneo di Doha, autentico caso di tempesta nel deserto. L’orario di gioco è stato continuamente stravolto, quarti e semifinali hanno visto gli archivi nello stesso giorno, e anche l’incontro decisivo è stato fortemente influenzato dal vento. A farne le spese è stata Caroline Wozniacki, che dopo la sua chiacchieratissima apparizione sull’ultimo numero di Sports Illustrated Swimsuit pare sia tornata a buoni livelli di competitività: lontane quindi le sofferenza d’amore e le discussioni (per quanto sempre dietro l’angolo) con il padre Piotr per il dominio della sua panchina, sarà interessante vedere se l’esplosività atletica dimostrata in Qatar resterà integra anche nei confronti sui palcoscenici importanti di marzo. Pliskova ha invece confermato di essere ormai nella fase ascendente del salto sul trampolino, con i suoi colpi piatti, potentissimi e apparentemente per nulla faticosi. La naturalezza del gioco di Karolina può essere un punto di forza importantissimo: l’assalto ad un titolo Slam sembra onestamente tutt’altro che impossibile, considerando l’ormai costante inconsistenza della Muguruza e l’assenza di alternative che non siano meteore.

A proposito di meteore: hanno vinto un torneo Ryan Harrison e Alexander Dolgopolov. Il primo, l’eterna promessa, il ragazzetto sule copertine troppo presto, schiacciato dal peso di un’etichetta troppo massiccia. Lo statunitense ha sempre convissuto con una patria eccessivamente feroce nella ricerca di nuovi protagonisti, con Andy Roddick che già era in fase calante e le ormai sottilissime ombre del ricordo di Andre Agassi e Pete Sampras. Messo sotto contratto giovanissimo dalla marca dello swoosh, come il suo conterraneo e sfortunato emulo Donald Young, non è mai stato capace di seguire il percorso che i più gli auspicavano: è però finalmente riuscito a sovvertire una carriera fatta di parole non mantenute e sogni infranti portando a casa il suo primo trofeo, a Memphis, dove proprio Roddick vinse invece il suo trentesimo torneo  (con l’ormai celebre match point in tuffo contro Raonic). In finale ha sconfitto il georgiano Basilashvili, disordinato picchiatore che con ogni probabilità non otterrà mai nulla (fu lui ad essere battuto nel match valido per il titolo da Paolo Lorenzi a Kitzbuhel lo scorso anno, quando il senese sollevò il suo primo pezzo di cristalleria). Quasi sicuramente rimarrà un acuto che al massimo potrà essere accompagnato da vittorie di pari livello. A Buenos Aires ha trionfato il desaparecido Alexander Dolgopolov: l’estro dell’ucraino ha mandato in crisi la regolarità geometrica di Kei Nishikori: curiosa la scelta del giapponese di rinunciare al duro americano per dedicarsi ai polverosi campi in rosso di Argentina e Brasile. Dolgopolov ha confermato di aver passato tre anni durissimi, quelli dall’ultima finale (persa a Rio de Janeiro contro Nadal): bello rivederlo a buoni livelli, la sua imprevedibilità è sempre stata di giovamento al circuito. Il Dolgo soffre di una particolare malattia denominata sindrome di Gilbert, che interviene sul fegato e sulla pressione sanguigna: ne consegue fatica e disturbi successivi ai lunghi viaggi (cui è costretto ad effettuare on tour), la sua dieta ne è condizionata e lamenta problemi di sonno. Queste difficoltà ne hanno chiaramente minato il rendimento, costringendolo al ruolo di comprimario altalenante. Fa sempre piacere però gioire in campo: perché un conto è arrivare al cuore degli appassionati, un altro è restarci.

 

 

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