Daniil, il pivot russo che ha saputo svelare i difetti di Wawrinka (Clerici), Int. Ad Andre Agassi: "La mia vita piena di sfide tra Djokovic e Graf Riporterò Noie a vincere (Semeraro), Fragole e Panna. Kate nuova madrina 64 anni dopo la Regina (Marianantoni), Panatta ricorda Villaggio: «Ciao Adriano, sono ancora vivo?» (Jannello)

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Daniil, il pivot russo che ha saputo svelare i difetti di Wawrinka (Clerici), Int. Ad Andre Agassi: “La mia vita piena di sfide tra Djokovic e Graf Riporterò Noie a vincere (Semeraro), Fragole e Panna. Kate nuova madrina 64 anni dopo la Regina (Marianantoni), Panatta ricorda Villaggio: «Ciao Adriano, sono ancora vivo?» (Jannello)

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Rassegna a cura di Daniele Flavi

 

Daniil, il pivot russo che ha saputo svelare i difetti di Wawrinka

 

Gianni Clerici, la repubblica del 4.07.2017

 

Una giornata nella quale ero stato distratto dai costumi, dalla moda e dal patriottismo, mi ha infine costretto alla attività di cronista, per la più che inattesa sconfitta del povero Wawrinka, battuto da Daniil Medvedev, un giovane della contemporanea generazione dei Tennisti Pivot, quelli più alti di due metri. La vicenda è terminata all’ora in cui si chiudono, per solito, le Doherty Gates, i cancelloni in nero ferro che ricordano i primi vincitori del torneo. Probabilmente meno incapaci dello svizzero, i mitici fratelli, di mutare gioco, e di adattarlo a quello dell’avversario. Wawrinka è stato eguale a se stesso, nel male più che nel bene, ed ha fatto del suo peggio per mettere in palla il giovanissimo avversario, che migliorerà certo la posizione di 29 del mondo, forse raggiungendo il suo omonimo, ma non parente, Andriy Medvedev battuto nel ’99 da Agassi, al Roland Garros, dopo aver dominato i primi due set della finale. Prima di una simile esplosiva partita, avevo seguito, da osservatore, l’apertura dei Championships. Per un’esperienza abbastanza vecchia, ricordavo il primo giorno di Wimbledon come un giorno diverso. Ricordavo le signore in abito da pomeriggio e, spesso, con il cappello e, sempre, ricoperti da un blazer, una giacca blu, e stretti al collo da una cravatta, spesso regimental, i gentlemen. Tutta quella bella gente, quand’era priva del biglietto per il Centre Court, si assiepava lungo i vialetti fioriti che separano tuttora i campi, ma lo faceva in un modo infinitamente meno caotico, magari arrivando a cedere un posto sulle panchine a un vegliardo, un tipo dai capelli bianchi. Oggi gli spettatori erano vestiti con magliette dalle scritte più svariate, ma sempre vistose e coloratissime. Non meno colorate erano le scarpe, di gomma, che un calzolaio di vent’anni fa non avrebbe osato immaginare. Tra le ragazze il modello ora più usato sono mutandoni neri che terminano sotto il ginocchio, lasciando spesso nudi i polpacci, per lo più muscolosi. Tra i contemporanei ho osato infilarmi, alieno da un giornalismo che utilizza oramai soltanto visioni televisive, e conferenze stampa. Purtroppo la densità della folla era tale da impedirmi una visione decente di qualche giocatore che non conoscevo, tra i quali ero soprattutto interessato agli italiani. Grazie ad un giovane tennista di Alessandria, Enrico, che mi aveva consentito di infilarmi, a costo di trattenere il respiro, tra sé e la nonna, ho visto un, per me sconosciuto, Thomas Fabbiano, cui soltanto la statura, e il conseguente servizio, ha impedito di meglio opporsi ai due metri dell’americano Sam Querrey, testa di serie 24. Più fortunato, almeno per una volta, è stato Bolelli, reduce dai mille incidenti che ne hanno limitato la carriera, costringendomi all’errore quando lo vidi per la prima volta a Bologna, e affermai «da qui sono passati Canepele, Merlo, Sirola e Bertolucci. Ecco un nuovo campione». Dal Re degli infortuni ho saputo che aveva rischiato nelle qualificazioni soprattutto nel terzo set contro Groth, altro battitore da 240 l’ora. Ed era pertanto riuscito ad entrare nel tabellone, nel quale più volte l’avevo ammirato per quindici match passati, due dei quali perduti al quinto contro Nishikori, giungendo una volta a due punti dal match. Fognini, infine, si è allenato con il vecchio russo Tursunov, forse presente a Wimbledon per ritirare i quarantamila euro del primo turno. Delle italiane rimanevano da ammirare il genio di altri tempi, testardamente connessa alla contemporaneità, Francesca Schiavone, una Roberta Vinci dissimile dalla se stessa che fu, e quella che non ci ha lasciato grandi speranze di sostituirla, Camila Giorgi. Schiavone ha palleggiato disinvolta contro Mandy Minella, figlia di un migrante italiano in Lussemburgo, minatore. La attendeva, quale premio, l’abbraccio di Gianna Nannini. Roberta Vinci, che ho ammirato per anni grazie anche al rovescio da giardiniera, ha avuto due net sfortunati che le sono costati il primo set, e si è poi dissolta contro Kristina Pliskova, la sorella povera e mancina della quasi-grande Karolina. Quanto a Camila Giorgi, mi è parsa meno condizionata dall’assenza di un papà coach, che forse le consentirebbe, a ventisei anni, diversa personalità. Scrivo questo da vecchio amico, da chi l’accolse, bambina di ritorno dall’Argentina, intuendone il talento tennistico. Siamo ormai quasi privi di nuove giocatrici, e di nuovi campioni. Camila può ancora essere il collante tra quanto ci resta, e il futuro.

 

Int. Ad Andrea Agassi: “La mia vita piena di sfide tra Djokovic e Graf Riporterò Noie a vincere

 

Stefano Semeraro, la stampa del 4.07.2017

 

Andre Agassi vinse il primo dei suoi otto tornei dello Slam 25 anni fa proprio qui, a Wimbledon, in una memorabile finale contro Goran Ivanisevic. Ora ci torna da coach di Novak Djokovic. Andre, quanto è cambiato il torneo da allora? «Sicuramente i rimbalzi sull’erba sono diversi, il ritmo dei colpi, infatti si giocano più scambi, soprattutto da dietro la linea di fondo. Inoltre i campi reggono meglio e questo è un vantaggio per chi gioca da dietro. Un tempo dopo la prima settimana non c’era un rimbalzo uguale all’altro…». Cosa ricorda di quel trionfo? «Che fu un grande sollievo. Avevo già perso tre finali di Slam, a Wimbledon nessuno pensava che avrei potuto vincere e questo sicuramente mi salvò. Decisi di giocare in maniera molto aggressiva e ci riuscii». Fare il coach le piace? «Mi piace conoscere meglio Novak. Tutti sanno quello di cui è capace, la sfida che mi intriga è trovare nuovi modi per aiutarlo a vincere». Che cosa ha imparato che non sapeva dell’uomo Djokovic? Ai campioni di oggi manca personalità? Non confondiamola con la maleducazione mia o di McEnroe… Federer, Nadal e Co sono straordinari «Novak non è quello che appare in tv. A una persona di grande profondità: se tu gli parli, sei l’unica persona che conta nella stanza». Djokovic è un Agassi 2.0? «A più forte. Per come si muove, come controlla la palla, come risponde. Entrambi sappiamo colpire la palla in anticipo, ma lui si muove meglio quindi ha più opzioni». Quanto è importante l’attività della sua fondazione? «Molto. È come la collaborazione con Lavazza, un modo di fare del bene. Dare un’opportunità ai giovani è per me una priorità. La considero una ricompensa, qualcosa che sono riuscito a ottenere grazie al tennis e che oggi occupa un terzo della mia vita». Parla mai della situazione del tennis femminile con sua moglie Steffi Graf? Forse ancora oggi potrebbe essere fra le prime 100 del mondo… «Le ragazze hanno sviluppato uno stile di gioco basato sulla potenza e Mia moglie fa tutto meglio di me, la batto solo quando parlo… Oggi i tennisti invecchiano meglio: il fisico regge di più Andre Agassi Ex tennista americano, 60 tornei vinti in carriera Steffi era molto brava a neutralizzare quel tipo di tennis. Ma per stare fra le prime 100 devi giocare tornei in continuazione, credo che neppure lei potrebbe farcela». Anni fa a Milano le chiesi se c’era almeno una cosa che sapeva fare meglio di sua moglie. La risposta fu: no. È migliorato nel frattempo? «No, riesco sempre a fare tutto peggio (ride, ndr). Steffi sa gestire meglio emozioni e stress, è più organizzata. L’unica cosa in cui sono più bravo è parlare: riesco a farvi credere a quello che dico…». Come vi dividete gli impegni della giornata? «Abbiamo parecchi animali, Steffi si sveglia prima per dare loro da mangiare. Poi facciamo colazione, accompagniamo i nostri figli a scuola o ad allenarsi. Lavoriamo un po’ in ufficio oppure da casa, pranziamo insieme e di nuovo il pomeriggio seguiamo i ragazzi. Una vita piena». Il tennis è dominato dagli over 30: in tabellone a Wimbledon ce ne sono 48. Merito loro o colpa dei giovani? «I giovani sprecano delle occasioni, ma è naturale. Un vantaggio nell’invecchiare è che sai cosa fare e cosa no. La differenza è che una volta il corpo ti abbandonava in fretta, mentre i campioni di oggi possiedono il massimo dell’esperienza e un fisico ancora integro». Alla nuova generazione manca personalità o siamo noi che abbiamo nostalgia di campioni come lei, McEnroe o Connors? «Non confondiamo la personalità con l’essere maleducati. A volte mi sono comportato da idiota in campo e non credo che McEnroe e Connors si offenderebbero se dicessi lo stesso di loro. Oggi ci sono fuoriclasse come Djokovic, che dà sempre tutto se stesso. Oppure pensate all’intensità di Nadal, alla grazia di Federer, alla grinta di Murray». C’è un campione del passato con cui avrebbe voluto giocare? «Borg. Mi piaceva molto, sarei curioso di vedere come si muoveva sul campo, quanto era veloce». Le piace l’idea di cambiare il tennis accorciandone i tempi? «No. Il tennis è bello perché porta al limite mente, cuore e corpo. Se limiti lo sforzo fisico se ne va una parte fondamentale». Il presidente Usa Trump vuole limitare l’immigrazione. Lei, figlio di un immigrato iraniano, è d’accordo? «E vero che gli Usa sono un Paese costruito dagli immigrati. Ma è anche vero che se vuoi farcela devi lavorare duro e adattarti per essere accettato. Non mi va l’idea che oggi si possa entrare in maniera illegale. È scorretto anche per gli immigrati che rispettano le regole». Ricordi dei tornei in Italia? «La prima volta ci ho giocato a Firenze, persi un match divertente con Claudio Panatta. Poi c’è stato il debutto a Roma, contro Simone Colombo: il pubblico era caldissimo, mi tiravano di tutto. Con il tempo però la gente ha iniziato a tifare per me. Vincere al Foro è stata un’esperienza magnifica».

 

Camila è tornata irrefrenabile

 

Daniele Azzolini, tuttosport del 4.07.2017

 

Siamo un popolo di erbivori? Capita di chiederselo, a Wimbledon. Non sempre, ma ogni tanto si. Del resto, dovremmo esserlo, se non altro per omaggio alla nostra Italia, Paese dei Vitelli. Non siamo proprio in campo tennistico, ma un po’ di attinenza c’è. E poi, un’erbivora l’abbiamo, è Camila Giorgi. Erbivora se non altro perché gioca d’istinto, e sull’erba ancora si fa cosi. Nel 2013 giunse agli ottavi, e nessuno la conosceva. Neanche lei conosceva l’erba, ma si fece rapidamente la nomea di quella che è meglio non trovare per strada ancora cosi, e lo pensano tutte, da Angie Kerber in giù. L’istinto spinge Camila a tirare a più non posso, e ora che un po’ di problemi fisici li ha messi da parte («vedrete, anche la classifica finirà per migliorare», promette), è tornata lietamente a darci dentro. Fa correre la palla, e sull’erba le riesce anche più facile. A volte (spesso, per la verità) dimentica di mettere in campo quel pizzico di tattica che servirebbe, ma anche in questo è migliorata, forse per l’età che non è più quella di una bambina, forse per via delle sconfitte evitabili, che sono state tante, se non troppe. Contro la francese Alize Cornet (che qui nel 2014 aveva eliminato Serena Williams), proprio ieri, ha mostrato qualche educato tentativo di sottrarsi agli scambi che un tempo tanto le piacevano, quelli condotti in bilico sullo strapiombo, alla morte, nei quali alla fine una precipita di sotto. Ha piazzato qualche palla audace, e lo ha fatto con discernimento. Ha rimontato, ed è quello che conta di più. Sotto 5-0 nel primo set, ha scalato lo score fino al cinque pari, poi si è un po’ confusa e il primo l’ha perso, ma ha condotto le operazioni nei due successivi e ha rimandato a casa la francese che porta occhiali da beach volley e fa finta di essere cazzutissima. E pazienza se poi sbrocca, la Camila, quando le chiedono della prossima awersaria, Madison Keys. «La conosco, l’ho incontrata, credo». Si, tre volte e l’ha pure battuta in Fed Cup. Dunque le chiedono come pensa di arginarla e lei guarda spaurita l’amico sparring (Gianluca Beghi, più che uno sparring, in realtà) che la segue in conferenza stampa, in sostituzione del padre. Le andiamo in soccorso. Perché non la prendi a pallate? E lei se la ride beata, «oh sl, è proprio quello che conto di fare».

 

Fragole e Panna. Kate nuova madrina 64 anni dopo la Regina

 

Luca Marianantoni, la gazzetta dello sport del 4.07.2017

 

Debutto a Wimbledon come nuova madrina del torneo per la principessa Kate Middleton. In dicembre, infatti, la Regina Elisabetta ha ceduto il ruolo di presidente dell’Alt England Lawn Tennis and Croquet Club, dal 1877, data della prima edizione, sede dello Slam britannico, e dopo 64 anni il suo posto è stato preso dalla moglie del principe William. DE SORIEGGIO Non è andata bene alla coppia azzurra Fognini/Seppi nel torneo di doppio: trovano subito le teste di serie n. 1 Kontinen/ Peers (Fin/Aus). In gara anche Lorenzi insieme al francese Mannarino: se battono i britannici Clayton/O’Mara avranno i vincitori del match di Fognini. Tra le donne, unica azzurra la via la Schiavone in coppia con la georgiana Kalashnikova. SOSPESO L’australiano James Frost, 28 anni, numero 1498 del mondo, è stato sospeso da ogni attività in quanto sotto investigazione dell’unità anticorruzione dell’Itf. Il giocatore era stato già squalificato nel 2013 per non aver cooperato con la Tennis Integrity Unit.

 

Panatta ricorda Villaggio: «Ciao Adriano, sono ancora vivo?»

 

Riccardo Jannello, il Quotidiano Nazionale del 4.07.2017

 

«Pensavo che Paolo fosse immortale, ma avevo capito qualcosa da una telefonata di Maura un mese fa: Lui è in clinica e vorrebbe sentire la voce di qualcuno che gli vuole bene’. Ho il grosso rimpianto di non essermi preoccupato, di avere aspettato troppo per andarlo a trovare. Domenica ero a cena con amici che mi chiedevano di lui e mi ero ripromesso di chiamarlo ieri mattina. Ma la sua morte mi ha preceduto. Pensavo non potesse morire». Adriano Panatta, ex campione del tennis e amico carissimo di Paolo Villaggio, con il quale ha scritto il libro Lei non sa chi eravamo noi’, non si capacita dell’addio. Quando vi siete conosciuti? «Negli anni 70 a Cortina. Io giocavo ancora, lui era nel pieno del successo. Ne avevo soggezione per la cultura immensa, ma diventammo subito amici». Che cosa vi legava? «L’ironia, la curiosità, la voglia di vivere e di conoscere sempre cose nuove. Eravamo quelli che facevano le domande più intriganti, quelli a cui bastava guardare qualcuno per capire che tipo fosse. Paolo era la persona più intelligente che abbia mai conosciuto». Scherzava molto sulla morte, più volte lo hanno dato defunto. Come la prendeva? «A volte era lui che metteva in giro la voce della sua morte per vedere l’effetto. Era un modo per sfuggire alla morte, di cui in fondo non aveva paura, ma lo infastidiva molto l’idea di morire». E come scherzava su questo? «Una volta mi telefonò: Adriano, volevo sapere se sono ancora vivo’. E io: Penso di sì, Paolo’. ‘Vedi — mi disse —, neppure tu ne sei troppo sicuro, come d’altronde non lo sono io». Amava più il Villaggio uomo o il Villaggio attore? «Entrambi. L’amico Paolo non aveva rivali. Ma anche l’attore era fenomenale. Penso che Fantozzi sia stato il più grande ritratto di quel tempo, ma a parte quello lui era davvero bravo, con Fellini e Olmi ha dimostrato tutta la sua grandezza». Parlavate molto di cinema e teatro? «Io gli chiedevo un giudizio sugli altri attori, a volte smontava i miei idoli poi mi elencava quelli che secondo lui erano bravi e quelli che erano dei cani, come li chiamava lui. Tutto era molto divertente e sarcastico, come Paolo ci ha abituato. Ma non dirò mai neppure sotto tortura quei nomi». Che cosa era Paolo per lei, che è di una generazione successiva? «Un maestro. Un uomo di una cultura assurda, sapeva tutto e voleva che io leggessi. Non avevo molto tempo e allora gli chiedevo consigli per l’estate, quando potevo farlo con maggiore tempo a disposizione». E lui questi consigli glieli dava? «Sì, mi parlava di Kafka e di Dostoevskij, mi dette Il castello’ e Memorie del sottosuolo’». Libri capolavoro, ma assai impegnativi… «Infatti. Gli dicevo: ma Paolo queste sono pizze sotto l’ombrellone, non ci capisco nulla. Lui invece rispondeva molto sicuro: Te li do da leggere perché li capirai, tu sei più intelligente di quanto pensi. Io me ne intendo’». C’è un aneddoto divertente che riguarda il tennis, quella volta a Montecarlo… «Sì, dovevo giocare il sabato la semifinale con Vilas. La sera di venerdì, dopo la vittoria nei quarti di finale, mi chiamarono Paolo e Ugo Tognazzi. Veniamo a prenderti, facciamo una serata delle nostre’. Fu inutile dire loro che dovevo giocare il giorno dopo con un tennista che sarebbe andato a letto presto… Facemmo notte fonda, andando in giro per locali in tutta la Costa Azzurra. Con Vilas ho preso una stesa… Ma loro si divertirono molto». Che cosa vorrebbe dire a Paolo? «Che mi mancherà molto. Addio». «Paolo ti voglio bene» «GRAZIE PAOLO per avermi fatto entrare nel tuo immaginario, ti ho voluto e ti voglio bene». Questo l’ultimo messaggio di Milena Vukotic, alias Pina moglie storica del ragionier Fantozzi, in tanti film con l’attore genovese morto stamattina a Roma. «Gli sono grata e sono orgogliosa di avermi fatto far parte dei suoi film e soprattutto di avermi dato con grande umanità la sua amicizia e questo al di là del nostro lavoro che facevamo sulla scena», dice l’attrice che ha lavorato, tra gli altri, con registi come Luis Bunuel, Ettore Scola, Mario Monicelli, Franco Zeffirelli e Andrei Tarkovskij. Per la Vukotic Paolo Villaggio «è una maschera che resterà nel mondo del cinema, non solo italiano, ma universale. Una maschera che poteva nascere solo come riflesso della sua intelligenza e del suo straordinario sguardo sul mondo, allo stesso tempo, così distaccato e colto». La Vukotic racconta anche un aneddoto di quando andò a cena a casa di Paolo Villaggio e la cameriera disse alla moglie vera dell’attore: «Signora, è arrivata la moglie di suo marito». LA SIGNORINA SILVANI «Morta la mia giovinezza» «È MORTA anche h mia giovinezza. Fantozzi è stato l’unico uomo che mi abbia veramente amato». Così Anna Mazzamauro affida alla sua pagina Facebook il dolore per la morte di Paolo Villaggio, compagno di lavoro sul set per 25 anni. Per il suo indimenticato ragionier Fantozzi è stata infatti musa, spalla, femmina per antonomasia e sogno inarrivabile, nei panni della Signorina Silvani, l’impiegata vamp che appare sin dal primo film della saga, diretto nel 75 da Luciano Salce, fmo all’ultimo, nel 99, «Fantozzi 2000 – La clonazione» di Domenico Saverni. Ruolo per il quale la Mazzamauro arrivò anche due volte alla nomination per i Nastri d’argento e che le fu assegnato, in realtà, dopo esser stata scartata ai provini per interpretare il suo opposto: Pina, la dimessa moglie di Fantozzi. «Oggi Anna Mazzamauro preferisce fare un passo indietro e non aggiungere nulla, anche per rispetto verso i figli di Paolo Villaggio. Magari nei prossimi giorni — spiegano dal suo entourage —. Ma a Villaggio dedicherà il Premio CineCiak d’oro che riceverà a Riccione». 0 I libri Saggi e comicità La vita da scrittore Non solo attore ma anche scrittore. Paolo Villaggio oltre ad aver scritto libri sul suo personaggio più famoso, Fantozzi, ha anche firmato libri dissacranti, quasi dei saggi, tipo «Come farsi una cultura mostruosa» 0 La musica Amico di De André e suo paroliere L’amicizia con Fabrizio De André iniziò nel 1948 a Cortina. Entrambi ribelli provenivano da famiglie borghesi. Nel 1962 insieme scrissero la canzone «Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers»

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