Garbiñe Muguruza e la terra di nessuno

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Garbiñe Muguruza e la terra di nessuno

Alcune ragioni per cui la vincitrice dell’ultimo Roland Garros è una giocatrice più interessante da seguire di quanto potrebbe sembrare a prima vista

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Ricordo bene la prima volta in cui ho pensato che Garbiñe Muguruza avrebbe vinto uno Slam. Anzi, per essere preciso (e sincero) fino in fondo, dovrei scrivere: la prima volta in cui ho temuto che Garbiñe avrebbe vinto uno Slam.
Temuto era la parola giusta. Avevo già seguito Muguruza in diversi match e non mi piaceva molto: schematica, ripetitiva, senza grandi variazioni sul piano tecnico e tattico. Eppure così convinta dei suoi mezzi, tanto da non mostrare alcun timore reverenziale nei confronti di qualsiasi avversaria: una sensazione di sicurezza così forte da diventare spavalderia, anche se non c’erano particolari gesti che la comunicassero esplicitamente. Era l’insieme: una sicurezza che lasciava intendere che prima o poi avrebbe realmente ottenuto il grande traguardo.

Quella prima volta risale agli Australian Open 2014: allora Muguruza aveva appena compiuto vent’anni (è nata l’8 ottobre 1993) ed era reduce da uno stop di sei mesi per una operazione alla caviglia. Il rientro agonistico coincideva con il nuovo anno, che aveva iniziato da numero 64 del ranking, ma era chiaro che la sua classifica era ampiamente sottostimata a causa della mezza stagione di inattività.

Già allora era un osso duro anche per le prime del mondo. Fresca vincitrice a Hobart, in quegli Australian Open Garbiñe aveva battuto al primo turno la testa di serie numero 24 Kaia Kanepi, poi al terzo turno la numero 10 Caroline Wozniacki risalendo da uno svantaggio di un set (4-6, 7-5, 6-3). E proprio durante quel match ho iniziato a pensare di avere di fronte una potenziale “slam winner”.

Nemmeno la netta sconfitta negli ottavi contro Radwanska (6-1, 6-3) mi avrebbe fatto cambiare idea. Anzi, ricordo di aver pensato con una punta di amarezza che c’erano più possibilità che in futuro il Major lo avrebbe vinto quella giovane spagnola rispetto alla eterna (?) incompiuta Agnieszka. Eppure quella era una Aga ispiratissima: avrebbe sconfitto nei quarti la bi-campionessa in carica Azarenka (6-1, 5-7, 6-0 in una giornata di caldo terribile) grazie a quello che forse è stato il miglior match della sua carriera, prima di pagare lo sforzo in semifinale, affrontata senza giorno di riposo, contro Dominika Cibulkova. Ma tra Muguriza e Radwanska la scelta non poteva cambiare perché era basata su una evidenza incontrovertibile: una questione di “cilindrata”. Troppo superiore Garbiñe in potenza e forza fisica per non avere il futuro dalla sua.

Non racconto tutto questo per vantarmi di una sensazione che poi si è avverata, quanto piuttosto per cercare di spiegare come a volte i punti di vista possono cambiare: sia perché i giocatori evolvono, sia perché si conoscono più in profondità. A me è successo con il tempo nei confronti di Garbiñe Muguruza: non mi piaceva all’inizio, e invece oggi la trovo una giocatrice molto più interessante. Sostanzialmente per due ragioni: una caratteriale, e una tecnica.

Questione caratteriale. Dopo il periodo degli esordi nel circuito, condotto con quella sicurezza che probabilmente era figlia dello slancio iniziale e della condizione di chi ha nulla da perdere, Muguruza ha rivelato un’indole differente: meno tetragona e spavalda, ma più ondivaga e imprevedibile; a volte perfino testarda e capricciosa. Al punto tale che se non è dell’umore giusto e non si trova d’accordo con l’allenatore, può capitare che si schieri più contro di lui che contro l’avversaria di turno. Ecco ad esempio un suo dialogo a Doha 2016, durante un coaching:

Sam Sumyk (l’allenatore) le chiede di migliorare al servizio e Muguruza ribatte: “Ci sto provando. Piuttosto dimmi qualcosa che non so”.
Sumyk: “Mah, sembra che tu sappia già tutto”.
E Garbiñe: “Certo”.
Allora Sumyk cerca di spronarla: “Hai un’avversaria che è disposta a morire per ogni palla: bisogna fare lo stesso”.
E lei: “Io no”.
“Provaci”.
“Io non sono disposta a morire per la palla. Io no”.
Quel giorno Garbiñe avrebbe finito, naturalmente, per perdere 6-1, 5-7, 6-2 da Andrea Petkovic. Ma tre mesi dopo, al Roland Garros, il Major più fisico e faticoso, avrebbe vinto lo Slam, superando in finale la campionessa in carica Serena Williams.

a pagina 2: Le particolarità tecniche di Muguruza

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