Madrid, Kyrgios: "Non so se vorrei essere ricordato come un gran tennista"

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Madrid, Kyrgios: “Non so se vorrei essere ricordato come un gran tennista”

Qualcuno vuole che Nick spacchi in due il mondo del tennis, altri lo considerano poco più che un buffone. Lui è semplicemente Nick Kyrgios

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È Nick Kyrgios. Ogni volta che sembra vicino al livello dei migliori, ogni volta che sul campo pare aver trovato la tranquillità necessaria per esprimere il suo potenziale, sente il bisogno di tornare a sbandare. Contro Rafa Nadal in una sfida che prometteva scintille l’australiano è stato in campo fino al 2-3 40-30, sulla palla che gli avrebbe permesso di pareggiare i conti. Poi ha sostanzialmente abbandonato l’incontro, vittima certo di un Nadal che saggiamente stava riversando sul campo tutt’altra tempra rispetto al faticoso match contro Fognini.

Non ho avuto la migliore preparazione per questo torneo, praticamente non mi sono allenato per una settimana e mezzo. Quindi arrivare qui e vincere anche un paio di partite… non mi aspettavo per nulla di giocare bene. Non avevo buone sensazioni sul campo prima di Madrid, non mi stavo allenando come dovevo. Ripeto, ho passato due turni e poi ho perso da Rafa. Sono relativamente felice della mia prima settimana sulla terra. Lui ha giocato una gran partita, è stato di gran lunga migliore di me“.

Come è noto le sue attuali difficoltà sembrerebbero imputabili alla recente scomparsa del nonno, che l’aveva costretto a rinunciare al torneo di Estoril. L’australiano aveva già dichiarato come la sua decisione di essere presente alla Caja Magica fosse arrivata solo grazie all’apporto dei familiari, ma a quanto pare non è stato sufficiente per onorare l’impegno spagnolo fino in fondo. “Non ero nelle condizioni migliori per essere un giocatore di tennis“. Così ha provato a cavarsi d’impaccio Kyrgios, ricordando come abbia giocato “un tennis incredibile” a Indian Wells, Miami e anche in Coppa Davis. Poi il rientro a casa dove “tutto è successo“. Difficile entrare nel mondo di Nick, nel vortice delle sue intemperanze – a volte deprecabili, a volte meno – che nascondono le debolezze di un ventenne che non sa, non vuole, non cerca.

Sicuramente non trova l’amore del pubblico. E lui non fa nulla per meritarselo, così testardo nel seguire la sua linea di condotta intransigente. Gioca a tennis solo alle sue condizioni, quando l’aria è quella giusta, altrimenti scivola noncurante verso uno sport diverso in cui sceglie di colpire con l’unico scopo di avvicinare il più possibile l’uscita dal campo. “Il pubblico mi fischia? Non mi interessa. Lo fanno comunque, anche se gioco bene. Mi hanno fatto “buuuh” anche al tie-break del terzo set contro Federer a Miami”. Comprensibili i fischi di ieri a Madrid, molto meno il trattamento ricevuto a Miami.

C’è stato un momento della conferenza in cui Nick ha parlato anche di tennis. Partendo dal profondo rispetto che nutre per uno come Nadal, che si vede genuino e non assolutamente artefatto. “Con lui è difficile, specialmente su questa superficie. È una questione mentale, credo. Ho giocato con lui sull’erba e mi sentivo molto più a mio agio. Potrei dire che l’erba è “la mia terra”, se vogliamo usare queste parole. Ero a mio agio, per questo ho vinto (Wimbledon 2014, ndr). Ho giocato con lui a Roma lo scorso anno perdendo in tre set, probabilmente la mia miglior partita sulla terra. Stasera invece non mi aspettavo di batterlo, se devo essere sincero“. Uno psicologo, magari anche più preparato di quello che l’ATP gli aveva assegnato “d’ufficio”, faticherebbe a spiegarsi perché invece a Miami contro uno dei migliori Federer che il cemento americano ricordi la sensazione di poter vincere ce l’aveva avuta eccome. La superficie conta fino a un certo punto, quando l’approccio di Kyrgios è di totale disinteresse nei confronti dell’incontro.

Poi, verso la finale, un giornalista volenteroso ha tentato di scalfire la sua corazza. Parlando del suo rapporto con Hewitt e di come questo lo porti ad essere un riferimento del tennis australiano. “Sto ancora imparando come essere un buon ambasciatore, adesso non credo di esserlo. Roger, Rafa, loro sì che sono grandi ambasciatori, ma non so se potete chiamare così anche me“. Lì la domanda che l’ha fatto crollare: Nick, ma tu vuoi essere davvero un ambasciatore? 

La risposta è di quelle che ti lasciano dubbi su chi ti stia veramente di fronte. “Non so se alla fine vorrò essere ricordato come un grande giocatore di tennis. Mi piacerebbe essere qualcuno che viene ricordato perché ha fatto qualcosa per una causa importante piuttosto che essere semplicemente un buon giocatore di tennis“. Di lì un fiume in piena, l’evidente esigenza di esprimere qualcosa che ha dentro e che il tennis non riesce ad esaurire del tutto. Con l’ovvia difficoltà dei vent’anni, con poca esperienza e troppi tumulti da gestire. “È qualcosa contro cui combatto. Lo scorso anno non sapevo cosa realmente volessi dallo sport. Alcuni giorni non volevo proprio giocare. Sto combattendo ancora questa battaglia, forse adesso sto facendo un buon lavoro. Ma non so. Ancora non so cosa voglio fare. Ci sono dei momenti in cui se mi chiedessi “Vuoi vincere uno Slam domani?” la prospettiva non mi ecciterebbe. Semplicemente… non so“.

Forte la tentazione di imprecare contro il suo tentativo di gettare al vento un talento enorme. Come è stato fatto tante volte, spesso senza interrogarsi sulla reale difficoltà di essere uno a cui il mondo chiede di vincere Slam per soddisfare un disperato bisogno di idoli. Non perché il suo talento lo meriti, non perché il suo tennis diverta (il che è anche vero). Per ingurgitare soddisfazione dai successi degli altri. Difficilmente Nick non vincerà uno Slam, difficilmente ne vincerà tanti da essere “l’ambasciatore” di cui il circuito ha bisogno. Una cosa è certa: Nick Kyrgios è maledettamente se stesso.

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