Focus USA: Venus Williams, i 30 sono i nuovi 20

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Focus USA: Venus Williams, i 30 sono i nuovi 20

A quasi 37 anni suonati, la leggendaria campionessa americana sta vivendo una delle migliori stagioni degli ultimi anni. Uscita finalmente dal bunker della sindrome di Sjögren, potrebbe portare a casa un altro Wimbledon prima della fine carriera. Fine che, a detta di Venus, è ancora molto lontana

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Finale a Melbourne, quarti ad Indian Wells, semifinale a Miami, un bilancio di 14 vittorie e 5 sconfitte e quinto posto nella race. Questa è Venus Williams versione 2017. Grazie ad una ritrovata continuità sia a livello di gioco sia a livello di risultati negli appuntamenti più importanti, la campionessa americana sta inaspettatamente ritornando nel lotto delle primissime giocatrici del mondo dopo cinque o sei stagioni vissute quasi da comprimaria, ad eccezione di qualche sporadica settimana in cui solamente a sprazzi siamo riusciti ad ammirare la pantera degli anni d’oro.

Dopo la famosa diagnosi relativa alla sindrome di Sjögrens – una malattia infiammatoria cronica su base autoimmune che l’ha fatta addirittura precipitare al numero 102 del ranking a fine 2011 – la risalita è stata durissima e rappresentata da un lungo e tortuoso percorso di stabilizzazione atletica e psicologica. Al fine di gestire i sintomi, l’affaticamento e gli squilibri causati dalla malattia, Venus ha dovuto cambiare completamente stile di vita: dall’alimentazione, ai programmi di allenamento, ai tempi di recupero psico-fisico. Certo che le cose sembravano essersi messe davvero male: alzi la mano chi non ha pensato che Venus potesse davvero appendere definitivamente la racchetta al chiodo dopo averla vista perdere 6-1 6-3 da Elena Vesnina al primo turno di Wimbledon 2012, oppure dopo l’infortunio alla schiena che l’ha perseguitata per gran parte del 2013. Eppure la campionessa americana ha stretto i denti dichiarando spesso che per lei non era importante vincere o perdere un particolare incontro, ma la cosa davvero importante era riuscire a scendere in campo ogni giorno, dare il meglio di sé “and continue to do what I was born to do”.

Anche nei momenti più bui, il grande pregio di questa leggendaria atleta è stato quello di continuare a credere nel proprio talento sapendo che prima o poi sarebbe ritornata a mietere risultati di prestigio. Venus ha sempre affrontato ogni sfida con quella “champion mentality” che le è stata inculcata fin da bambina. D’altra parte la classe non è acqua e soprattutto Wimbledon non si vince per caso, figuriamoci cinque volte. A differenza di altri grandi tornei femminili dove, in particolare negli ultimi anni, abbiamo avuto di tanto in tanto delle vincitrici inaspettate che non fanno parte dell’élite delle giocatrici più forti, se guardiamo l’albo d’oro dell’All England Club troviamo solo campionesse di rango che hanno trascorso gran parte della loro carriera tra le primissime del mondo. L’unica eccezione è rappresentata dall’incredibile successo di Marion Bartoli nel 2013, una giocatrice che comunque sui prati inglesi aveva negli anni precedenti già battuto le due più forti tenniste degli ultimi 15 anni (Serena Williams e Justine Henin) e disputato una finale persa proprio contro Venus.

Dopo il successo di Federer in Australia ed i continui record polverizzati da Serena, una vittoria di Venus a Wimbledon sarebbe davvero una storia affascinante che darebbe una straordinaria esposizione mediatica a tutto il carrozzone tennistico. Una sorta di favola a lieto fine che andrebbe ben oltre il contesto sportivo, in particolare in un paese come negli Stati Uniti. Checché ne dicano i detrattori, va infatti sottolineato che il tennis in America è ancora vivo quasi esclusivamente grazie alle sorelle Williams. Non avremo mai la controprova, ma non è da escludere che, se non ci fossero state Venus e Serena ad alimentare l’interesse dei fans e dei media, gli US Open e tutto il circuito americano avrebbero forse potuto sprofondare in una crisi simile a quella attraversata dagli Australian Open negli anni ’70.

Quello che molti appassionati italiani – e a volte anche alcuni addetti ai lavori poco ricettivi – fanno fatica a capire è che il mercato sportivo americano è infinitamente più egocentrico di quello italiano o europeo. Negli Stati Uniti se uno sport non produce costantemente campioni americani, viene prima di tutto abbandonato dagli appassionati, poi dai media ed infine dagli sponsor e dalle istituzioni. Qui in America Federer e Nadal godono sicuramente di un’ottima popolarità, ma non arrivano nemmeno lontanamente a sfiorare la popolarità di cui un tempo godevano John McEnroe, Jimmy Connors, Chris Evert, Andre Agassi e di cui oggi godono le sorelle Williams.  Senza dimenticare che, se non fossero afro-americane originarie di Compton, Venus e Serena avrebbero un’esposizione mediatica ancora più stratosferica di quella che già hanno. Se fossero bianche ed avessero i capelli biondi, sarebbero probabilmente allo stesso di livello di fanatismo riservato a Tom Brady o Michael Phelps.

Come i recenti Australian Open hanno dimostrato, sia gli appassionati sia i media americani vivono con grandissimo interesse le sfide tra Venus e Serena in sede di finale Slam, laddove invece i fans e gli addetti ai lavori italiani lamentano spesso noia e mancanza di pathos. Per la maggior parte degli americani una finale tra Venus e Serena è il massimo che il tennis moderno possa offrire: una vera e propria apoteosi sportiva con tanto di celebrazione dell’American Dream. E l’aspetto più straordinario è che il “sorellicidio” rappresenta per la cultura americana qualcosa di affascinante ed intrigante, certamente non noioso.

Con una Serena alla caccia del record di Margaret Court ed una Venus sempre più ritrovata, quest’anno si potrebbero verificare altre grandi sfide tra le sorellone. Il loro obiettivo è di arrivare a disputare le Olimpiadi di Tokyo nel 2020 e, vista la straordinaria devozione che entrambe hanno sempre dimostrato per i Giochi, possiamo essere quasi sicuri che in Giappone saranno competitive. D’altra parte, come da qualche tempo afferma continuamente Venus, “thirty is the new twenty”.

Lorenzo Dellagiovanna

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