Nel microcosmo di Andre Agassi

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Nel microcosmo di Andre Agassi

Che abbiate letto Open o meno, Andre Agassi si racconta a Federico Buffa

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“Ho passato il punto della vita in cui ci si preoccupa di cosa pensano gli altri: ora voglio solo capire”. A otto anni dalla pubblicazione di quella immensa opera che è Open, Andre Agassi torna a parlare della sua vita in un signorile salotto parigino in compagnia di Federico Buffa, conduttore della narrazione. Un percorso a ritroso nel tempo, dall’odio-amore per il tennis, per il mondo, all’happy end. Chi è oggi Andre Agassi? Un uomo che ha deciso di seguire un desiderio di bellezza autentico, interiore. E uno così non poteva non piacere a Federico Buffa, che di Open ha detto: “È il racconto di sport più bello degli ultimi vent’anni”. Così il canovaccio della lunga chiacchierata non può che ripercorrere le tappe dell’autobiografia. La rievocazione di Andre parte dalla fine, dalla scelta di raccontarsi: “Avevo la necessità di rivedere la mia vita attraverso una lente letteraria. Volevo trovare un senso. Volevo scrivere un libro solo per capire la mia vita. Ma durante la stesura ho compreso che non lo stavo facendo affinché il pubblico potesse conoscermi meglio, ma perché attraverso il libro le persone potessero conoscersi meglio. Open parla delle mie paure e del perdono. È una storia umana.

La lente si sposta celermente sul rapporto col padre, Emmanuel Aghassian, ex pugile iraniano trapiantato in America. Un padre crudele, feroce e ingegnoso, che prese possesso della vita del suo quartogenito quando aveva solo sette anni: “La nostra casa aveva una sola regola: ci si svegliava, si giocava a tennis e ci si lavava i danti. In quest’ordine. La scuola non era importante. Mio padre arrivò in America a 18 anni. Non parlava una parola d’inglese. Vide il tennis come la strada più veloce verso la realizzazione del sogno americano. Era la sua ossessione. Vedeva il tennis come la geometria. Era un matematico. A letto immaginava schemi guardando il soffitto. Schemi che nessuno aveva mai pensato prima. E mi ha cresciuto così. Fare qualsiasi cosa diversa da tennis non era un’opzione contemplabile”.

Una breve digressione sulla sua terra, su quel deserto che ha plagiato la sua personalità. Nato e cresciuto in Nevada, nella periferia di Las Vegas, dove la filosofia era ed è ancora credere che qualsiasi cosa sia possibile: “Mio padre mi presentava come il numero uno del mondo. E sai cosa rispondevano gli altri? “Un numero uno ci dovrà essere, e perché non puoi essere tu?”. 

Dopo il ricordo degli anni alla IMG Academy: “È stato un viaggio ed io semplicemente non amavo quell’ambiente”, la narrazione dei trascorsi si interrompe per tornare al presenteAndre è a Parigi in veste di allenatore di Novak Djokovic e di lui dice che è la persona più generosa che abbia mai incontrato: “È sempre benintenzionato, in tutto ciò che fa. E’ una bella persona e merita molto di più dal tennis”. Gli viene chiesto del nuovo ruolo, quello di coach. Andre dice che ruota tutto attorno all’imparare: “Ho fatto la gavetta da allenatore per quindici anni crescendo i miei figli. Spesso non ci si accorge di quanto sia importante imparare prima di insegnare. Molti pensano che allenare sia sputare informazioni a chi hai davanti. Ma in realtà è comprendere, capire cosa rende una persona migliore. Questo è ciò che facciamo con i nostri figli”

Si ritorna nuovamente indietro, alla rivalità con Sampras. Le immagini mostrano un cross rallentato di rovescio, un gesto dolcissimo che solo Andre era in grado di mettere in pratica. Buffa cita Clerici: “Quella palla appena sfiorata che va a nascondersi vicino al seggiolone dell’arbitro”. Agassi spiega quella rivalità, rivelandone la grandezza: “L’unica cosa che lo sport non ti può garantire è avere un rivale in questo ambiente unico. Servono un paio di condizioni: i due devono essere al top nello stesso periodo e in qualche modo opposti. I rivali devono interpretare il gioco diversamente. Sotto questi aspetti io e Pete eravamo i rivali perfetti. Eravamo completamente diversi. Cresciuti in ambienti diversi, personalità diverse, modi diversi di interpretare il tennis, ma entrambi in lizza per il numero uno. Oggi è una rivalità speciale per me. Non era così quando giocavo.”

In fin dei conti quella di Agassi è solo un’altra storia americana: si cade e ci si rialza. La chiamano “epica del ritorno”. Nel 97 qualcosa si inceppa. Sposa Brooke Shields, una donna di cinque anni più grande e qualche centimetro più alta di Andre. Lo costringeva ad indossare scarpe che permettessero a lei di vestire i tacchi: “Si, è vero. A volte la vita è più divertente della finzione”. Divorziano nell’aprile del 99 e a maggio vince il Roland Garros: “L’impegno a tornare in vetta è la cosa di cui sono più orgoglioso nella mia carriera. Purtroppo ho passato molto tempo della mia vita auto-infliggendomi disgrazie con le mie scelte. Avevo bisogno di cambiare dentro, così che potessi cominciare a fare qualcosa di nuovo. Vivere pulito, rasarmi la testa ed essere efficace. Questo passaggio ha cambiato la mia filosofia in campo. Tornare per me è stato importante non perché volessi tornare numero uno. Ma perché sapevo che sarei potuto essere una persona migliore.

Per Agassi tornare ha rappresentato un modo di riflettere in campo la sua nuova vita, questa volta vissuta davvero. Raggiunge la serenità familiare sposando Steffi Graf: “Io volevo stare con Steffi per imparare da lei”. Buffa incalza, gli chiede cosa si prova a vivere con una donna che è stata migliore di lui, esattamente dove lui è stato il migliore. Agassi sorride: “Ti costringe ad essere umile. Non ho le mie coppe a casa. Se le avessi lei porterebbe le sue e sarebbe imbarazzante”

La chiusura è agrodolce. È il castello dell’odio-amore che si sbriciola e si rivela: Dopo quel Roland Garros non mi fece sentire troppo bene sapere che vincere potesse essere così importante per la mia vita. Perché non puoi dimenticarti di tuo padre che ti ha messo in testa che devi vincere sempre, che devi essere il migliore. E sentire che vincere fosse importante ha provocato in me un conflitto interiore. Volevo semplicemente essere felice. Ma non era così. Mi chiedevo: “E se non avessi vinto?”. È il pensiero che mi ha tormentato ogni volta che sono entrato in campo nella mia vita”

 

 

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