Agli US Open vince chi gioca meno prima

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Agli US Open vince chi gioca meno prima

Le due finaliste di quest’anno confermano che per arrivare in fondo agli US Open conta più la condizione fisica delle partite vinte. Keys-Stephens: start ore 22

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Il commento di Ubaldo in inglese con Steve Flink

Alla vigilia di ogni edizione degli US Open, nei loro pronostici sulle pretendenti al titolo, esperti e giornalisti tengono in grande considerazione le giocatrici che hanno vinto più partite durante l’anno. Questo dato di solito è un semplice indicatore di continuità. Tuttavia, la finale di stasera tra le statunitensi Madison Keys e Sloane Stephens stravolge completamente questo assunto. I numeri non mentono. Insieme le due hanno collezionato solamente 31 vittorie in questo anno solare, 17 la Keys e 14 la Stephens. Tanto per fare un paragone tutte le prime cinque al mondo da sole ne hanno vinte più di quaranta: Muguruza (42), Halep (41), Svitolina (48), Pliskova (46), Wozniacki (49).

Come in molti sanno, le poche affermazioni di Stephens e Keys dipendono in buona parte dai problemi fisici che le hanno afflitte recentemente. In particolare, per via di un dolore al piede sinistro e la conseguente operazione chirurgica nel febbraio scorso, Stephens ha disputato il suo primo match dopo quasi di un anno di assenza dalle competizioni a Wimbledon, un paio di mesi fa. La 24enne di Plantation, Florida, ha tuttavia ritrovato in fretta il feeling con la vittoria. Infatti dopo le sconfitte a Londra contro la connazionale Riske e a Washington contro Halep, Stephens ha ottenuto la semifinale a Toronto (battendo l’allora n.1 Kerber in ottavi) e a Cincinnati a precedere la sua splendida cavalcata newyorkese.

Anche Keys è stata sotto i ferri all’inizio dell’anno. Il problema per lei era stato al polso e l’intervento gli è costato la partecipazione all’Australian Open. Tuttavia la 22enne dell’Illinois ha impiegato molto più tempo per ritrovare la fiducia. Infatti Keys, nel periodo tra Miami e Wimbledon, aveva accumulato solamente 5 vittorie a fronte di ben 7 sconfitte, tutte arrivate contro giocatrici con una classifica ben più bassa di lei come Arrabuarena, Rogers, Doi, Martic e Giorgi. La svolta per lei è arrivata a Stanford dove, dopo aver rimontato al primo turno un set di svantaggio contro la qualificata americana Dolehide, ha conquistato il suo terzo titolo WTA. A Cincinnati, Keys aveva vinto due buoni match contro Vandeweghe e Kasatkina prima di arrendersi a Muguruza.

Ma per vincerle le partite bisogna giocarle. E tutte le tenniste menzionate all’inizio sono ovviamente scese in campo molto più delle due statunitensi. Insieme le statunitensi hanno giocato solamente 43 partite contro le 54 partite di Halep, le 58 di Muguruza, le 59 di Svitolina e Pliskova e le 67 della stakanovista Wozniacki. Questi ultimi numeri in particolare dovrebbero far riflettere. In quanti altri sport a così alta intensità agonistica in poco più di 8 mesi delle atlete (ma ovviamente il discorso si estende anche in campo maschile) devono reggere lo stesso numero di performance, disperse in tutti gli angoli del pianeta? Forse nessuno.

Alla luce di questi ultimi numeri si spiegano diversi sviluppi del torneo femminile a Flushine Meadows. Si spiega appunto la finale tutta americana tra Keys e Stephens le quali, paradossalmente sono state avvantaggiate dai loro rispettivi infortuni di inizio stagione. Infatti si sono potute “riposare” – mentre le altre arrivavano in fondo ogni settimana – per poi arrivare fresche allo Slam di casa. Si spiega l’ottimo torneo di Petra Kvitova, giustiziera di Muguruza in ottavi, rientrata in campo al Roland Garros dopo il terribile infortunio alla mano. Si spiega l’ottimo torneo di Venus Williams, la quale, considerata la sua età, ha scelto di far confluire le sue energie nei tornei più importanti. Leggasi Slam. Si spiega anche l’eliminazione di Wozniacki al secondo turno contro la mancina russa Makarova e quella di Pliskova contro la possente Vandeweghe al secondo turno. Soprattutto la danese ha vissuto una stagione intensissima, e anche sfortunata considerando le sei sconfitte su sei finali.

Ma per avere riprove del fatto che ormai, a causa dell’eccessivo numero di tornei nelle programmazioni ATP e WTA, gli US Open stanno diventando una gara di sopravvivenza, in cui arriva in fondo solo chi ha risparmiato energie all’inizio della stagione, basta guardare allo straordinario rendimento di Juan Martin del Potro nelle ultime due edizioni. Non può essere solo grazie ai meravigliosi ricordi del 2009 che il martellatore argentino, costretto ormai a disputare tornei con il contagocce a causa di condizioni fisiche perennemente precarie, si esprima al meglio sui campi del Billie Jean King National Tennis Center. Quest’anno del Potro ha giocato 35 partite, quasi la metà di Thiem (66), l’avversario che ha battuto in ottavi. Siamo sicuri che sarebbe stato capace di rimontare due set di svantaggio se il match fosse andato in scena a febbraio invece che a settembre?

E chissà se i tifosi italiani si ricordano che, prima del suo clamoroso successo a Flushing Meadows, anche Flavia Pennetta aveva giocato maluccio e, quindi, pochino nel 2015. Nello specifico, la tennista pugliese era arrivata a New York con alle spalle solo 31 match giocati, di cui ben 14 persi. Insomma, forse bisognerebbe smetterla di guardare a chi ha vinto più match per determinare i favoriti degli US Open e cominciare a guardare chi ne ha giocati meno.

La resa dei conti ha decretato Sloane Stehens come la più forte, al termine di una finale non bella ma senz’altro nobilitata dallo splendido abbraccio di fine partita. Madison e Sloane, due ragazze unite da una grande amicizia e ora anche dall’aver raggiunto assieme la prima finale Slam. Non soltanto per l’indubbio talento che ancora non erano riuscite a esprimere del tutto, ma anche “grazie” a un calendario di impegni meno fitto delle altre colleghe.

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