Il tennis in Sudafrica: una rivoluzione a metà

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Il tennis in Sudafrica: una rivoluzione a metà

Un viaggo alla scoperta del ruolo del tennis nel Paese africano più nobile per il nostro sport. Un ruolo che spesso è andato oltre quello di semplice sport, ma il percorso non è ancora concluso

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Credo di avere una qualche credibilità se parlo di Sudafrica. Sono cresciuto in un contesto simile, avendo vissuto la segregazione negli Stati del Sud […] Il mio primo viaggio in Sudafrica mi ha convinto del fatto che avrei potuto giocare un ruolo significativo nell’accrescere il livello di consapevolezza all’interno della comunità bianca sia del Sudafrica sia degli Stati Uniti” (Artur Ashe)

Ancora fra gli anni novanta e i duemila il continente africano, o perlomeno parte di questo, è rappresentato da una schiera non marginale di tennisti di caratura internazionale. Gli esponenti di punta di quel “movimento” erano entrambi sudafricani: Wayne Ferreira e Amanda Coetzer. Il primo, due volte semifinalista agli Australian Open (1992 e 2002), ha raggiunto il suo best ranking nel 1995 (n. 6). Ferreira era un tennista tanto versatile quanto solido. Se ne decantava il dritto, ma anche il rovescio bimane era un colpo a tratti devastante. Sul versante femminile Amanda Coetzer ha vissuto il suo periodo d’oro nella fase 1996-1998. Grazie a un’autentica rivoluzione nei colpi fondamentali (passaggio all’open stance piena e correzione del servizio) Coetzer in due anni è stata capace di disputare tre semifinali Slam. Nelle classifiche di quegli anni si sono guadagnati una discreta posizione anche altri tennisti sudafricani: Marcos Ondruska, n. 27 nel 1993, e Grant Stafford.

Il Sudafrica non era però solo il solo Paese del continente con una reale presenza sulla scena tennistica mondiale. In quella fase di grande varietà e pluralismo tennistico che sono stati gli anni novanta, hanno trovato il loro posto anche i marocchini Hicham Arazi e Younes El Aynaoui, entrambi per quattro volte ai QF di un Major, e Karil Alami; sempre presente nelle classifiche di quegli anni anche la bandiera dello Zimbabwe, rappresentato da una famiglia: la Black, che a dispetto del cognome faceva parte della ristrettissima popolazione bianca del Paese. I fratelli Byron e Wayne hanno raccolto una sfilza di titoli in doppio, fra cui tre Slam (ma non in coppia, perché il compagno di Wayne era un altro connazionale, Kevin Ullyett); ancor più esaltante la carriera della sorella Cara, doppista sopraffina, sessanta titoli conquistati, fra cui cinque Slam, nella specialità. Dopo il ritiro dei Black nessun tennista zimbabwese sarebbe più riuscito a emergere, complice il tracollo economico del Paese e del sistema tennistico nazionale. In sostanza, se le nazioni più povere dell’Africa sono sempre state, inesorabilmente, escluse dall’accesso al tennis mondiale, negli anni ’90 il continente era comunque rappresentato da tennisti stabilmente presenti nella top 100 prima che il tennis si riposizionasse saldamente sull’asse europeo.

Lo sviluppo del tennis in Sudafrica ha caratteristiche molto particolari perché è storicamente connesso al regime politico: prima alla colonizzazione britannica, poi all’orrore dell’apartheid attuato organicamente a partire dal 1948. Il punto centrale è che questo sport è stato a lungo prerogativa della minoranza bianca e tutt’oggi, come vedremo, resta uno sport elitario. I primi club nascono nei principali centri urbani verso la fine dell’ottocento e sono frequentati esclusivamente dalla minoranza bianca, in alcuni casi sono direttamente il frutto dell’esportazione del tennis da parte degli occupanti britannici. Solo negli anni trenta il tennis inizia a coinvolgere la popolazione nera ma anche in questo caso si tratta di una “black elite” urbanizzata, perché mai il tennis riesce a penetrare a livello popolare se non nell’ambito del sistema scolastico supportato dai missionari. Un sistema dal quale però non si poteva emergere perché già all’epoca i neri erano esclusi dalle competizioni sportive nazionali. L’apartheid insomma già esisteva sia pure non nelle forme istituzionalizzate che avrebbe assunto a partire dal 1948. Né al tennis fu attribuita quella funzione che i regimi coloniali assegnarono ad altri sport, ovvero di “civilizzazione” e “normalizzazione” delle popolazioni locali.

Per dimostrare l’assunto del tennis come sport bianco è sufficiente scorrere i nomi degli esponenti di spicco della storia tennistica del Paese. Ferreira, Coetzer e gli altri in epoca più recente, ma risalendo indietro nel tempo troviamo Sandra Reynolds, finalista a Wimbledon nel 1960; Eric Sturgess, sconfitto tre volte in finali Slam a cavallo fra gli anni quaranta e cinquanta; Cliff Drysdale, n. 4 mondo nel 1965, l’anno della finale persa allo US Open; Kevin Curren, poi divenuto cittadino statunitense, che fra l’84 e l’85 perse la finale dell’AO da Wilander e quella di Wimbledon da Becker; infine Johan Kriek, naturalizzato statunitense, il più titolato: due vittorie agli Australian Open (1981 e1982) e brillanti risultati anche negli altri tornei dello Slam.

A partire dagli anni sessanta, proprio a causa delle politiche segregazioniste, la comunità sportiva internazionale mette il Sudafrica all’angolo. Il Paese viene espulso dalla Federazione calcistica internazionale ed escluso dalle competizioni olimpiche. A livello tennistico la squadra sudafricana viene espulsa dalla Coppa Davis del 1970 dopo che l’anno prima il Governo aveva negato il visto ad Artur Ashe che avrebbe dovuto partecipare al South African Open, il principale torneo del Paese. Ashe sfruta l’occasione per denunciare a livello mondiale la violenza dell’apartheid. La sua reazione ha conseguenze non di poco conto. La nazionale sudafricana, tuttavia, viene riammessa alla Davis del 1974 e riesce finanche a vincere quell’edizione, ma solo perché gli avversari della nazionale indiana disertano le finali di Johannesburg in segno di protesta per le politiche segregazioniste.

Con la fine dell’apartheid, all’inizio degli anni novanta, la situazione tennistica del Paese avrebbe dovuto subire una svolta. Così però non è stato, perlomeno in larga parte. Il primo effetto è stato naturalmente la cancellazione delle sanzioni in ambito sportivo, che ha consentito agli atleti sudafricani di competere alla Coppa Davis, alla Fed Cup e ai giochi olimpici. Amanda Coetzer ha raccontato del clima di pregiudizio e circospezione che aleggiava intorno agli atleti Afrikaner, e allo stesso tempo l’importanza che per la sua carriera ha rivestito l’incontro con Nelson Mandela alle Olimpiadi del 1992, che sancirono il ritorno del Sudafrica nella comunità sportiva internazionale. Da quel momento la carriera di Amanda subisce un’impennata, e anche a livello maschile arrivano risultati di rilievo.

Per accertare l’esistenza di una struttura tennistica viva a livello nazionale occorre sempre allargare lo sguardo oltre i piani più alti del ranking. E da questo punto di vista va notato che a metà degli anni ‘90 i sudafricani nelle prime 1000 posizioni del ranking erano oltre trenta. C’era dunque una scuola, e c’erano degli investimenti che consentivano ai talenti di emergere. Ma è stata una rivoluzione a metà. Perché gli sforzi economici volti a diffondere la cultura tennistica anche nel resto della popolazione non hanno prodotto risultati. Certo, il tennis sudafricano ha provato a scalare addirittura le vette del tennis mondiale, ma è rimasto uno sport elitario. E rigorosamente bianco. Se a questo si aggiunge la scarsa esposizione del Paese per quanto riguarda l’ospitalità di tornei internazionali – nel 2012 è stato soppresso anche il South African Tennis Open, che era un ATP 250 – si può ulteriormente comprendere come sia stato in questi anni molto difficile, se non impossibile, per chi non appartenesse all’elite economica emergere a livello tennistico. In Sudafrica ancora oggi esistono due distinte popolazioni del tennis, a suggerire la persistenza delle discriminazioni razziali e di classe, fra loro intrecciate.

Il sistema tennistico è strutturato intorno a due poli principali, entrambi con sede a Pretoria, più una serie di strutture private in cui giocano quasi esclusivamente i bianchi. Il primo polo è quello della Federazione sudafricana, dove si allenano i migliori talenti del Paese, anche in questo caso in maggioranza bianchi. La struttura è adeguatamente attrezzata, i coach sono di buon livello e sono presenti tutti gli specialisti oggi necessari per supportare la crescita di un tennista. Recentemente la Federazione ha annunciato di aver trovato un nuovo sponsor, finanziamenti per tre nuovi centri di sviluppo e un nuovo campionato nazionale per club con un sostanzioso prize money.

Il secondo polo è quello che fa capo all’ITF e che conta un numero ristretto di giocatori, in maggioranza neri, che giocano e si allenano a buoni livelli e provengono da differenti paesi della regione sudafricana. Non va dimenticato che l’ITF sostiene finanziariamente i tennisti dei Paesi in via di sviluppo attraverso una serie di iniziative e programmi. A beneficiare dei fondi previsti dal Grand Slam Development Fund quest’anno è stato anche il Next Gen Lloyd Harris, classe ’97, al momento la sola concreta speranza del tennis sudafricano “post Kevin Anderson”. Se, infatti, negli anni novanta vasta era la schiera di tennisti sudafricani presenti nei meandri del ranking, attualmente se ne contano soltanto tre: Anderson (35), Harris (254) e Nicolaas Scholtz (253). Oltre la millesima posizione si trova un gruppetto di giovanissimi, fra i 16 e i 18 anni, che hanno conquistato il loro primo punto ATP.

Nel Paese Kevin Anderson è considerato il prosecutore del ruolo, soprattutto in termini emulativi per i più giovani, ricoperto da Wayne Ferreira negli anni novanta. Le carriere dei due però non sono paragonabili. È vero che anche Anderson si è spinto fino alla top 10 (n. 10 nel 2015, l’anno della finale al Queen’s e dei QF allo US Open) ma in carriera ha raccolto tre titoli (tutti ATP 250) contro i 15 conquistati da Ferreira, fra i quali compaiono due Master (ex ATP Super 9). Altro protagonista del tennis sudafricano di questi anni è stato certamente Raven Klaasen, che ha consacrato una carriera al doppio regalandosi anche una finale agli AO nel 2014. Per quanto riguarda il talento Next Gen, Wayne Ferreira ha speso per lui parole incoraggianti ma al tempo stesso prudenti, da una parte elogiando i colpi fondamentali già molto puliti e perfettamente eseguiti, dall’altra osservando che nella scelta delle soluzioni tattiche si nota ancora che Harris “gioca come un ragazzino”. Ondruska, capitano della nazionale sudafricana di Davis, si è sbilanciato pronosticandone un futuro da top 20. Lloyd Harris ha conquistato finora 10 titoli Futures, di cui 6 nel 2016, e quest’anno ha sfiorato il primo successo Challenger sul cemento di Kyoto, cedendo in finale a Blaz Kavic al tie-break del terzo set. In Sudafrica si parla infine di un’altra promessa, Bertus Kruger, qualificatosi quest’anno per il tabellone principale del Roland Garros juniores. Il ragazzo è classe ’99 ed è n. 1501 del ranking.

Se a loro si augura certamente di tenere viva l’ottima tradizione tennistica nazionale, al Sudafrica si augura di completare la rivoluzione post-1990: il tennis come sport di tutti, per tutti, mandando definitivamente in soffitta le odiose barriere della storia.

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