Ritratti: Ivanisevic, l'uomo che fermò il mondo del tennis

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Ritratti: Ivanisevic, l’uomo che fermò il mondo del tennis

“La storia di Ivanisevic è una storia che si può racchiudere in 7 minuti e 10 secondi”

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Ritratti: Adriano Panatta  –  Yannick Noah

I brasiliani d’Europa li chiamavano. Un misto di talento, follia, genialità, di etnie e religioni. Era la Nazionale di calcio della Jugoslavia. La precarietà dello Stato, puzzle di diverse Nazioni, una volta morto il collante Tito, si sarebbe manifestata in tutta la sua tragicità nel 1991, dando vita ad una guerra civile e secessionista tra le più cruente dell’epoca moderna. Homo Homini Lupus! Tanto morse il licantropo che l’osso jugoslavo si frammentò in 7 stati sovrani, ognuno con la propria peculiarità culturale, ma non disperdendo, nel piccolo delle vicende sportive, quella parte di follia e genio che l’aveva sempre contraddistinto. Goran Ivanisevic nacque jugoslavo e finì croato. Probabilmente come tutti i croati lo nacque anche, ma sentirsi insieme croato e jugoslavo prima del 1990 era una cosa troppo normale per farci caso. Goran Ivanisevic, in una patria di calciatori e cestisti divenne tennista e del concetto di “brasiliano d’Europa” inteso come genialità e follia, lui aveva tutto. Della seconda anche troppo. La storia di Ivanisevic è una storia che si può racchiudere in 7 minuti e 10 secondi. Tanto sarebbe durato lo scontro finale con la sua personale balena bianca.

La vita è fatta da incastri, da incroci che ne segnano la direzione. Luglio 1992. Il redivivo Andrè Agassi, anticipatore di un decennio del tennis che sarebbe venuto, sfida Goran Ivanisevic nella finale di Wimbledon. Agassi ci è arrivato basando tutto sulla risposta al servizio e sull’uno due manco fosse un pugile. Due schiaffi da fondo e via, avversario fermo e palla che tocca terra e fila via nei teloni da rivederla al rallenty poi. Ivanisevic ci arriva con una media di due, tre servizi vincenti a game e dopo aver battuto Pete Sampras. Tra Pete e Goran il futuro del tennis sembra essere dalla parte della macchina da ace croata. Agassi vs Ivanisevic. Due dei colpi più definitivi e brutali della storia del tennis si incontrano nel tempio dei gesti bianchi. Però occhio che i due non erano solo quello, ma anche tennis vero. L’alternanza tra servizi vincenti e risposte vincenti porta il match al quinto. 5-4 Agassi al quinto. Ivanisevic to serve. Psicodramma. Si inceppa la macchina del servizio. Due doppi falli, nemmeno una prima e chiusura finale con una comoda volée affossata in rete. Wimbledon ha un nuovo campione, il mondo una nuova testimonianza del perché il tennis venga considerato lo sport del diavolo e patrimonio della psicoanalisi.

La vita è una questione di incastri. Di incroci, che ne determinano la strada. Luglio 1994. Finale di Wimbledon. Due anni dopo, ancora una volta da una parte della rete, Goran Ivanisevic. Ci è arrivato sommergendo di ace nei quarti, l’altra macchina spara servizi mancina, Guy Forget, e in semifinale uno dei migliori interpreti di sempre del tennis su erba, Boris Becker. Dall’altra Pete Sampras che nel frattempo di strada ne ha fatta, ma che ancora negli scontri diretti con Ivanisevic pare non dare l’idea di sentirsi ed essere poi tanto superiore. Il match è equilibrato. Il gioco si ancora alla regola del servizio e i primi due set finiscono al tie break. Li vince entrambi Sampras, grazie a quel po’ di tenuta di testa in più e capacità di controllo del proprio genio. Terzo set. Goran lascia in campo il suo ologramma. È già sotto la doccia. 0-6 senza storia. Si è giunti al bivio. Le strade dei due si separano. Sampras si appresta a percorrere la strada che ascende all’Olimpo, diventando l’incarnazione di Dio con una racchetta in mano, Ivanisevic quella del tennista geniale matto come un cavallo, capace di tutto nel bene e nel male, ma più nel male.

Fra ace e mattane, la carriera di Goran continua e così l’affetto e la comprensione del mondo per il sempre al seguito e inquadrato dalle TV nelle sue espressioni di sconforto, papà Srdan. Alla fine del 1994, Goran è numero 2 del mondo dietro il Divino Sampras. Vengono successi, vittorie in tornei importanti come la Grand Slam Cup nel 1995, piazzamenti negli Slam. Ancora una finale a Wimbledon nel 1998, ancora contro Sampras, in un match che sembrava aver preso la direzione croata. Non la prese. Sampras vittorioso al quinto per il suo undicesimo Slam e quinto Wimbledon. L’espressione di Ivanisevic alla premiazione,  una delle più memorabili interpretazioni della Delusione mai viste.

E la prima di servizio va. Gli ace piovono dal cielo copiosi al punto da far interrogare i soloni della federazione internazionale se sia il caso di rallentare le superfici e le palle al fine di rendere il gioco più continuo, ma al momento di Ivanisevic si aggiornano le tabelle dei record degli ace, i “circoletti rossi” come Tommasi era solito chiamare i punti spettacolari nelle sue telecronache col fido Clerici e soprattutto si aggiorna l’elenco dei raptus di follia assoluta. Durante un torneo a Brighton nel 2000 si ritira per “mancanza di appropriata attrezzatura”. Non aveva più racchette nemmeno in borsa. Spaccate tutte. Un giorno per clowneria, ci avrebbe anche fatto due palle con una racchetta di quelle appena spaccate durante un match, così giusto per riderci su, perché il male non è mai banale né deve prendersi troppo sul serio.

E la prima di servizio va. Continua ad andare, ma sempre più con dolore. Il tendine della spalla inizia a ribellarsi a tutti quegli strappi. La carriera inizia ad avere delle interruzioni, al punto che nel luglio del 2001, Goran è solo numero 125 del ranking, cosa che non gli consente di entrare nel main draw di Wimbledon. Gli viene data una wild card. Si tratta pur sempre di un tre volte finalista del torneo. Al Queen’s la settimana prima perde al primo turno contro Caratti, tennista bravo nel giocare di controbalzo, ma non propriamente un erbivoro. Si teme un passaggio per Wimbledon anonimo. Il destino aveva invece in serbo una delle storie più belle dello sport moderno. Ivanisevic, tra pianti, stenti, lacrime, sorrisi, attacchi di furia, di isteria, bile ed ilarità, tra mille sofferenze, colpi geniali e sciocchezze da principiante, mette su un recital di emozioni che fa di ogni suo match una epopea di stampo classico.

Secondo turno: Carlos Moya, astro nascente del tennis spagnolo. Ivanisevic in 4 set. Terzo turno: Andy Roddick, ancora Ivanisevic in 4 set. Ottavi contro il bombardiere naturalizzato inglese Rusedski: Ivanisevic in 3 set. Sembra un sogno. Incredulità sua per prima, è ai quarti, contro Marat Safin, numero 4 del mondo. Ivanisevic ancora in quattro set. Semifinale. Ivanisevic contro l’idolo locale Tim Henman, detto Timbledon per il suo naturale gioco su erba e per una speranza tutta inglese di avere finalmente in casa un nuovo vincitore del torneo. Vince Ivanisevic al quinto ed è la sua quarta finale, raggiunta da quasi ex tennista mezzo infortunato, ripescato con una wild card. Quarta finale nel torneo che ha più volte sfiorato e mai conquistato. Ivanisevic come il Capitano Achab.

In finale trova Pat Rafter, tennista gentleman australiano di quelli nati con l’erba sotto le scarpe, mirabile interprete del serve & volley. Rafter ha tutto perché Wimbledon gli spetti. La partita va via tra emozioni contrastanti ed alternate. Sull’8-7 per Ivanisevic al quinto il match smette di essere un match di tennis e diventa qualcos’altro. Ivanisevic va a servire sull’8-7 al quinto. Le gambe gli tremano, il cervello è altrove, il crollo emotivo già in atto. Trema, piange, scuote la testa incredulo. Ma non ha scelta stavolta. Non può boicottarsi. La pressione la si accetta, la si sfida perché l’adesso è ora. Ora o mai più. Il destino ha scritto una storia nella quale lui è protagonista, non può tradirla. Deve affrontarla. Intorno mille emozioni. Si arriva tra una volée divorata e un doppio fallo al 30-15 Rafter. Goran in uno stato di trance, opera processi di transferts con l’asciugamano. Funzionano. 30-30 Ace. Match point, quello di una vita. Chiede al raccattapalle la palla con cui ha fatto il punto del 40-30. Piange e prega. La gente fa uguale. Come contro Agassi 9 anni prima, il servizio si inceppa al momento decisivo. Doppio fallo. Parità. Ace. Nuovo match point, il punto di una vita. Stavolta sembra più sicuro Goran. Stanco di soffrire, vuol vincere e farla finita con questa agonia. Questa volta il braccio non tremerà. La prima non entra, la seconda nemmeno. Ancora doppio fallo.

Ivanisevic è sconfortato. Teme gli possa sfuggire il mondo dalle mani ancora una volta. Teme di non essere all’altezza di interpretare il ruolo che gli è stato sceneggiato. Rafter, più razionale, fa da spettatore. Sa che di suo può far poco. Sa che il destino è nelle mani dell’altro. Sa che al centro della sceneggiatura il destino ha messo l’altro. Serve Ivanisevic, segue il servizio a rete. I fantasmi del passato gli trattengono la mano. La volée non è definitiva, ma il passante in back di Rafter si allarga e finisce in corridoio. Ivanisevic si inginocchia sul punto dove la palla è caduta. Ringrazia il cielo. Prega. Terza palla della vita. Scioglie il braccio come ad esorcizzare il demone doppio fallo. Non fa doppio fallo e allora Rafter inventa una magia. Pallonetto a scavalcare l’uomo a rete e via con l’ennesima parità. Sono in molti a rischiare un tracollo emotivo in tribuna, in primis i tifosi Croati numerosamente presenti. Parità. In rete la risposta di Rafter ed ennesimo Championships Point Ivanisevic. Il punto di una vita. Chiede la palla con cui ha fatto il punto precedente e in uno stato confusionale va a servire, sperando che dalla confusione esca qualcosa di sensato. Papà Srdan vorrebbe esser morto qualche decina di minuti prima. Ha fatto bene ad aspettare, perché la risposta di Rafter finisce in rete e lui diventa padre del vincitore di Wimbledon. 7 minuti e 10 secondi la durata del game, della caccia alla sua balena bianca. Questa volta però Achab ha vinto.

Il ritorno in patria di Goran fu un trionfo, prima vittoria importante di uno sportivo croato nel mondo, vittoria dedicata all’amico scomparso Drazen Petrovic, stella di assoluta grandezza del basket croato. Li finì la storia di Ivanisevic tennista. Tra attività a singhiozzo causa il solito tendine della spalla, nel tennis gli era rimasto solo uno sfizio oramai da coronare: ritirarsi dopo la 600esima vittoria da professionista e farlo a Wimbledon. Perse al terzo turno, riuscendo a fare entrambe le cose. Altre vicende lo avrebbero visto protagonista poi, anche l’essere inserito, pur avendo smesso già da un anno, nella rappresentativa di Davis che avrebbe vinto la Coppa nel 2005. Attualmente si diverte ad essere una star del Senjor tour dove dispensa ancora magie clownerie ed ace, e l’essere un coach affermato, vincitore anche di un US Open al fianco di Cilic.

La storia di Ivanisevic è una storia che si può racchiudere in 7 minuti e 10 secondi. Tanto è durato lo scontro finale con la sua personale balena bianca. 7 minuti e 10 secondi lunghi quanto una vita e brevi come una morte, dove ti passa tutta la vita davanti e ti piace talmente tanto da risvegliarti appena in tempo per dire alla morte di ripassare più tardi, che quel piccolo arco di tempo è talmente bello che no, non si può proprio morire adesso su un tappeto verde nel circolo del tennis più famoso del mondo.

Fede Torre

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