Djokovic e l'idea Agassi: tutti a caccia di coach-guru (Cocchi). Federer-Nadal, non c'è leadership senza terra rossa (Azzolini)

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Djokovic e l’idea Agassi: tutti a caccia di coach-guru (Cocchi). Federer-Nadal, non c’è leadership senza terra rossa (Azzolini)

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Djokovic e l’idea Agassi: tutti a caccia di coach-guru (Federica Cocchi, Gazzetta dello Sport)

L’idea è stuzzicante: Andre Agassi super coach di Novak Djokovic, l’ex numero 1 in crisi di identità che ha appena fatto piazza pulita del suo storico team. La soffiata arriva del Telegraph, che cita fonti vicine al serbo, ma da nessuna parte al momento arrivano conferme. Nole, nella conferenza stampa pre torneo di Madrid, ha ammesso di essere alla ricerca di un coach, di non poter continuare da solo e di aver bisogno di qualcuno che, in carriera, si sia trovato più o meno nelle stesse situazioni. Insomma, qualcuno che abbia vinto tanto, quasi tutto, che abbia vissuto finali Slam, vittorie e sconfitte purché ad altissimo livello. Un super coach, come lo era stato già Boris Becker grazie ai consigli del quale, Djokovic, aveva conquistato sei Slam su 12 in carriera compreso il Roland Garros, il più agognato, l’unico che gli mancava per completare la collezione.

Sarà stato l’appagamento per la conquista di Parigi che chiudeva un ciclo di vittorie straordinario, sarà stata la chiacchierata (presunta?) crisi con la moglie Jelena, sarà stata la troppa attenzione alle pratiche del guru spagnolo Pepe Imaz e di suoi abbracci. insomma da allora Nole non vince più. Ha perso la ferocia del cannibale. la capacità di reagire alle situazioni di difficoltà. Addirittura Becker, dopo averlo visto uscire dal campo battuto ha twittato: «Spero che gli torni presto il desiderio di prendere la racchetta e scendere in campo con la voglia di lottare». Il nome di Agassi, che ha 47 anni, era già stato fatto qualche tempo fa in merito a Kyrgios, ma Andre aveva smentito le voci sulla loro collaborazione. Cosa che al momento non è accaduta per l’eventuale collaborazione con il serbo. Le voci parlano di un accordo part time di circa 12 settimane l’anno, ovvero per gli Slam, le eventuali Finals e magari quale Masters 1000 in zona Agassi, tipo Indian Wells. Un accordo molto simile a quello tra Ivan Lendl e Andy Murray. L’ex numero 1, dopo una prima collaborazione, è tornato a seguire Murray che, con lui, è tornato arrivato al trono mondiale.

Il super coach in panchina, una figura che sta tra il tecnico e il motivatore, è la moda degli ultimi anni. Dopo Murray che, insieme a Jamie Delgado si è affidato a Lendl, poi ad Amelie Mauresmo prima di tornare a Lendl, tra i migliori risultati in fatto di abbinamento tra campione ed ex campione ci sono senz’ altro quelli del duo Federer-Edberg. A fine del 2015 la coppia si è separata e ora Roger lavora con Ivan Ljubicic con cui ha centrato lo Slam numero 18. Carlos Moya segue Rafa Nadal e ha di fatto preso il posto dello zio Toni. E poi c’è Milos Raonic che, allenato da Riccardo Piatti, ha collaborato con Ljubicic, Moya e anche con John McEnroe che lo ha aiutato a preparare la stagione sull’erba portandolo a giocare la finale di Wimbledon, poi battuto da Andy Murray (…)

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Federer-Nadal, non c’è leadership senza terra rossa (Daniele Azzolini, Tuttosport)

La conquista del sospirato primato, la vetta più ambita fra le molte che il tennis chiede di scalare ai suoi grimpeur con racchetta, Federer lo festeggiò al fianco di Juliette. Era il 2004, agli inizi, e Roger sistemò la pratica vincendo in Australia. Numero uno per la prima volta. Juliette era da sette mesi con lui, sempre tenera, di carattere tranquillo, due occhi grandi e buoni. Juliette era proprio questo, buona, anzi, talmente buona”. Una mucca di razza Simmental, dono della comunità montana di Gstaad a un ragazzo svizzero capace di vincere Wimbledon. Lui un erbivoro, lei un’erbivora. Ma il torneo di Gstaad era rigorosamente su terra battuta, uno degli appuntamenti storici della stagione in rosso. Sino all’avvento del professionismo lo giocavano sui campi degli alberghi, invitavano due campioni e il resto del tabellone veniva sorteggiato fra gli ospiti dell’hotel. Per Federer, invece, fu addirittura ricostruito il Centrale, e ampliato a dismisura, fin quasi a contenere tutti gli abitanti della cittadina, la più piccola, ancora oggi, che ospiti un torneo del circuito Atp.

Non sappiamo che fine abbia fatto Juliette, se sia in qualche allevamento lassù, fra le sue Alpi, o sia già passata alla forma, ben più prosaica, di cotoletta Quel che sappiamo è che Federer a Gstaad non metterà più piede, e nemmeno a Roma, a Madrid, a Monte-Carlo, ad Amburgo e Monaco, e nemmeno a Estoril e a Kitzbuhel. Verrà a Parigi, forse, ma ancora non è certa A lui andrebbe, al suo staff molto meno, a coach Ljubicic per nulla. Aspettiamo un comunicato. Nell’attesa facciamo due conti, per scoprire se non altro che in quell’anno di grazia che si concluse sulla vetta del tennis, Federer giocò cinque tornei sul rosso. Vinse a Monaco su Nieminen, fece finale a Roma (75 62 76 da Mantilla) e a Gstaad, il terzo turno a Kitzbuhel e bucò alla grande il Roland Garros, spiaccicato in primo turno da Luis Homa, e fa vergogna solo il rammentarlo. Erano altri tempi, si dirà. Ma non si discute, qui, se la scelta dello svizzero, dopo aver annesso quasi per intero il primo quarto della stagione (Australian Open, Indian Wells e Miami, 20 vittorie, una sola sconfitta), sia stata saggia e lungimirante, o semplicemente conservativa (delle sue stanche membra) o invece del tutto errata.

Lui si affida al suo staff, la sua azienda, e quella ha il compito di farne un prodotto a lunga conservazione. Si chiacchiera, piuttosto, del suo futuro, visto che a dispetto di molti ne ha ancora uno. E il punto è questo: se il profluvio di vittorie gli ha smosso l’uzzolo mai sopito di tentare una nuova conquista della vetta, è difficile comprendere come questa possa essere avvicinata senza i punti della terra rossa. O meglio, una via da percorrere ci sarebbe, ma è la più impervia, quella di vincere tutto il possibile. Al momento, l’unica certezza viene dal fatto che non vi sono esempi di primatisti, in Era Open, del tutto dimentichi della terra battuta. Nemmeno Sampras, o Rafter, o Edberg, scelti a caso fra i più inveterati erbivori della storia tennistica.

C’è invece chi sul rosso ha costruito la sua dote, se non totalmente, quasi. Thomas Muster su tutti, che rinunciò volentieri all’Australia e a Wimbledon (era il 1996, e con una gamba del tutto ricostruita in sala chirurgica, si possono capire le sue difficoltà su certe superfici), ma vinse Parigi, Monte-Carlo, Barcellona, Roma, Città del Messico, Stoccarda, Sopot, Estoril, San Marino, Umag e Budapest Assai meno da rosso fu Nadal, che nel 2008 raggiunse la vetta vincendo Parigi, Monte-Carlo, Barcellona e Amburgo (a Roma fece il secondo turno), ma dentro seppe calarvi la conquista di Wimbledon. Questa prima parte della stagione ha visto Federer vincere tutto e battere due volte su due Nadal, il quale ha preso il sopravvento nel momento in cui Roger si è ritirato nelle sue stanze (…)

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