Cambio idea, non Dolgo il disturbo. Ma nessuna illusione

Al maschile

Cambio idea, non Dolgo il disturbo. Ma nessuna illusione

A Buenos Aires il circuito ATP si è riconciliato con l’estro di Aleksandr Dolgopolov. Si può dire finalmente?

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Al maschile: il focus sul circuito ATP

Nelle stesse ore in cui i puristi del pallone – e segretamente anche i fanatici del risultato finale – hanno applaudito (l’ideale di) Zeman per aver ritrovato la vittoria, Aleksandr Dolgopolov è tornato a sollevare un trofeo dopo cinque anni, a tre anni quasi esatti dall’ultima finale disputata a Rio de Janeiro. Il 28enne di Kiev era un po’ scomparso dai radar del tennis che conta, quello che si gioca dal venerdì alla domenica. Nel 2016 ben sette sconfitte al primo turno e appena una semifinale raggiunta ad Acapulco. Forse l’ultimo colpo battuto dall’ucraino risaliva a Cincinnati 2015, quando avanti 5-4 nel tie-break del secondo set i due servizi per chiudere la semifinale contro Djokovic si erano tramutati in altrettanti errori banali. L’ultimo colpo prima della settimana perfetta a Buenos Aires: nessun set concesso, appena tre turni di servizio lasciati per strada, una tenuta mentale inaspettata per aver ragione di Kei Nishikori in finale. Il titolo argentino è il terzo conquistato in carriera (il secondo sulla terra) a fronte di sette finali giocate. Quello della svolta? Con ancora negli occhi la rinascita di Grigor Dimitrov qualcuno potrebbe cascarci, credere che Oleksandr (il suo nome originario, poi rabberciato per distinguerlo da quello del padre ex tennista) abbia intenzione di cambiare rotta e mettere i risultati davanti al suo tennis.

Difficile. Esiste il tennis costruito per vincere e poi esiste la racchetta di Dolgopolov. Quell’ovale la cui ombra non esce mai fuori dal rettangolo di gioco disegna uno sport in cui il successo è più che altro un incidente di percorso. Le geometrie non strizzano l’occhio all’obiettivo di fare punto, semplicemente si compiacciono di essere tali, imprevedibili, vivono la passione egoistica di non avere fratelli in giro per il mondo. Il rovescio di Djokovic è ad esempio un colpo di incredibile pulizia, efficacia e compostezza. Si trascina dietro una sicurezza costruita in anni di meticoloso allenamento, un’esecuzione certamente straordinaria. Ma lascia la sensazione di essere la versione perfezionata, la summa ideale dei rovesci in dote ai comuni mortali. Il passante di Dolgopolov è invece la decisione di un attimo, l’istinto che si traduce direttamente in traiettoria senza essere filtrato da una gabbia di schemi e condizionamenti tattici. Si fa ovviamente fatica a credere che la costanza d’allenamento di Dolgo sia in qualche modo paragonabile a quella del serbo, ma va anche detto che il suo tennis è meno “allenabile”. Poggia sul talento, ed è chiaramente carente nell’abilità di ponderare la scelta del colpo migliore da eseguire, in questo caso una scelta di esclusiva pertinenza dell’istinto. Va da sé che nell’arco di una settimana raramente l’estro puro dell’ucraino può riuscire a superare indenne la brutale tagliola dei regolaristi, quasi mai presenti in numero inferiore a tre nel percorso verso una qualsiasi finale. Quando accade è una circostanza, certo piacevole, ma pur sempre una circostanza. Che non potrà mai diventare la regola.

Questo non significa non poter contare mai su Dolgopolov. Per il semplice fatto che l’ucraino pratica un tennis che sta in uno spazio temporale inferiore a quello di quasi tutti i suoi colleghi, e quando le sue offensive prendono il campo più di una volta su due per l’avversario sono sempre dolori, chiunque esso sia. L’ucraino unisce una velocità di braccio che semplicemente non può avere eguali nel circuito a una posizione in campo peculiare, piedi piantati sulla linea, dalla quale intercetta i colpi avversari sempre in fase ascensionale, per sfruttarne l’inerzia e restituirla raddoppiata. Quando Dolgo anticipa il rovescio lo fa rubando un istante ai tempi di gioco, non si accomoda mai sul ritmo della partita. Ok, non è certo l’unico a praticare un gioco d’incontro, ma è quello che meglio sa sfruttare queste caratteristiche per produrre accelerazioni da qualsiasi zona del campo. Questo ovviamente alza vertiginosamente il coefficiente di difficoltà delle sue esecuzioni e azzera il margine. Tutto o niente, dentro o fuori. Ma quando è dentro, soprattutto considerando la quasi totale assenza di indizi sulla direzione del colpo che si sta per scatenare, la possibilità di difendersi è prerogativa di pochi eletti. Quei Djokovic (scontri diretti 0-5), Murray (0-3) e Federer (0-3) che infatti Aleksandr non ha mai battuto in carriera, ed è forse questo l’indizio che restituisce maggiormente il valore di un giocatore che ha sì concluso le stagioni 2011 e 2012 tra i primi 20 del mondo, ma si è spinto solo una volta oltre gli ottavi di finale di uno Slam, a Melbourne 2011.

Il tennis non dovrebbe però chiedere a Dolgopolov di trasformarsi in un vincente. Questa è un’ossessione che accompagna più che altro i fanatici che – va riconosciuto, è parecchio semplice – si innamorano del suo modo irregolare e imprevedibile di utilizzare la racchetta. E vorrebbero vederlo trionfare, ergere la sua singolare versione dei fatti al di sopra di ogni regolare successione di diritti, rovesci, che non sempre strappano applausi ma sono efficaci per restare in partita. Quelli però sono i colpi che ti fanno vincere. Aleksandr non ne possiede o non ha mai voluto impararli, convinto che a tennis si debba giocare in un solo modo: l’avversario non deve toccare la pallina quando il gioco lo comanda lui. Certo nessuna illusione di vederlo mordere trofei di prestigio, ma tutti i pronti a godere di ogni eventuale spettacolo. Di tanto in tanto, così non ci si abitua.

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