Furia Djokovic, ma la novità è Zverev (Scanagatta). Il battesimo di Laver al predestinato Zverev (Clerici). Zverev-Djokovic, due generazioni alla sfida finale (Crivelli). Djokovic cerca il match perfetto (Viggiani). Occhio Halep, Svitolina è una numero 1 (Cocchi). Se l’assenza del coach fortifica il campione (Bertolucci)

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Furia Djokovic, ma la novità è Zverev (Scanagatta). Il battesimo di Laver al predestinato Zverev (Clerici). Zverev-Djokovic, due generazioni alla sfida finale (Crivelli). Djokovic cerca il match perfetto (Viggiani). Occhio Halep, Svitolina è una numero 1 (Cocchi). Se l’assenza del coach fortifica il campione (Bertolucci)

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Furia Djokovic, ma la novità è Zverev (Ubaldo Scanagatta, La Nazione)

Mentre Rafa Nadal era ancora incerto se andare a pesca o giocare a golf a Maiorca, un lungo tedesco di 20 anni compiuti un mese fa — Sascha Zverev è nato il 20 aprile 1997 ad Amburgo — diventava il più giovane finalista al Foro Italico dacché proprio Rafa, a 25 giorni dal diciannovesimo compleanno, il 9 maggio del 2005 rimontò da 0-3 nel quinto l’argentino Guillermo Coria vincendo il primo dei suoi 7 titoli a Roma dopo 5h e 14m di lotta memorabile: 6-4, 3-6, 6-3, 4-6, 7-6(6). Una partita simile a quella che Rafa avrebbe vinto l’anno dopo su Federer, ancora 7-6 (5) al quinto (5h e 6m) e annullando 2 matchpoint sul 6-5. Da veterano anche Nadal, ormai prossimo ai 31 anni, ha l’occhio lungo sui giovani emergenti. Così se di Thiem, prima di perderci nettamente venerdì, aveva detto in tempi non sospetti «Sulla terra rossa con Djokovic è il più forte», già un anno fa su Sascha Zverev si era sbilanciato così: «E’ chiaramente un potenziale futuro n.1. E’ un tennista straordinario. Ha tutti i colpi». Difficile non essere d’accordo con Rafa. Soprattutto dopo questo torneo che ha messo in mostra un Thiem spettacolare proprio contro il maiorchino (ma deludente contro un ritrovato Djokovic) e uno Zverev molto più maturo della sua età, tecnicamente quasi inappuntabile. Non ha ancora torme di giornalisti tedeschi al seguito come accadde quasi all’improvviso dal 1985 in poi nella “Golden Era” di Boris Becker, Steffi Graf e Michael Stich, ma se non è ancora così popolare in patria non dipende dall’essere figlio di genitori russi. «Becker, Stich hanno vinto Slam, io no… questa è la mia prima finale di un Masters 1000 e ho vinto sulla terra battuta appena due tornei… ». Giâ, forse Sascha non lo sa, ma Becker di tornei sul “rosso” non fu capace di vincerne mai neanche uno. Matchpoint a Montecarlo, due semifinali a Parigi, ma anche nei tornei minori fallì. «Mi sento tedesco al 100% e non potrei esserlo di più — mi risponde dall’alto del suo metro e 98, magro come una canna di bambù (ma ben più elastico) il biondissimo russo dai capelli lunghi e fascia come Borg e che come Bjorn piace da matti alle ragazzine e alle tenniste, Bencic e pure Svitolina — i miei genitori sono venuti in Germania nel ’91, 6 anni prima che nascessi, ho frequentato scuole tedesche e tutti i miei amici sono tedeschi». Contro il pivot Isner (208 cm), Zverev che serve costantemente sopra i 200 km orari ha fatto perfino più ace, 12 contro 8 e si è mosso mille volte meglio. Il rovescio bimane è spettacolare, ma davvero non gli manca nulla, salvo che a rete. Di certo non in risposta: ha strappato 3 volte la battuta all’americano che non la perde quasi mai. Djokovic, 8 vittorie in 8 semifinali qui, e 4 volte campione al Foro contro l’austriaco giustiziere di Nadal in cattiva serata ha premuto subito il piede sull’acceleratore, 5-0, 6-1 doppio break subito anche nel secondo. Non c’è stato match. La finale è un inedito duello.

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Il battesimo di Laver al predestinato Zverev (Gianni Clerici, La Repubblica)

Rod Laver in tribuna, vicino a Pietrangeli e Santana, mi ha fatto pensare a un battesimo, per un bambino quale Sascha Zverev. Rod, per chi non lo conoscesse, è l’unico ad aver vinto due Grand Slam. Come un vero grande, non indossava oggi né il blazer blu della Hall of Fame, né alcunché lo distinguesse da un comune spettatore, a parte il cappello con la doppia falda tipico del gran sole del suo paese. Non conosco abbastanza bene il tedesco Zverev, per chiedergli se si sia reso conto di avere a pochi metri un sorridente testimonio del suo ingresso tra i grandi. Spero lo abbia capito da sé, ora che è in finale di Roma, giungendovi a soli 20 anni, impresa accaduta soltanto a due fenomeni che stanno ancora giocando, quali Nadal e Djokovic. Zverev vi è riuscito superando quel fenomenale battitore di John Isner, che ricordiamo per il più lungo match sin qui giocato nell’era Open, tre giorni contro Mahut, a Wimbledon. Isner non è solo battuta, la sua laurea, oggi rarissima tra i tennisti, lo ha portato ad affacciarsi sul proprio tennis in modo insolito, tanto che non mi sono sorpreso nel sentirgli dire, una volta: «Battere è come girare una pagina di un libro che ti piace. Il difficile viene all’inizio pagina seguente». In un torneo nel quale le rosse sabbie non privilegiano certo i battitori, Isner aveva affrontato 7 tie-break per vincerne 6. Alla fine del secondo set, ha vinto il settimo, e si è potuto pensare che Zverev si facesse destabilizzare da quel tennis che appariva un handicap, in cui era bastato un suo doppio fallo e due gratuiti per ritrovarsi 0-5 nel tiebreak. Ho ammirato non soltanto la qualità di Sascha nei rimbalzi, ma la sua capacità tattica di ricevere la grandine delle battute, senza che queste facessero peggiorare i suoi schemi. Un gran match, un grande giocatore che non potrà che migliorare, con l’età, che affronterà una finale comunque difficile. Dopo simile vicenda, un’altra ne seguiva che qualcuno aveva previsto il mattino, osservando Djokovic disputare una sorta di allenamento con un Del Potro tutt’altro che in cattiva forma. La rinascita di Nole si sarebbe accentuata contro un incredulo Thiem, tanto da far pensare che il serbo, grazie a un misterioso aiuto divino, fosse in possesso di un magico strumento per invertire l’abituale scorrere del tempo. Ecco il miglior Djokovic degli ultimi anni, capace di far apparire Thiem simile a un inesperto giovanotto da 1° turno. A un Djokovic eguale andrebbe sicuramente il match con Zverev, con un saluto alle nostre previsioni di ricambio generazionale.

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Zverev-Djokovic, due generazioni alla sfida finale (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Solo chi ha visto il leone ruggire conosce la paura. Thiem se l’è trovato di fronte, e per una sera si è fatto cucciolo sperduto e sbatacchiato, dopo che non aveva tremato davanti all’altra belva Nadal. Djokovic è di nuovo tra noi, la sua voce torna a rimbombare possente dopo un anno di toni bassi, bassissimi: la prima sfida lanciata dalla nouvelle vague alla generazione dei fenomeni si risolve in una mattanza, un’esecuzione durata meno di un’ora. Una lezione memorabile. Eppure, riscopertosi finalmente re della giungla, Nole si troverà di fronte un altro giovane capobranco, pronto a marcare il territorio e a prendersi il comando. Toccherà a Zverev, oggi pomeriggio, provare a scalfire la leggenda dei Fab Four, a prendersi il palcoscenico a vent’anni, a rivoluzionare il presente portandolo nel futuro. Corsi e ricorsi: era dal 2007 che un tennista così giovane non approdava a una finale di un Masters 1000. Allora, fu un serbo di talento che muoveva i primi passi orgogliosi nella mitologica diarchia Federer-Nadal: Novak si prese Miami e mise il suo nome sulla mappa dei grandi. Dieci anni, come la differenza d’età tra i due rivali di oggi, al primo confronto diretto: sembrano un’eternità che Sascha adesso può cancellare. Ma non sarà facile, per il primo tedesco arrivato così lontano a Roma da Haas nel 2002: perché nelle due uscite di ieri Novak è sembrato, d’incanto, quello dell’età dell’oro. Prima la prosecuzione con Del Potro, domata con agilità martellando di continuo l’argentino sul rovescio, tornato pavido con quel back esasperato che apriva praterie in profondità all’ex numero uno. Poi l’incrocio con l’austriaco, fresco dello scalpo di Rafa, una vittoria che ha finito per svuotare Thiem, che certo non si aspettava un avversario con il sangue agli occhi dopo tanti mesi di torpore. E invece il Djoker serve come in paradiso, tira sassate da fondo, ma soprattutto risponde con i piedi sulla riga, togliendo ossigeno e angoli all’allievo di Gunther Bresnik, spaesato e falloso di suo. In otto semifinali a Roma, il serbo non ha mai perso, e le urla belluine dopo ogni punto importante testimoniano la liberazione psicologica. Tanto che l’ex mentore Becker, su Twitter, può cinguettare una significativa sentenza: «Era tanto tempo che non vedevo questo fuoco dipinto sulla sua faccia». Torna a bruciare, Nole, e lo fa proprio a cavallo di Parigi, la fine e l’inizio di tutto: «E’ la mia più bella partita da allora. Per otto mesi non sono stato soddisfatto di me e del mio gioco, ma da quando è cominciata la stagione sulla terra ho ritrovato il piacere della competizione, e certo non intendo fermarmi. Anche se in finale avrò un avversario durissimo, un predestinato. Sono coetaneo di Misha, suo fratello, e mi ricordo di quel bambinetto che alla fine voleva sempre palleggiare con me. Sarà un po’ strano ritrovarselo di fronte». Il piccolo è cresciuto imperiosamente, e contro Isner vince anche il duello del servizio, secondo set a parte: «Ho cercato di mischiare le carte in modo che non trovasse il ritmo sulla battuta. Sono nella mia prima finale in un 1000 ed è fantastico, soprattutto perché è accaduto sulla terra dove il gioco è molto più fisico e gli scambi sono lunghi e duri. Sono contento ma voglio continuare ancora a migliorare». Intanto, lunedì sarà n. 14, entrando addirittura nei 10 con il successo nel torneo: «Se vinco è fantastico. Ma se l’avversario è meglio di te, gioca meglio di te e tu non hai fatto nulla di stupido la notte prima o in allenamento e hai dato comunque il massimo, c’è poco da innervosirsi. I Big Four, purtroppo per gli appassionati, non giocheranno per sempre anche se stanno ancora dominando, ma ci sono giovani che stanno maturando in fretta». Becker e Stich, eccovi l’erede: «Piano con i paragoni, io non ho nemmeno vinto uno Slam. Però, anche se i miei genitori sono russi, è vero che mi sento al 100% tedesco». Uber alles.

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Djokovic cerca il match perfetto (Mario Viggiani, Corriere dello Sport)

E come per incanto, riecco Novak Djokovic! Quest’anno vincitore finora di un solo torneo (a Doha), poi una serie di sconfitte con la semifinale di Madrid come miglior risultato finora, risultato che però lo annunciava in recupero. Gli straordinari hanno fatto bene all’ex numero uno, che ieri prima ha chiuso il match contro Juan Martin Del Potro, abbandonato per pioggia sul 6-1 1-2 in suo favore, e poi ha travolto Dominic Thiem concedendo appena un game al giocatore che solo il giorno prima aveva ribaltato Rafa Nadal. Una prestazione pazzesca, quella del Djoker, magari rimesso in sesto dall’essere tornato a integrare la dieta gluten free con le proteine, specie durante i tornei: uova, pollo, anche pesce, tutta roba che ormai aveva quasi bandito dalla sua tavola. E, invece, ieri sera, con gli occhi della tigre, ha sbranato Thiem, evidentemente svuotato dalla prodezza contro Nadal e da tre settimane intense tra Barcellona, Madrid e appunto Roma (in Spagna era sempre andato in finale e sempre contro Rafa, finalmente battuto qui al Foro Italico). «Sicuramente, è stata la mia migliore prestazione dell’anno, ma diciamo anche da dieci mesi a questa parte. Sto migliorando, sto ritrovando il mio miglior gioco e in questa partita tutto mi è riuscito bene, fin dall’inizio. E’ venuto fuori il match perfetto. Vero probabilmente che Thiem era stanco, dopo tre settimane per lui particolarmente intense, ma diciamo che io ci ho messo del mio. Sono contento di essere sulla strada giusta». Sacha Zverev, sarà l’avversario odierno di Djokovic. «Me lo ricordo, quando era in giro per il circuito insieme al fratello Mischa, che conosco bene. Aveva dieci, dodici anni e aveva sempre dietro la sua racchetta», l’aneddoto di Novak, che lo affronterà per la prima volta in carriera in una sfida generazionale. «E adesso me lo ritrovo qui, da avversario, in uno dei tornei più importanti al mondo. Ora, di anni ne ha venti, ma direi decisamente che è solo all’inizio di un’importante carriera. Il tedesco in semifinale ha risposto colpo su colpo al bombardiere John Isner: ha vinto il primo set, nel secondo s’è arreso al tie-break ma alla fine ha preso per sfinimento lo statunitense, uno che in altezza lo sovrasta di dieci centimetri (con i suoi 2,08m) ma che ieri ha perso la battaglia delle ace contro il giovane avversario (12-8). Per Zverev si tratta della prima finale di Masters 1000 in carriera: Djokovic ne ha vinti trenta… «Novak è uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi. Non sarà facile affrontarlo, specie in finale dove di solito lui parte a tutta».

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Occhio Halep, Svitolina è una numero 1 (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

La rivincita delle piccoline. Simona Halep ed Elina Svitolina si contenderanno oggi il titolo femminile degli Internazionali. Simona Halep, dopo il successo di Madrid, va a caccia della doppietta contro l’ucraina che, col successo di ieri in semifinale per il ritiro di Garbine Muguruza, arriva al primo posto della Race, ovvero il ranking che tiene conto dei risultati dell’anno. Prima finale nel torneo romano, ma non proprio l’ultima arrivata visto che è l’unica giocatrice che dall’inizio della stagione ha già centrato tre titoli a Taipei, Dubai e Istanbul. Elina non ha potuto dimostrare quanto valesse contro la Muguruza, che si è fermata sul 4-1 per la rivale accusando un problema al collo. Probabilmente soltanto un colpo d’aria per Garbine, che quest’anno ha già collezionato ben quattro ritiri per motivi diversi. «Sentivo già dolore quando colpivo mentre mi allenavo con lo sparring, ora devo vedere di cosa si tratta: forse solo un problema muscolare, comunque non sono preoccupata per il Roland Garros», ha spiegato Garbine dopo la partita. Elina arriva da Odessa, in Ucraina, e da quest’anno si allena con Gabriel Urpi, lo spagnolo ex tecnico di Flavia Pennetta. Una grossa mano nel salto di qualità che la sta portando in top ten gliel’ha data, però, Justine Henin. È stata proprio la belga quattro volte regina del Roland Garros a seguirla nel 2016: «Se non hai l’altezza non è così grave – aveva detto Justine parlando di Elina -, bisogna semplicemente focalizzarsi sulle altre caratteristiche del gioco: velocità, tecnica, visione del gioco. Spero di essere per lei una fonte di ispirazione». La collaborazione tra le due è finita dopo meno di un anno ma Svitolina è cresciuta molto anche grazie a lei: «Quando giocava era incredibile – dice di lei l’ucraina -, ha mantenuto una mentalità vincente ed è riuscita a trovare il gioco che meglio le si adattasse, e questo è molto importante per me». Oggi contro Simona Halep non sarà facile: «Prevedo un match lungo e difficile – ha detto dopo i 22 minuti contro Muguruza -, lei è in un grande momento e io non amo particolarmente la terra. A Madrid ho perso subito, ma adesso mi sto abituando ai movimenti su questa superficie’» La Halep, alla prima finale al Foro Italico, arriva da Madrid con un carico di fiducia e sebbene ieri contro la Bertens abbia perso un po’ la bussola nel primo set chiuso 7-5, nel secondo non ha lasciato spazio all’olandese chiudendo 6-1: «Sto bene, mi sento a mio agio in campo, non ho infortuni: è questa la chiave per mantenere alta la condizione». Anche lo scorso anno arrivava da Madrid col trofeo, ma uscì al secondo turno contro Gavrilova: «Sono orgogliosa di esser riuscita a cambiare le cose, allora non avevo voglia di giocare, ero stanca. Quest’anno invece sono carica di energie, pronta a giocarmela fino alla fine».

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Se l’assenza del coach fortifica il campione (Paolo Bertolucci, La Gazzetta dello Sport)

Nel tennis, le esigenze e le mode cambiano molto velocemente. Fino a poco tempo fa sembrava che senza l’assistenza di un bravo coach i giocatori non fossero in grado di esprimersi al meglio e di arricchire il proprio bagaglio tecnico. Ragionamento corretto per un giovane che deve far uscire il proprio potenziale, trovare la continuità di rendimento, incrementare le soluzioni e allargare le alternative tattiche. I big invece hanno altre esigenze. Con centinaia di partite sulle spalle, conoscono alla perfezione gli schemi, possiedono l’esperienza necessaria per prendere le decisioni più appropriate e hanno da tempo assemblato tutte le componenti del gioco. A loro serve una figura carismatica che abbia vissuto le stesse sensazioni, che le abbia gestite senza rimanere schiacciato dalla pressione. Negli ultimi tempi, non di rado, vediamo giocatori di vertice che si separano dal coach e che, in attesa di trovare la soluzione più adatta, decidono di prendersi una pausa e di proseguire da soli. Djokovic e Del Potro sono gli ultimi esempi, ma in passato altri giocatori, primo fra tutti Federer, avevano percorso la stessa strada. I risultati sono quasi sempre positivi, come se la sedia vuota nel box avesse tolto pressione e liberato il braccio. La ricerca di un sostituto all’altezza a volte richiede tempo e in questo frangente il giocatore acquisisce ulteriori conoscenze, perfette per fortificarsi e migliorare.

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