Il 26 luglio di Nole

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Il 26 luglio di Nole

Djokovic annuncia una pausa dal tennis proprio nello stesso giorno in cui, l’anno scorso, Federer disse addio alla stagione 2016. Casualità o superstizione? “Nella vita tutto succede per un motivo”

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Il 26 luglio del 1992, battendo Alberto Mancini nella finale di Kitzbuhel, Pete Sampras conquistò il primo titolo sull’odiata terra battuta. Nello stesso giorno, quattro anni dopo, una strana coppia debuttava all’Olimpiade di Atlanta; una coppia derisa da molti ma sostenuta dall’orgoglio sfrontato dei suoi componenti, ossia Mal Washington e André Agassi: “Fossimo in voi non ci sorprenderemmo, dovessimo arrivare a giocarci una medaglia”. Il 26 luglio del 1999 Pat Rafter inaugurò la sua prima e unica settimana al vertice del ranking ATP succedendo allo stesso Agassi, che, come da queste poche righe già si è intuito, risulta essere uno tra i protagonisti del bizzarro Nole-gate a cui stiamo, preparati il giusto, per dire la verità, assistendo. Quasi quattro lustri più tardi, infatti, il Kid di Las Vegas finirà sulla panchina del derelitto Djokovic, depresso da un 2017 scorbutico come pochi.

Il 26 luglio del 1953 Fidel Castro guidò l’assalto alla caserma della Moncada facendo di fatto scoccare la scintilla della Rivoluzione cubana. Esattamente sette anni prima, Harry Truman tramutava in legge l’Atto di sicurezza nazionale, istituendo, tra gli altri enti previsti da quel provvedimento, il Ministero della Difesa. Il Ministro della Difesa, negli ultimi cinque anni abbondanti di tennis, era stato Novak Djokovic, prima che un altro abile pretendente all’ambito gabinetto, Andy Murray, iniziasse a insinuare tra gli ingranaggi del dominatore serbo fastidiosi granelli di sabbia che l’avrebbero, di lì a poco, fatto deragliare. Il 26 luglio dell’anno scorso, in fondo a un torrido pomeriggio, Roger Federer annunciava l’intenzione di staccare dal tennis fino alla fine della stagione, gettando nel più cupo sgomento milioni di adepti sparsi ai quattro angoli del globo. Il 26 luglio 2017, giusto ieri, Novak Djokovic ha rilasciato una conferenza stampa che è una copia carbone del ferale comunicato svizzero dell’anno precedente. Problemi diversi ma riferibili alle stesse necessità (il “bisogno di restituire al fisico martoriato da mille battaglie almeno un po’ di riposo”) e tempistiche identiche (“è probabile che ci rivedremo all’inizio della prossima stagione”) hanno costituito l’oggetto delle lettere d’aspettativa spedite da Roger e Nole ai rispettivi, inflessibili datori di lavoro, che poi sarebbero tifosi, direttori di tornei e sponsor, pronti a ricoprirli d’oro nella stessa misura in cui sono spietati nel pretendere dai fenomeni in questione frequenti prestazioni in tutto il mondo, possibilmente sempre di altissimo livello.

Nole ha prima retto, poi vistosamente barcollato. Dubbi, ansie, illazioni; perfino gossip riguardanti un presunto tradimento perpetrato ai danni della dolce Jelena in una garçònniere di Los Angeles con una graziosa attrice indiana; voci incontrollate e smentite in fisiologico ritardo, sono in vari momenti intervenute per tentare di spiegare il clamoroso declino di Robo-Nole, che vedeva sgretolarsi l’immagine costruita a furia di immani corse e recuperi in spaccata d’invincibile padrone del circuito maschile. Completato il cosiddetto “Career Grand Slam” con la conquista dell’agognato Rolando 2016, nessuno avrebbe avuto l’ardire d’indicare un possibile limite alle mire espansionistiche del belgradese. Del resto i punti ATP accumulati – 16950, più di 8000 di vantaggio su Murray, il primo inseguitore – erano la misura, e insieme la percezione plastica, di un feudo che sembrava poter durare anni. E invece.

Il primo sinistro scricchiolio venne avvertito dalle parti di Church Road, quando Nole, l’incubo dei bookmakers che offrivano quote stracciate in lavagna per il quarto trionfo serbo a Wimbledon, fu inopinatamente spedito a casa dal recente semifinalista del torneo Sam Querrey. Da lì la crepa nella roccia si allargò, si divise, e infine divenne slavina. Sulla veridicità dei pettegolezzi summenzionati nessuno ha certezza né diritto di giudicare, ma la signora Djokovic, apparsa sporadicamente in tribuna durante lo US Open perso in finale contro Stan Wawrinka, veniva più volte ripresa mentre preferiva memorizzare gli ingredienti elencati sul retro del succo di frutta in dotazione, piuttosto che partecipare alle sofferenze del marito in campo. Dunque era una faida familiare il cataclisma alla base del triste declino? Difficilmente una spiegazione univoca funge d’arcolaio per sbrogliare una matassa tanto complessa. Anche perché Nole aveva nel frattempo concesso un barlume del vecchio sé, vincendo l’ultimo dei suoi trenta, dicasi trenta, Masters 1000 alla Rogers Cup, facendo sospettare a molti che l’incidente di Wimbledon fosse stato, appunto, un episodio destinato a rimanere isolato.

Invece a rimanere isolato fu l’exploit canadese, e Djokovic lentamente si è eclissato. Sempre meno disposto a vestire i consueti panni del giullare a margine delle vittoriose scorribande; sempre meno propenso a recitare la parte dell’innamorato che regala il proprio cuore al pubblico in calce all’ennesimo trionfo; sempre più cupo e solitario, Novak è uscito in lacrime al primo turno delle Olimpiadi di Rio travolto dai missili di Juan Martin del Potro, poco prima di raggiungere la citata, rocambolesca finale a New York, peraltro persa esibendo uno stile una volta tanto stropicciato, con pause mediche piazzate più o meno ad arte. In autunno, egli ha perfino marcato visita nel feudo di Pechino, dove il suo curriculum, adornato da 29 vittorie, nessun ko e sei titoli conquistati, era e resta tuttora immacolato. Infine il colpo di coda alle Finals londinesi e un ultimo atto raggiunto contro pronostico e sciaguratamente regalato ad Andy Murray, che contestualmente, per mettere il dito nella piaga serba nel frattempo divenuta voragine, gli sottraeva la disponibilità della prima posizione mondiale dopo anni di regno incontrastato.

Il 2017, fino al momento dell’annuncio di una pausa che ormai tutti si attendevano, è stata una carestia interrotta dai brodini sorbiti a Doha e a Eastbourne, caratterizzata dalla clamorosa decisione di licenziare l’intero staff e per primo lo storico coach Marjan Vajda nel bel mezzo della stagione sul rosso, con tanto di assunzione part time di André Agassi; e dalla finale romana, unica partita davvero importante che il fantasma di Nole è riuscito a giocarsi negli ultimi sei mesi. Poi l’annuncio, prima ventilato, poi ammesso a mezza bocca dal sodale Mario Ancic, un tempo habitué nei quarti sui prati londinesi, ora apprezzato businessman, nel frattempo chiamato al capezzale del confuso ex numero uno per rattoppare la stagione sull’erba; e infine concretizzatosi in una conferenza stampa ampiamente anticipata e recitata a volto sereno.

D’altronde, quale sarebbe il motivo per non guardare al futuro con fiducia? Il 26 luglio dello scorso anno in molti utilizzarono le campane a morto come colonna sonora dell’annuncio del vecchio Roger, e guardate com’è andata a finire. “Nella vita tutto succede per un motivo”, ha declamato il nuovo Nole, l’ecumenico maestro zen illuminato sulla via di Pepe Imaz. Forse si riferiva al suo di annuncio, diramato curiosamente nello stesso giorno, un anno dopo. Un Marengo su un suo ritorno a livelli vicini a quelli dei tempi buoni, anche solo per un periodo, lo giocheremmo. Del resto non è forse vero che le cose umane, anche giunte al loro più basso punto di miseria, a un certo punto devono risalire la china dal lato opposto?

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